venerdì 12 settembre 2025

Fumana / Paolo Malaguti

Fumana / Paolo Malaguti. Torino: Einaudi, 2024.

Dopo Se l’acqua ride, che tanto mi era piaciuto, ricevo in regalo l’ultimo romanzo di Paolo Malaguti con la dedica dell’autore e ne affronto la lettura con grande fiducia, che lo scrittore di Monselice non tradisce.

Fumana racconta, ancora una volta, storie di un passato non troppo lontano, in una terra, quella dei paesi e delle vie d’acqua del delta del Po, che ha un’identità molto forte e porta con sé tradizioni arcaiche solo in parte superate dal progresso.

Dopo aver fatto la conoscenza con il personaggio di Ganbeto, protagonista di Se l’acqua ride, qui abbiamo a che fare con la storia di una donna, nata nell’Ottocento e sopravvissuta alla madre morta a causa del parto e all’alluvione che aveva colpito la zona. In assenza della madre e anche del padre, vivo ma sparito dopo la sua nascita, la bambina viene cresciuta da Petrolio, un vecchio misantropo, di pochissime parole, che vive della pesca nelle acque del delta di cui conosce ogni ansa. Poiché la bimba è nata con la camicia, Petrolio chiede a Lena, una guaritrice locale, di insegnarle la sua arte e di portarla con sé. È così che Lena “passa le parole” a Fumana e, dopo la morte di Petrolio, la prende con sé. Fumana diventa così una “strigossa”, ossia una donna che la gente dei dintorni considera dotata di poteri particolari per curare molte malattie.

Seguiremo la vicenda di Fumana attraverso le due guerre mondiali e poi anche nel secondo dopoguerra, prima nei suoi disperati tentativi di ritrovare Bisatta, la piccola muta rimasta senza madre che ha preso con sé prima della guerra, poi negli ultimi anni di vita vissuti nel completo isolamento fino alla morte durante l’alluvione del Polesine.

Questo nuovo romanzo conferma la straordinaria capacità di Malaguti di descrivere e trasmettere atmosfere, e mentre si legge la storia di Fumana non abbiamo difficoltà a immaginare dettagliatamente luoghi, paesaggi e personaggi. Affascinante anche l’immersione in un mondo arcaico di cui riconosciamo alcune cose, mentre ce ne sfuggono completamente altre che ci portano in un mondo che, a distanza di poco più di 100 anni, è irriconoscibile. Rispetto a Se l’acqua ride, è inoltre ancora più importante in Fumana il rapporto tra la piccola storia – quella degli individui e dei luoghi piccoli e dimenticati – e la grande storia (quella delle guerre, delle alluvioni, del fascismo) che conosciamo nei suoi aspetti macroscopici ma che qui vediamo nelle sue conseguenze sulle persone e sui luoghi.

Non posso dire che Fumana mi abbia emozionato tanto quanto Se l’acqua ride, ma è chiaro che in quel caso l’effetto sorpresa aveva avuto un ruolo che qui non ha potuto giocare. Però a questa seconda esperienza posso confermare che i romanzi di Malaguti, oltre che attenti e documentati sul piano storico, sono caratterizzati da una delicatezza di sentimenti e da un affetto per i personaggi che non è comune trovare nella letteratura contemporanea e il cui sapore antico fa bene al cuore.

Voto: 3,5/5

mercoledì 10 settembre 2025

Elisa

Ed eccomi alla ripartenza della stagione cinematografica dopo la pausa estiva. Ammetto che avevo qualche perplessità nell’andare a vedere questo film, ma l’esperienza positiva con i film precedenti di Leonardo Di Costanzo, L’intervallo prima e Ariaferma poi, mi convincono a provarci.

Alla fine Elisa non mi è piaciuto, e aggiungo purtroppo, perché mi dispiace sempre quando autori e registri che apprezzo fanno, secondo me, dei passi falsi.

Andiamo per ordine. Il film, ispirato a una storia vera, racconta la vicenda di Elisa Zanetti (Barbara Ronchi) che, dopo aver ucciso sua sorella, è detenuta in un carcere svizzero molto moderno, in cui le detenute si possono muovere liberamente nell’ampia area di pertinenza del carcere, vivono in piccole abitazioni e non in cella, lavorano nei servizi offerti dal carcere e condividono degli spazi comuni.

La vicenda prende le mosse dal momento in cui in questa struttura arriva un professore di criminologia (Roschdy Zem) che, nell’università interna al carcere, tiene una lezione sulla necessità di capire il meccanismo che muove i colpevoli e annuncia la possibilità per chi è detenuto di partecipare a una sua ricerca andando a degli incontri con lui.

Elisa, che sembra essere vittima di un’amnesia su quello che ha commesso, decide di partecipare a questi incontri, e a poco a poco, nel confronto con il professore, tutta la verità della sua storia viene a galla, mettendo la donna di fronte all’orrore che si porta dentro.

Il film di Di Costanzo, anche grazie al confronto con alcuni personaggi secondari, ma importanti, come quello interpretato da Valeria Golino, vuole indagare sul tema della colpa, concentrandosi sul punto di vista dei carnefici, ma anche sollevando la questione delle vittime, che in quanto tali non hanno voce, se non indirettamente. In un certo senso, il regista rimane sui temi a lui cari, ma ampliando il punto di vista e affrontando aspetti di ulteriore e maggiore complessità.

Sicuramente il film è ambizioso sul piano dei contenuti e della fattura – con quest’ambientazione svizzera, forse necessaria a fini di produzione, che fa sì che il film sia recitato in parte in francese (e in alcuni punti mi pare ridoppiato in italiano) – ma secondo me finisce per risultare un po' pretenzioso e non riesce davvero a stimolare riflessioni nuove sui temi che affronta. Personalmente ho trovato poco convincenti anche gli attori, eppure Barbara Ronchi e Roschdy Zem sono attori che ho apprezzato in diversi altri film.

Per me un vero peccato, anche se guardando altre recensioni mi rendo conto di essere decisamente in minoranza.

Voto: 2,5/5


lunedì 8 settembre 2025

Un'educazione orientale / Charles Berberian

Un'educazione orientale / Charles Berberian. Milano: Bao Publishing, 2024.

Charles Berberian è un fumettista francese nato a Baghdad da un padre armeno e una madre greca, ma che ha vissuto fino a sei anni insieme alla sua famiglia in Libano, a Beirut, che è il posto in cui colloca le proprie radici e a cui è fortemente legato, anche perché lì, in un palazzo sul porto, palazzo Tarazi, abitava la sua amata nonna.

L’albo di Berberian nasce, per sua stessa ammissione, durante il periodo del lockdown imposto dalla pandemia, periodo che ha risvegliato nell’autore le memorie del passato.

In questo lavoro, dunque, attraverso una forte mescolanza di stili e generi (disegni caricaturali si alternano ad altri più realistici, ma anche a fotografie e altri tipi di documenti), Berberian ripercorre la sua storia, in particolare gli anni della vita libanese, e quella della sua famiglia, e così facendo racconta anche la storia del Libano, agganciando la narrazione a due momenti cruciali che rappresentano due ferite mai pienamente rimarginate: l’inizio della guerra nel 1975 che costrinse la sua famiglia a cercare una condizione più sicura in Francia, e la tremenda esplosione nel porto di Beirut del 2020 che distrusse una parte importante della città, compreso palazzo Tarazi, tanto caro alla memoria individuale del fumettista.

Quella di Berberian è una specie di lettera di amore verso una città martoriata, su cui leader occidentali e mediorientali hanno fatto i loro giochi politici disinteressandosi della storia e delle condizioni locali, cosicché il racconto diventa anche una lettera d’accusa, senza alcuna scusante, nei confronti di chi ha reso questa terra invivibile e ha costretto molti dei suoi abitanti ad abbandonarla.

È evidente che l’albo di Berberian viene da sentimenti complessi e segue il flusso di pensieri, ricordi e rimandi tutti personali, cosicché la narrazione appare a volte un po’ confusa o quantomeno poco lineare, però gli stati d’animo emergono in maniera chiara e permettono al lettore quel salto dalla dimensione individuale della storia a quella collettiva che in questo caso è quella di un popolo, di una nazione e di un’intera area del mondo che non trova pace.

Voto: 3,5/5

venerdì 5 settembre 2025

28 domande per innamorarsi / Indyana Schneider

28 domande per innamorarsi / Indyana Schneider; trad. di Veronica La Peccerella. Roma: Edizioni di Atlantide, 2022.

Ho iniziato a leggere questo libro con un po’ di apprensione. Ho ormai un’età tale che le storie rivolte primariamente al pubblico giovanile mi lasciano un po’ perplessa in quanto tendo a trovarle superficiali o comunque troppo legate a un momento della vita che per me è inevitabilmente passato.

Dunque, di fronte alla storia di Amalia, aspirante cantante lirica australiana che si trasferisce a Oxford per studiare e di cui seguiamo l’evoluzione individuale e sentimentale nel corso di circa quattro anni, ho avuto all’inizio un atteggiamento piuttosto scettico.

In realtà, man mano che andavo avanti nella lettura, Amalia mi ha progressivamente conquistata, grazie alla stratificazione del suo personaggio e alla sincerità dei sentimenti che esprime. Al centro del racconto di Indyana Schneider – che è effettivamente una cantante lirica – ci sono due grandi passioni, con tutti gli alti e bassi cui inevitabilmente tutte le passioni vanno incontro nel corso della vita: quella per la musica, di cui l’esistenza di Amalia è innervata, e quella per Alex, un’altra studentessa di Oxford, di qualche anno più grande, di cui Amalia diventa prima grande amica e poi si innamora, ricambiata.

Intorno a queste due grandi passioni si muovono molti altri elementi che compongono l’esistenza ancora in divenire, ma già complessa, di questa giovane donna: la famiglia lontana, ma centrale; le amiche, quelle storiche e quelle nuove; le difficoltà con lo studio e poi con il lavoro.

A differenza di altre scrittrici che percepisco molto generazionali e con cui non riesco a entrare in sintonia perché sento forte la distanza sia sul piano della scrittura che dei contenuti narrativi, del romanzo della Schneider ho invece apprezzato la sua capacità di parlare a tutti, anche al di là della sua generazione. Non v’è dubbio che la protagonista appartenga a una generazione con caratteristiche differenti dalla mia (e se ne trovano diversi segnali qua e là nella narrazione), ma i sentimenti, le emozioni, e i dubbi che esprime Amalia li ho sentiti vicini e universali, anche quando i riferimenti di contesto non mi appartenevano completamente.

Insomma, mi sono emozionata e ho seguito con interesse e apprensione questa storia d’amore, che pur essendo una storia tardoadolescenziale e avendo come protagoniste due ragazze, mi pare possa parlare a chiunque nella vita si interroghi sul senso dell’amore.

Mi sarebbe piaciuto poter ascoltare la musica contenuta nei frammenti di spartito di cui è disseminato il romanzo, ma non ho trovato alcuna app gratuita che leggesse per me la musica e la riproducesse (qualcuno ha conoscenze in questo senso?), visto che io a riguardo sono completamente negata! Ma pazienza.

Voto: 3,5/5

mercoledì 3 settembre 2025

Mostre a Roma a Ferragosto: Tina Modotti e George Hoyningen-Huene

Approfitto di un raro - per me - ferragosto romano per andare a visitare due mostre di fotografia in corso a Roma, ossia Tina Modotti. Donna, fotografa, militante. Una vita fra due mondi, al Museo di Roma in Trastevere, e George Hoyningen-Huene. Art. Fashion. Cinema, a Palazzo Braschi.

La prima mostra, gratuita con la Mic card, occupa un’ala del secondo piano del Museo di Roma in Trastevere, dove sono in corso altre due mostre non fotografiche. Si tratta di una mostra piuttosto piccola – una sessantina di foto – provenienti dalla collezione della Fototeca dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) della Città di Pachuca Hidalgo, la più grande Fototeca Iberoamericana.

La mostra racconta da un lato il percorso fotografico della Modotti, dalle prime foto di still life – nate dalla frequentazione del grande fotografo Edward Weston - passando per il reportage sulle donne di Tehuantepec fino ad arrivare alle foto realizzate a Berlino e a Madrid negli ultimi anni della sua breve vita, dall’altro il percorso umano e politico di questa donna che è stata al centro del complesso momento storico che l’Europa e il mondo hanno vissuto nella prima metà del Novecento, abbracciando l’ideologia comunista ma dimostrando soprattutto una mente eclettica, poliedrica e aperta sul fronte sia artistico che umano.

Della mostra mi sono piaciute soprattutto le integrazioni di tipo documentario, ossia le lettere, le poesie, le testimonianze lasciate dalla Modotti, che per quanto mi riguarda mi hanno consentito di interpretare, spero più correttamente, il suo rapporto con la fotografia e con la vita.

La seconda mostra che sono andata a visitare è quella dedicata a un’altra figura di grande rilievo nella storia della fotografia, sebbene meno conosciuta per il grande pubblico, George Hoyningen-Huene.

La mostra, curata da Susanna Brown, espone oltre 100 fotografie organizzate in 10 sezioni, che raccontano il percorso umano e artistico di questo grande fotografo, nato a San Pietroburgo nel 1900 da una famiglia altolocata, e morto a Los Angeles nel 1968. Hoyningen-Huene fu soprattutto fotografo di moda, lavorando per molti anni per la rivista Vogue e successivamente per Harper’s Bazaar, e nell’ambito della moda fu un maestro indiscusso nella gestione della luce e nella composizione fotografica, traendo ispirazione dai balletti russi, dall’antichità classica, dal surrealismo, dalle atmosfere dei ruggenti anni Venti. Mi ha colpito sapere che la sua foto forse più iconica, Divers, che ritrae Lee Miller e Horst P. Horst, compagno del fotografo, di spalle con costumi da bagno, e fa pensare a un’ambientazione marina, è stata in realtà realizzata sul terrazzo della sua casa.

Hoyningen-Huene fu infatti uno sperimentatore e un precursore su molti fronti, ad esempio nel ritrarre i nudi maschili come statue antiche, o ancora nella scelta e nell’uso del colore dopo l’avvento della Kodachrome, o ancora nel lavoro di direttore dei costumi e dei colori negli anni di massimo splendore del cinema hollywoodiano.

Il fotografo in tutta la sua carriera fu al centro della vita culturale e intrattenne direttamente rapporti con moltissime figure rappresentative di diversi contesti, da Salvador Dalì a Jean Cocteau, da Coco Chanel alla già citata Lee Miller, da Joséphine Baker a Sophia Loren, e visse una vita personale e professionale libera e sfaccettata, che appare moderna persino a noi.

Voto: 3/5 (Modotti); 4/5 (Hoyningen-Huene)

lunedì 1 settembre 2025

Triste tigre / Neige Sinno

Triste tigre / Neige Sinno; trad. dal francese di Luciana Cisbani. Vicenza: Neri Pozza, 2024.

Il libro di Neige Sinno, che ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è uno strano oggetto letterario. Non è certamente un romanzo, possiamo definirlo un'autobiografia, ma anche all'interno di questo genere mantiene una sua originalità, o anomalia che dir si voglia. Assomiglia di più a un flusso di coscienza, ma anche questa definizione non lo rappresenta pienamente.

Triste tigre è il punto di vista dell'autrice in merito agli abusi subiti dal patrigno nel lungo periodo tra i suoi 7-8 anni e i suoi 15-16 anni.

Si tratta di una vicenda che risale ormai a un passato piuttosto lontano e per il quale il patrigno è stato condannato e ha scontato i suoi anni di carcere (dopo i quali si è fatto una nuova famiglia).

La molla che spinge la Sinno a raccontare la sua storia e i suoi sentimenti è il fatto di ritrovarsi a sua volta ad aver costruito una famiglia e ad avere una figlia con il suo compagno.

Per la Sinno non è questione di accertare la verità o di far venire alla luce dettagli ancora non emersi, bensì di fare i conti con i sentimenti contraddittori che una vicenda come questa innescano, nelle vittime per certi aspetti, e negli altri - il pubblico, le persone non coinvolte - per altri aspetti.

Il libro della Sinno non punta sulla complicità, sulla compassione, sull'empatia in senso stretto. Piuttosto appare, nell'approccio dell'autrice, una sfida o forse una necessità, in fondo tutta personale.

La Sinno non cerca l'approvazione o la condiscenza del lettore, e nemmeno la simpatia, bensì vuole raccontare una verità scomoda ma incontrovertibile di chi si porterà dietro per sempre le cicatrici di questa esperienza, e indagare dentro sé stessa alla ricerca di eventuali segni di mostruosità.

Non una lettura riconciliante, non sono nemmeno sicura di poter dire che mi sia piaciuto. Certamente però mi ha colpito.

Voto: 3,5/5

giovedì 14 agosto 2025

Da Orléans a Tours in bicicletta

Due pescatori nella Loira vicino a Beaugency
Ed eccomi al viaggio in bicicletta n. 24 da quando ho iniziato questa fausta tradizione nell'ormai lontano 2002!

Dopo l’esperienza dello scorso anno con le biciclette a pedalata assistita, S. insiste perché quest’anno torniamo alle biciclette normali, e per questo cerchiamo un viaggio relativamente breve e soprattutto affrontabile con scarsa preparazione atletica. La scelta ricade su un paese che in bicicletta abbiamo girato in lungo e in largo, la Francia, e in particolare su uno dei più classici percorsi in bicicletta, ossia i castelli della Loira.

Delle numerose varianti di questo viaggio, scegliamo il percorso da Orléans a Tours, e uno degli elementi per me più motivanti è il fatto che ricordo ancora le briochette che avevo comprato e mangiato in un panificio nella zona della stazione di Tours al termine del viaggio in bicicletta in Poitou-Charentes nel 2019!

Orléans, Place du Mortroi
Qui il mio racconto per tappe.

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Orléans

Dopo il lungo viaggio in treno che ci porta a Orléans, cambiando a Milano e poi a Parigi (con un trasbordo inatteso a Macone, in mezzo alle Alpi francesi, che determinerà più di 40 minuti di ritardo), dedichiamo la prima giornata a scoprire la città, prima di iniziare le nostre tappe in bici.

Partendo dal nostro albergo poco fuori il centro della città, l’hotel Escale Oceania, andiamo alla scoperta di Place du Mortroi e da lì della Cathédrale Sainte-Croix dove è in corso una funzione con tantissima gente, che scopriamo dopo essere le cresime. 
Dentro la Cathédrale Sainte-Croix, Orléans
In chiesa ci fermiamo un bel po’ a osservare e a fare fotografie, e al termine della funzione facciamo un giro sia all'interno della chiesa che fuori. Continuiamo quindi il giro del centro storico, alla ricerca dei tanti segni che ricordano a cittadini e visitatori il debito e la gratitudine della città nei confronti di Giovanna D’Arco, la pulzella di Orléans.

Dopo un pranzo buono, ma non indimenticabile a L'escalier, facciamo una passeggiata lungo la Loira, il fiume che ci farà compagnia per buona parte del nostro viaggio.

Un’altra passeggiata nel centro storico la facciamo prima di andare a cena da Le Brin de Zinc, dove ci sediamo ai tavoli esterni con il sole che sta calando proprio di fronte a noi. Qui mangiamo molto bene, prendendo due menu, sebbene non si possa dire che si tratti di piatti estivi.

Beaugency al tramonto
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1° tappa: Orleans - Beaugency (30 km)

Colazione, valigie, sistemazione biciclette e siamo in partenza lungo la Loira per una tappa piuttosto breve che ci porterà a Beaugency. Lungo il percorso facciamo una sosta a Saint Hilaire Saint-Mesmin, in una boulangerie per comprare qualcosa da mangiare per pranzo (quiche e brioche). Poi andiamo spedite fino a Meung sur Loire dove vorremmo vedere il nostro primo castello ma il lunedì e il martedì è chiuso, quindi ci accontentiamo della visita alla vicina chiesa.

Ripartiamo alla volta di Beaugency dove arriviamo all'ora di pranzo. Qui troviamo l’albergo dove alloggiamo chiuso e pure il castello. A quanto sembra entrambi aprono dopo pranzo, cosicché facciamo una pausa pranzo e un piccolo riposino su una panchina lungo il fiume, in compagnia di un gatto.

Dentro la chiesetta di Saint Hilaire Saint-Mesmin
Quando torniamo al castello lo troviamo chiuso e non è chiaro se è chiuso il lunedì, o è sempre chiuso. Cominciamo dunque a pensare a un posto dove cenare e scopriamo che la gran parte dei ristoranti del paese è chiuso il lunedì. Visto che a Beaugency c’è una delle numerose leggende che hanno a che fare con il ponte del diavolo, cominciamo a pensare di essere vittime di una qualche maledizione!

Andiamo dunque verso l’albergo, finalmente aperto e molto carino, anche se essenziale, il Relais des templaires, e la signora alla reception, che è molto gentile, ci dà un elenco di ristoranti aperti il lunedì tra cui scegliamo la Rotisserie des moines, collegato all'Hotel de l'Abbaye. Carni alla griglia e contorni, tutto molto buono, oltre che una magnifica vista sulla Loira, anche se la gestione è un po’ naif. Facciamo infine una bella passeggiata in paese mentre tramonta il sole, prima di tornarcene in albergo.

Il castello di Chambord
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2° tappa: Beaugency - Blois (50 km)

Dopo un’ottima colazione al nostro alberghetto di Beaugency, partiamo per la seconda tappa che ci porterà in circa una cinquantina di chilometri a Blois. I primi 15 km passano molto tranquilli lungo la Loira e anche la temperatura è ottimale.

Ci fermiamo a Saint Dyé sur Loire per comprare qualcosa per pranzo in una boulangerie e poi andiamo verso Chambord, per visitare il nostro primo vero castello. Qui lasciamo le bici e compriamo il biglietto per la visita. All’inizio del percorso ci fermiamo a vedere il video in una delle prime salette del castello e devo dire che si rivela essenziale per comprenderne genesi e struttura, e interpretare quello che vedremo. Dopo aver girato in lungo e in largo il castello, torniamo alle bici e mangiamo qualcosa in area picnic (con a fianco degli spagnoli rumorosissimi).

Blois
Quando riprendiamo il percorso è il primo pomeriggio e mancano ancora circa 16 km alla destinazione finale, mentre invece io pensavo che non fossero più di 10. C’è un caldo micidiale e il percorso è quasi completamente in pieno sole. Soffro dunque parecchio questo ultimo tratto e, quando arriviamo a Blois, vorremmo un po’ di riposo e refrigerio.

Peccato che, oltre a far fatica a trovarlo, l’albergo nel quale siamo, Anne de Bretagne, si rivela un’esperienza non esattamente positiva: siamo in piccionaia, in un’ala dell’albergo al terzo piano senza ascensore, la stanza è espostissima al sole, non c’è l’aria condizionata e l’unico ventilatore presente è rumorosissimo.

Lungo il percorso in bicicletta
A cena andiamo in un posto non lontano dall’albergo, l’Oratoire, un ristorante piuttosto chic che occupa l’antica orangerie del castello di Blois e si trova proprio di fronte a quest’ultimo. Dopo cena facciamo un lungo giro per la città seguendo le indicazioni di percorso che abbiamo sulla nostra app di viaggio. Tocchiamo cattedrale, altre chiese importanti, giardini, la zona medievale, i fossati del castello.

Sarà perché siamo stanchissime ma non riusciamo a entrare pienamente in sintonia con la città, e tra l’altro quando torniamo in albergo la nostra camera ha una temperatura folle che ci costringe ad aprire finestra e porta della camera contemporaneamente per provare a creare un po’ di corrente. Peccato che dopo un po’ passano i vicini della stanza accanto proprio mentre ci stiamo cambiando.

Il castello di Amboise
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3° tappa: Blois-Amboise (47 km)

Dopo una notte difficile a causa del caldo, ci alziamo presto e, fatta la colazione, cerchiamo di partire il prima possibile per sfruttare le ore più fresche. I primi 30 km scorrono via veloci lungo la Loira e in men che non si dica siamo a Chaumont, dove ovviamente c’è un castello. La nostra guida dice di fermarsi a visitarlo e di approfittare anche del Festival dei giardini in corso, ma pur arrivando fino all’ingresso, dopo una rapida valutazione dei tempi, decidiamo di non fermarci per non ritrovarci nella situazione del giorno precedente.

Arriviamo dunque al piccolo paese di Mosnes intorno all’ora di pranzo e qui c'è una piccola bottega che vende cose da mangiare e bere con dei tavolini all'ombra. Decidiamo dunque di fermarci per mangiare e riposarci un po’. Tra l’altro di lì a poco la bottega chiude per la pausa post-prandiale.

La Loira ad Amboise
Non sappiamo che ripartendo da Mosnes ci attende una lunga salita – che io mi faccio in buona parte a piedi spingendo la bicicletta – e questo ci fa capire che anche oggi gli ultimi 15 km saranno faticosi.

E infatti attraversiamo campagne, vigneti e paesini andando su e giù per le piccole colline che caratterizzano questo paesaggio, con la temperatura che va aumentando, e che ci impedisce di apprezzare completamente quello che abbiamo intorno. Comunque, teniamo duro e, nonostante il caldo, arriviamo infine ad Amboise dalla parte alta della città.

Il nostro alberghetto, Le blason, è un edificio storico a pochi passi dal centro, ma dentro c'è un bel fresco e le stanze sono ben ristrutturate! Evviva!

Amboise
Il pomeriggio lo dedichiamo alla visita del castello, davvero bello, esterni ed interni. Vorremo anche andare al Clos Lucé, la residenza francese di Da Vinci, ma arriviamo che sta chiudendo (sono le 18!). Devo dire che in un paese in cui l'estate il sole tramonta quasi alle 23, gli orari di apertura dei monumenti risultano davvero ridicoli e poco comprensibili.

Dopo un giro in centro, un aperitivo (finalmente il mio pastis!) e una passeggiata lungo la Loira – funestati da un caldo micidiale - scegliamo il posto dove andare a cena, ossia la Maison Restaurant Voltaire, dove mangiamo un tataki di tonno e un confit de canard con patatine fritte più 25 cl di un ottimo rosato locale. Consigliato.

Il castello di Chenonceaux
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4° tappa: Amboise - Tours (55 km)

Stamattina ci alziamo di buon’ora perché abbiamo deciso di fare il giro lungo, quello con la deviazione a Chenonceaux che tutti ci dicono essere il castello più bello della zona. Quando ci alziamo ci rendiamo conto che durante la notte ha piovuto e l'aria si è rinfrescata, anche se questo ha prodotto una grande umidità nell’aria! Mentre facciamo colazione comincia di nuovo a piovere e dunque aspettiamo un attimo prima di partire.

Appena smette andiamo a prendere le bici e, dopo una piccola disavventura con dei vecchietti che hanno fatto bloccare il cancello del garage, finalmente partiamo.

Dentro il castello di Chenonceaux
Il percorso inizia subito con una bella salita a metà della quale scendo. Sono già demoralizzata, ma in realtà a poco a poco prendo il ritmo dei saliscendi che in circa 15 chilometri ci portano a Chenonceaux. È piuttosto presto e al castello c'è ancora poca gente, così iniziamo la visita in santa pace. Peccato che man mano che procediamo il numero delle persone si fa sempre più alto e la visita sempre più stressante.

Il castello però è bellissimo, e il fatto che la sua struttura si sviluppi a cavallo del fiume Cher con le sale fatte costruire da Caterina de’ Medici direttamente sul ponte lo rende molto affascinante. L’area occupata è molto ampia e, oltre agli interni del castello vero e proprio, meritano una visita e suscitano emozioni anche i giardini, il gabinetto delle scienze, la cancelleria e la farmacia.

Verso Tours
Ripartendo da Chenonceaux dopo pranzo, ci attendono 36 km fino a Tours che ci spaventano non poco. In realtà dobbiamo ammettere che sono tra i chilometri più belli di questa vacanza in bici, tra vigneti, fiumi, castelli e dimore. Lungo la strada ci sarebbe la deviazione per il castello di Nitray ma non vogliamo allungare ulteriormente. Ci affacciamo invece al parco del castello della Bourdaisière e, dopo qualche foto, riprendiamo il percorso. Abbandonato lo Cher, siamo ora di nuovo sulla Loira e non manca tanto a Tours.

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Tours

Come per Orléans, dedichiamo alla città di Tour una intera giornata, dopo la conclusione del viaggio in bicicletta, per poter esplorare al meglio questa città.

Per le strade di Tours
A Tours dormiamo all’hotel Mirabeau subito fuori dal centro e non lontano dalla stazione.

Per il giro della città ci affidiamo all’app di viaggio che stiamo utilizzando.

Partiamo dalla zona più antica, l'insediamento che risale al periodo gallo-romano, poi andiamo verso la cattedrale di Saint Gatien, dove visitiamo anche il chiostro interno.

Da qui procediamo verso Rue Colbert, la strada dei ristoranti, quindi sbuchiamo su Rue National, dopo aver visto numerose case a graticcio e chiese, quindi ci affacciamo sulla Loira dove è stata allestita la guinguette estiva.

Nel chiostro della cattedrale di Tours
Da qui andiamo verso il centro storico vero e proprio facendo diverse stradine che ci permettono di vedere case antiche molto belle, la sede dell'Università, i resti romani, e la famosa piazza Plumereau piena di sedie dei ristoranti e cuore del centro storico. Da qui risaliamo verso le halles, quindi torniamo a place du Marché dove c'è la scultura del mostro-gorilla e ci fermiamo a un panificio per il pranzo con quiche. Dopo la pausa riprendiamo il percorso verso la zona della tour Charlemagne e della basilica di San Martino (patrono di Tours) e facciamo la bella via Scelleries con tutti i suoi negozietti.

Arriviamo dunque alla zona delle librerie antiquarie e poi al teatro dell'opera e infine al Musée des beaux arts dove visitiamo solo i giardini e salutiamo l'elefante impagliato Fritz che ha una storia molto triste alle spalle.

Rue Colbert, Tours
A Tours ceniamo la prima sera da Le chien jaune dove mangiamo un polpo con chimichurri e un pollo intero farcito con pane all'aglio. Ottimo! La sera successiva siamo a Les canailles in Rue Colbert, dove abbiamo avuto una disavventura con la prenotazione: prenoto con The Fork, salvo poi accorgermi che si tratta di un ristorante omonimo in un’altra città!. Alla fine riusciamo comunque a prenotare telefonicamente e per cena mangiamo polpo alla griglia con piselli, orata e costolette di agnello, poi brioche pain perdu con caramello. Tutto di grande soddisfazione!!

Ovviamente non possiamo (e nessuno può) perdere a Tours la Briocherie Lelong dove compro tutte le briochette che ragionevolmente posso portare in Italia, oltre a quelle da mangiare al momento.

Rue National, Tours
Sarà anche per la Briocherie Lelong ma la città di Tours mi è piaciuta molto: una città della giusta dimensione, accogliente, equilibrata tra l'essere tranquilla e attiva, esteticamente molto gradevole e con tanti angoli molto belli, nonché con un numero di turisti giusto per le sue dimensioni. Una di quelle città dove credo si viva bene. Davvero una scoperta!

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Per una selezione più ampia di foto del viaggio si veda qui sul mio profilo Behance.

martedì 12 agosto 2025

Aragoste a Manhattan = La Cocina

In una serata di fine luglio in cui mi sento emotivamente stremata non so se faccio bene a scegliere di andare a vedere questo film di Alonso Ruizpalacios, La Cocina nel suo titolo originale (in Italia divenuto Aragoste a Manhattan), da cui certamente non si esce con l’animo leggero.

Il film di Ruizpalacios è tratto dalla pièce teatrale del 1957 di Arnold Wesker, e tradisce questa origine nella sostanziale unità di tempo e di luogo (la cucina di un ristorante – The Grill - nel centro di New York) e anche nella sceneggiatura, che in alcuni passaggi appare molto più teatrale che cinematografica.

La cucina nella quale è ambientata questa storia è popolata da moltissime persone, i cuochi, i loro aiutanti, e le cameriere, tutti gestiti da un capo-cuoco, a sua volta sotto il controllo di manager che prendono ordini dal proprietario. Gli elementi scatenanti della narrazione sono l’arrivo di due nuove unità di personale, tra cui una cuoca messicana che conosce dall’infanzia uno dei cuochi già operativi e con la testa “più calda”, Pedro (Raúl Briones), e l’apparente sparizione dalla cassa di 800 dollari di incasso, per i quali il proprietario dà incarico al manager di individuare il colpevole tra i dipendenti.

Questi elementi narrativi servono però solo a portare alla luce le dinamiche di un microcosmo in cui si riproduce e si amplifica la lotta di classe che caratterizza la nostra società, nella quale il capitalista – che, non credo a caso, qui si chiama Rashid – sfrutta tutti in funzione del proprio arricchimento personale, non disdegnando forme più o meno becere di populismo, i manager suoi sottoposti si limitano a eseguire gli ordini senza porsi alcun interrogativo etico – e spesso sono immigrati di seconda generazione -, e i lavoratori provengono o da quartieri e classi sociali povere ed emarginate o sono immigrati senza documenti. Tutta la dinamica interna è costruita per scaricare proprio sui lavoratori tutte le tensioni e i conflitti, la cui origine e causa sta certamente altrove, creando anche al loro interno forme di classismo e innescando una guerra tra poveri che danneggia solo loro e non tocca minimamente chi sta sopra di loro.

In questo contesto l’attenzione si concentra in particolare su Pedro, immigrato messicano senza documenti, che ha una storia con Julia (Rooney Mara), una giovane americana con un passato difficile (come scopriremo più avanti). Julia è incinta e dovrà decidere – anche attraverso il confronto con Pedro – cosa fare, nella consapevolezza che gente come loro non ha mai davvero scelta.

Dentro un’azione a tratti convulsa e forsennata, raccontata in uno splendido bianco e nero, si aprono di tanto in tanto squarci di poesia e malinconia, che talvolta si tingono di colore, esasperando, se vogliamo, il senso di alienazione che pervade i protagonisti sullo schermo e anche gli spettatori.

Che il sogno americano sia morto da tempo lo sappiamo ormai per certo. Ma che questo sogno si sia trasformato nell’incubo di questa cucina nel pieno centro della città più iconica degli Stati Uniti forse tendiamo a non volerlo vedere o a far finta di non vederlo, fino a quando le tensioni di quella cucina non invadono anche le sale (e dunque il mondo) dove persone rilassate e felici vivono ignorando volutamente il prezzo della loro serenità oppure, lì dove ne sono consapevoli, con un senso di impotenza.

Insomma, una bella botta.

Voto: 3,5/5