lunedì 7 luglio 2025

Alla scoperta della Sicilia orientale e centro-meridionale: Etna, Siracusa, Piazza Armerina, Agrigento

Approfittando dei ponti postpasquali io e S. decidiamo di tornare in Sicilia dove eravamo state l’ultima volta nel maggio del 2021 nella zona di Trapani e Favignana. Questa volta l’obiettivo del nostro tour è quello di esplorare l’area sud-orientale dell’isola, con una breve puntatina nel centro.

*************************
Sull'Etna
Etna e dintorni


La prima tappa del tour è la zona dell’Etna. Arriviamo in aereo a Catania, qui noleggiamo un’auto e ci dirigiamo immediatamente verso il vulcano. Dormiamo alla periferia di Linguaglossa, un paese alle pendici nordest dell’Etna.

La casetta è molto carina (ha un grande giardino di inverno coltivato a cactus, davvero spettacolare!) e Marina, la nostra host friulana con marito siciliano, è davvero molto molto disponibile.

Il tempo di sistemarci e andiamo a mangiare Dai Pennisi (macelleria con cucina) dove mangiamo una tartare buonissima e poi una grigliata mista - soprattutto del maiale di zona - con contorno di cime di rapa e patate e Etna rosso ad accompagnare. Poi un cannolo in due e io un amaro Reset, molto buono.

Sull'Etna con le guide vulcanologiche
Dopo 8 giorni, al ritorno dal viaggio, dovendo tornare a recuperare al nostro b&b un paio di jeans che S. si è dimenticata, ne approfittiamo per un pranzo da Nica Nuci dove mangiamo arancino, un pezzo di tavola calda con melanzane e una brioche gigante con pistacchio.

Per il giorno dopo abbiamo prenotato un’escursione sull’Etna con le guide vulcanologiche che parte da Piano Provenzana. Andiamo su con pulmino 4x4 e con Davide come guida, un ragazzo preparato e carino. Saliamo prima a poco più di 2000 metri dove si vede l'ultima colata lavica (prima di quella recentissima di maggio), poi saliamo a 2800 metri, dove c'è la neve e siamo proprio sotto i tre crateri sommitali. Un'esperienza davvero molto molto bella e un paesaggio incredibile anche grazie a un meteo davvero molto favorevole.

Castello di Lauria a Castiglione di Sicilia
Dopo una visita al paese di Castiglione di Sicilia con passeggiata nel centro storico fino al castello di Lauria da dove si vede la valle dell'Alcantara, scendiamo al fiume, all’altezza delle piccole gole e camminiamo lungo il fiume mentre il sole tramonta.

Il giorno dopo prima di andare verso Siracusa facciamo un salto a Taormina a vedere il teatro greco. C'è parecchio traffico, soprattutto lungo la costa, e salendo verso Taormina ci sono anche alcune deviazioni. Stiamo per rinunciare perché non troviamo parcheggio ma alla fine arriviamo all’imbocco dell’orrendo parcheggio di porta Catania e ci fermiamo. Attraversiamo la città, piena di turisti e di negozi per turisti, e siamo al teatro greco che offre un colpo d’occhio davvero spettacolare. Sul cucuzzolo della montagna che guarda il mare da una parte e dall'altra e domina la costa offrendo anche una magnifica vista dell’Etna.

Taormina
*************************
Siracusa e dintorni

A Siracusa siamo in un piccolo appartamento poco fuori Ortigia.

Nella nostra prima passeggiata verso l’isola di Ortigia facciamo una sosta alla Nuova Dolceria su corso Umberto per mangiare granita e brioche.

Ortigia la giriamo lasciandoci guidare dall’istinto e dalla voglia di esplorare, e ovviamente non manchiamo la visita al duomo e la passeggiata fino alla punta più a sud dell’isola, dove c’è il castello normanno.

All'ingresso del duomo di Siracusa
La sera ceniamo da Anchovies vicino a palazzo Bellomo, come suggerito dal nostro host. Mangiamo benissimo: tartare di gambero rosso, spaghetto alle acciughe, calamaro ripieno e cannolo con la ricotta. Tutto eccellente.

Il giorno dopo facciamo un giro al mercato di Ortigia dove compriamo il polpo da cucinare in serata e qualcosa da portare a casa. Non ci lasciamo sfuggire l’occasione di comprare un panino dal caseificio Borderi che mangeremo per pranzo.

Poi andiamo verso sud. La destinazione di oggi sono i laghetti di Cavagrande, un posto che molti ci hanno suggerito di visitare. Oggi il tempo è variabile e tendente al nuvoloso e forse è la giornata migliore per questa escursione che prevede una discesa nella gola che dura circa 45 minuti e una risalita di circa 50. Rispetto a quanto ci avevano raccontato – ossia un accesso non regolamentato e consentito dal custode in maniera ufficiosa – ora per entrare si paga un biglietto e il sentiero in discesa è in buona parte dotato di corrimano in legno (evviva!).

Laghetti di Cavagrande
Quando arriviamo in fondo alla gola, ai laghetti, c'è poca gente e un'atmosfera abbastanza paradisiaca. Qui ci fermiamo su una roccia liscia e bianca a mangiare il nostro panino guardando l'acqua smeraldina e ascoltando il rumore delle cascatelle. Poi torniamo su, con una certa fatica ma con soddisfazione. Ci rimettiamo in marcia verso Noto che abbiamo scelto come meta per vedere almeno uno dei paesi del barocco siciliano. Facciamo una passeggiata nel centro, dove non ci sono per fortuna molti turisti e poi ci rimettiamo in macchina per tornare a Siracusa.

La mattina seguente e dopo aver caricato le valigie in macchina (visto che per la serata saremo a Piazza Armerina) andiamo alla vicina chiesa di Santa Lucia dove c'è un quadro di Caravaggio che raffigura il seppellimento della santa. Un sagrestano si offre di farci da guida: peccato che è logorroico e dopo aver parlato di Caravaggio e del quadro sta per raccontarci tutta la storia di Siracusa. Anche quando diciamo che “purtroppo” dobbiamo scappare trova il tempo di darci il cotone benedetto della santa.

Nell'area archeologica di Siracusa
A questo punto siamo pronte per la visita all'area archeologica Neapolis dove visitiamo il teatro greco (in allestimento per le prime rappresentazioni di maggio), le latomie e le grotte della grande cava, l'anfiteatro e i resti del tempio: posto molto bello e suggestivo, peccato per i miliardi di ragazzini in visita scolastica.

Il pomeriggio ci spostiamo verso sud, verso la riserva naturale di Vendicari, in particolare la zona della vecchia tonnara. Proprio alla spiaggia della tonnara faccio il primo bagno della stagione. Da qui ci spostiamo a Marzamemi per la visita al borgo dei pescatori, posto suggestivo nonostante sia ormai iperturistico e pieno di bambini e ragazzi in gita scolastica. Prendiamo due granite e ce ne andiamo, sempre colpite dalle contraddizioni di questa isola in cui bellezza e bruttezza sembrano inscindibili. Poi ci rimettiamo in macchina dirette a Caltagirone.

Oasi di Vendicari
Visitiamo il paese delle ceramiche – dove in generale c’è poca gente -, saliamo per la famosa scalinata con i gradini decorati dalle piastrelle dipinte a mano e compriamo delle ceramiche da portare a casa. Il paese ci è piaciuto molto nel suo complesso: fermo agli anni Cinquanta ma con una identità spiccata e segni di brutture abbastanza contenuti.

*************************
Piazza Armerina e la Villa romana del casale

Ci rimettiamo in macchina in direzione di Piazza Armerina. Attraversiamo così una zona interna della Sicilia con un paesaggio che niente ha da invidiare a certe parti della toscana: colline verdi, casali, cipressi, morbidi declivi baciati dalla luce del tramonto. Qua e là purtroppo un viadotto o una cava, però restiamo davvero a bocca aperta, perché non avevamo idea potesse esserci un paesaggio così rigoglioso in Sicilia.

Verso Piazza Armerina
A Piazza Armerina siamo in un piccolo monolocale nel centro storico, che dà sui tetti della cittadina.

A cena andiamo alla Trattoria del goloso dove prendiamo un antipasto della casa per 1 (abbondante e ottimo), una pasta con salsiccia e zucchine e pomodori secchi, e un agnello al forno con patate da urlo. Poi cannolo e biancomangiare per finire. Davvero tutto molto buono e prezzo più che adeguato.

Il giorno dopo è dedicato alla Villa romana del casale, che sta a pochi chilometri dalla città, un edificio probabilmente di un prefetto romano, con funzioni sia di amministrazione e rappresentanza che di abitazione privata. È una costruzione straordinaria sia dal punto di vista della struttura architettonica che dal punto di vista decorativo, coperta com'è da un tappeto di mosaici davvero straordinari che fanno impallidire qualunque cosa io abbia visto prima. Una roba veramente incredibile.

La Villa romana del casale
Dopo aver mangiato qualcosa ci spostiamo verso Aidone dove vogliamo visitare il museo archeologico regionale nel quale sono conservati i reperti archeologici di Morgantina e in particolare una famosa dea a figura intera. Nel paese c'è la festa patronale di San Filippo e questo ci spiega perché un sacco di gente sta andando a piedi da Piazza Armerina a Aidone (un rito collegato alla festa). Per fortuna riusciamo a parcheggiare non lontano dal centro e andiamo a piedi al museo passando per la fiera che invade il centro del paese.

*************************
Agrigento e dintorni

Punta bianca
Il giorno dopo andiamo verso Agrigento e prima di andare al nostro alloggio decidiamo di fare una puntatina al mare, alle spiagge dopo la Scala dei turchi. Ci troviamo però imbottigliate a Porto Empedocle dove scopriamo essere ancorata la Amerigo Vespucci cosicché metà Sicilia si è spostata per venire a vederla. Io mi innervosisco e non sappiamo bene se andare al b&b in anticipo oppure cambiare programma. Alla fine decidiamo di spostarci verso la spiaggia dello Zingarello che sta dal lato opposto di Agrigento rispetto a Porto Empedocle. Non ci fu scelta più azzeccata. Scendiamo sulla spiaggia con le falesie dietro, dove siamo praticamente da sole per quasi tutto il tempo della nostra permanenza. Da lontano vediamo un promontorio bianco che scopriamo essere un parente minore della Scala dei turchi: Punta bianca. Così quando siamo stanche dello Zingarello decidiamo di andarci. Ci si arriva con un lungo sterrato e poi una breve passeggiata a piedi che ci fa scoprire anche delle calette molto belle. Passiamo davanti al rudere della casa dei doganieri e poi facciamo una passeggiata sulla spiaggia.

Valle dei templi di Agrigento
In serata ci sistemiamo al nostro b&b che sta nella parte antica di Agrigento, molto affascinante, forse perché ancora non invasa dai turisti, e andiamo a cena da Osteria Ex Panificio, di cui abbiamo letto bene e da cui c’è uno splendido panorama sulla valle dei templi e sul mare. Si capisce subito che non sono molto organizzati. Alla fine mangiamo discretamente, 3 antipasti (menzione speciale per la bruschetta con robiola e pancetta), un primo piatto a mezzi e una caponata, più dessert. Tutto discreto senza picchi.

Il giorno seguente, la mattina andiamo al giardino della Kolymbethra dove abbiamo appuntamento con una signora del Fai che ci fa entrare al giardino separatamente dall'ingresso alla valle dei templi, cosa di solito non possibile. Facciamo il giro del giardino che sta dentro una cava che funzionava da cisterna dell'acqua.

Lido Rosello
Poi andiamo in macchina verso Lido Rossello che sta a nord di Agrigento, subito dopo la Scala dei turchi. Spiaggia stupenda e deserta con venticello piacevole. Bagno e poi lunga passeggiata fin quasi ai piedi della Scala dei turchi con conseguente ulteriore bagno.

Torniamo ad Agrigento dove prima di rientrare a casa mangiamo due cassatine e un latte di mandorla da Infurna su via Atenea. Ottimi. Nel tardo pomeriggio abbiamo la visita guidata alla valle dei templi (che in realtà, come ci dice la guida, è propriamente la collina sacra dei templi). Sarà Calogero dell’Associazione Vie di Sicilia ad accompagnarci per l'intero giro dal tempio di Giunone fino al tempio dei Dioscuri. Torniamo indietro per la stessa strada godendo la luce del tramonto.

La cena la facciamo da Cusà, posticino di street food di pesce in centro, dove mangiamo delle polpettine fritte di pesce bianco e due panini col pesce: polpo e gambero rosso. Tutto buonissimo.
Il giorno dopo è purtroppo già ora di tornare.  

Passeggiando per la Valle dei templi
*************************
Considerazioni finali

La Sicilia è uno strano posto. Ha luoghi di una bellezza incredibile sia dal punto di vista artistico e architettonico, sia dal punto di vista naturalistico; è una terra ricchissima di storia e di umanità; è una miniera infinita di scoperte e di sorprese. E, però, è anche una terra di brutture, incompiutezze, devastazioni paesaggistiche, in cui si respira chiaramente la presenza di forze che operano in maniera sotterranea con conseguenze non banali sul contesto sociale e sulle relazioni umane.

C’è qualcosa di atavico e non scardinabile nei rapporti di forza che governano questa terra, al contempo c’è tutto il bello e il buono del Sud nella sua forma più pura e distillata che attira e conquista.
Personalmente la Sicilia non smette mai di sorprendermi.

*********************
Per una selezione più ampia di foto del viaggio in Sicilia si veda qui sul mio profilo Behance.

venerdì 4 luglio 2025

Da Caravaggio a Mario Giacomelli: le mostre a Palazzo Barberini e al Palazzo delle Esposizioni

Approfitto di un weekend in compagnia per recuperare alcune mostre in programmazione in questa primavera-estate romana, già caldissima all’inizio di giugno.

La prima – prenotata già diversi mesi fa – è quella dedicata a Caravaggio, in corso a Palazzo Barberini che attinge in prima battuta alle collezioni permanenti del museo e le arricchisce con prestiti provenienti da molte altre istituzioni museali italiane e straniere.

La mostra, curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, fa parte delle iniziative inserite nel programma giubilare. In un periodo – che ormai dura da diversi anni – in cui le mostre sono in tono sempre minore, con poche opere davvero rilevanti, a causa dei proibitivi costi di assicurazione per lo spostamento dei lavori di artisti così rilevanti, Caravaggio 2025 è un’eccezione, confermata anche dalla risposta del pubblico, che ha esaurito i biglietti disponibili fino alla sua conclusione molte settimane prima.

Effettivamente, una mostra davvero monografica come questa era un pezzo che non la si vedeva: a Palazzo Barberini nel percorso espositivo di quattro sale, corrispondenti ad altrettante sezioni della mostra, si ha la possibilità di seguire tutta la carriera artistica di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, in parallelo con le sue vicende di vita, a partire dalle opere degli inizi, tra cui il Narciso e i Bari, fino ad arrivare all’ultima realizzata poco prima della morte, il Martirio di sant’Orsola, prestato da Intesa Sanpaolo.

Nel mentre opere importanti come i ritratti di Maffeo Barberini, l’Ecce Homo, Santa Caterina, Marta e Maddalena, Giuditta e Oloferne, San Francesco in estasi, e molti altri lavori che permettono di osservare da vicino l’eccezionalità delle doti pittoriche di Caravaggio.

Io sono rimasta particolarmente colpita dalla Cattura di Cristo, l’unico quadro in mostra non fotografabile, che offre a chi guarda una composizione che ho trovato di una modernità davvero sconcertante.

Nonostante i tanti visitatori all’orario in cui ci sono andata io (ossia alle 19,40 di un venerdì sera – ma mi dicono che la situazione non cambia in altri orari e giornate), è possibile godersi il percorso e le opere, magari anche tornando indietro nelle sale lì dove se ne senta il bisogno.

Il pomeriggio successivo (sabato) è stato invece dedicato alle mostre in corso al Palazzo delle Esposizioni, luogo espositivo a mio parere molto sottoutilizzato, e dove infatti mancavo da tempo.

Noi abbiamo visitato le tre mostre fotografiche, dedicate rispettivamente ad Albert Watson, in particolare al suo lavoro dedicato alla città di Roma, dal titolo Roma Codex, a Mario Giacomelli (Il fotografo e l’artista) e ai premiati del World Press Photo.

La mostra delle grandi foto di Albert Watson è ospitata al piano terra del museo, nelle sale a sinistra: si tratta di grandi stampe di foto che raccontano lo sguardo del fotografo scozzese sulla città di Roma e le persone che la rappresentano, tra cui molti attori, registi, artisti, uomini politici ecc. Uno sguardo che può apparire a tratti convenzionale e folckloristico, ma che riesce anche a offrire punti di vista originali su una città che è tra le più fotografate al mondo.

Ma il vero obiettivo della nostra gita al Palazzo delle Esposizioni è la mostra dedicata a Mario Giacomelli, il fotografo di Senigallia che molti conoscono per la serie di fotografie dei pretini sulla neve dal titolo Io non ho mani che mi accarezzino il volto, che furono scattate nel cortile del seminario arcivescovile di Senigallia. Anche queste foto sono presenti in questa mostra e lo sono a fianco dei provini su cui Giacomelli aveva scritto i suoi appunti relativi agli interventi da fare in camera oscura, il che dice tantissimo del modo di lavorare del fotografo marchigiano, un modo che confina più con una ricerca artistica che con una vera rappresentazione del reale. Giacomelli cerca forme e grafismi, trasfigurando la realtà, a volte rendendola quasi irriconoscibile, e per questo una parte importante del suo lavoro – oltre allo scatto – è l’attività in camera oscura. Per questo la mostra, che consente di vedere oltre 300 stampe originali del fotografo, prova a raccontarne la poetica non solo attraverso le sue foto, ma anche attraverso la relazione con le opere di artisti contemporanei come Afro (Afro Basaldella), Roger Ballen, Alberto Burri, Enzo Cucchi, Jannis Kounellis. Viene così magnificamente fuori che le foto di Giacomelli vanno molto al di là di quanto rappresentano, e sono dei paesaggi interiori ed emotivi, costruiti a partire da luoghi, persone, ambienti come fossero tele appena abbozzate da cui il fotografo fa emergere l’essenza.

Non esattamente un tipo di fotografia di facile fruizione (non a caso la serie dei pretini è la parte più conosciuta della sua produzione, in quanto forse la più largamente fruibile), ma un viaggio spaesante, a tratti disturbante, nella mente di una persona dalla creatività decisamente strabordante e in parte naif.

La nostra visita al palazzo delle esposizioni si concluda con la visita alla sezione dedicata alle foto vincitrici del World Press Photo, il famosissimo contest di fotogiornalismo che ogni anno premia foto singole, storie e reportage di fotografi professionisti provenienti da ogni parte del mondo, e che di questo mondo raccontano attraverso le immagini realtà, persone e situazioni più o meno note.

Alcune delle foto in mostra hanno avuto già una larga esposizione mediatica, tra cui ad esempio la foto vincitrice della fotografa palestinese, Samar Abu Elouf, scattata per il New York Times, che ritrae un ragazzo rimasto mutilato negli attacchi su Gaza. Si tratta di foto che sono l’esatto contrario di quelle di Giacomelli: tanto quelle provavano a trasfigurare o ad allontanarsi dalla realtà, quanto queste affondano le radici nel mondo reale e nella vita delle persone.

Il Palazzo delle Esposizioni offre dunque al visitatore l’occasione di fare un viaggio attraverso tempi e modi diversi di fare fotografia, consentendogli dunque di apprezzare la complessità e le molteplici sfaccettature di quella che non a caso è ormai considerata a tutti gli effetti l’ottava arte.

mercoledì 2 luglio 2025

Christopher Owens. Unplugged in Monti, Teatro Basilica, 7 giugno 2025

La mia conoscenza di Christopher Owens è piuttosto recente: nel mio periodico girovagare tra le recensioni di dischi avevo letto molto bene del suo ultimo album da solista, I wanna run barefoot through your hair uscito a distanza di molti anni dal precedente e inserito nelle classifiche delle migliori uscite del 2024.

Avevo dunque subito acquistato il disco su bandcamp, come faccio sempre, e lo avevo iniziato ad ascoltare. A differenza di altre cose comprate e abbandonate quasi immediatamente, il disco di Owens mi ha lasciato qualcosa e dunque l’ho ascoltato più e più volte apprezzandolo molto.

Quando ho visto comparire il suo nome nella programmazione di Unplugged in Monti ne sono stata dunque molto contenta e mi sono fiondata a comprare i biglietti. E poi nel corso del tempo ho proposto a diverse persone di venire con me al concerto. Alla fine in cinque abbiamo vissuto questa esperienza abbastanza surreale.

Christopher Owens è arrivato sul palco con un completo chiaro con camicia di lino e pantaloncini corti, scarpe da ginnastica con carrarmato e calzette da ragazzino, occhiali da sole e la frangia dei capelli completamente calata sugli occhi.

Ha iniziato ad armeggiare con la sua strumentazione musicale e poi è partito con una lunga intro strumentale alla chitarra, prima di iniziare a cantare.

Nel corso del concerto abbiamo potuto vedere il viso di Owens solo per pochi minuti, e in generale il cantautore americano ha interloquito pochissimo con il pubblico, tra l’altro parlando in modo così smozzicato da rendere difficile anche la comprensione. E questo potrebbe essere niente.

Il fatto è che anche la performance musicale non ha reso merito alla qualità delle canzoni e alle sue capacità di musicista. Ad eccezione che in alcuni momenti, per il resto l’atteggiamento di Owens, il suo modo di cantare (che a volte risultava quasi canzonatorio, anche se certamente non lo era) e il continuo armeggiare con il microfono, la cassa e gli accordi, hanno reso l’esecuzione frammentaria e soprattutto poco empatica.

Personalmente ho fatto persino fatica a riconoscere in quello che stavo ascoltando alcune canzoni dell’ultimo album, da me amate particolarmente, anche perché spesso il musicista americano ha creato dei medley musicali abbastanza strani (cui si sono aggiunte anche alcune cover suonate e cantate in modo quasi irriconoscibile).

Mi dispiace sempre non esprimere un giudizio positivo su qualcosa o qualcuno, e nel caso di Owens – che ha una storia personale davvero molto difficile – mi dispiace ancora di più. D’altra parte, ritengo che nel suo caso la scelta di cantare 'in solo' sia stata poco azzeccata. Probabilmente un concerto con una band (ricordo che Owens è stato il frontman e il fondatore del gruppo Girls) avrebbe valorizzato sia lui sia le sue canzoni, e invece temo che molte delle persone presenti al Teatro Basilica – soprattutto quelli che non lo conoscevano già – non gli daranno una seconda possibilità.

Io che amo molto la musica dal vivo so che andare a questo tipo di concerti (cioè di cantanti ‘piccoli’ e poco conosciuti) è sempre una scommessa: può essere che dal vivo spacchino (e la loro musica renda molto più che nell’ascolto registrato), oppure che non solo non aggiungano niente, ma anzi facciano passare la voglia di tornare ad ascoltarli. E purtroppo in questo caso è stato così (e vedo che non sono stata l’unica a pensare questa cosa).

Voto: 2,5/5

lunedì 30 giugno 2025

Autoritratto / di e con Davide Enia. Teatro India, 30 maggio 2025

La stagione teatrale si conclude con questo spettacolo di e con Davide Enia, visto al Teatro India nel giorno del mio compleanno. Lo spettacolo, presentato in anteprima al Festival dei due mondi di Spoleto, è anche un libro, pubblicato da Sellerio con il sottotitolo Istruzioni per sopravvivere a Palermo.

Su un palco sostanzialmente spoglio, Enia è accompagnato da Giulio Barocchieri che lo esegue le musiche da lui stesso composte.

Fin dalle primissime battute, con un canto in dialetto siciliano, Enia ci trasporta nelle strade della Palermo degli anni Ottanta e Novanta, quella attraversata dalla guerra di mafia, quella insanguinata dai morti ammazzati, la stessa nella quale Enia e i suoi coetanei sono cresciuti.

La storia di questa Sicilia è dunque anche storia personale che si apre con il primo incontro a nove anni con la scena di un omicidio mafioso e con un morto ammazzato, e prosegue attraverso ricordi personali e familiari che si intrecciano con la storia collettiva, quella che passa per il lunghissimo sequestro del piccolo Giuseppe di Matteo fino alla sua uccisione dopo 778 giorni e per gli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino.

Tutto questo racconto è proposto da Enia mediante un lungo monologo inframmezzato da canti e musiche, nonché dall’uso del dialetto, e non ultimo un uso del corpo sapiente che si fa parte attiva della narrazione.

Ne viene fuori un lavoro che emoziona facendo risalire a galla della coscienza la memoria collettiva – facilmente messa a tacere dalla quotidianità – nonché una serie di domande scomode, forse destinate a rimanere senza risposta.

Autoritratto – come del resto suggerisce anche il titolo scelto dall’autore – è anche una riflessione sul rapporto tra chi siamo e i luoghi dai quali proveniamo, che in un modo o nell’altro sono parte della nostra persona, ed è questo un tema che da persona del sud che ha scelto di costruire la propria vita altrove sento molto forte.

Risale ormai a sei anni fa l’ultimo spettacolo di Enia che avevo visto a teatro, L’abisso, e pur mantenendo la memoria dell’emozione di allora, non ricordavo i dettagli di quello spettacolo. Ora, rileggendo quanto avevo scritto a suo tempo, non posso che riconoscere che Enia è rimasto fedele al suo stile e che riesce ancora a muovere emozioni e sentimenti con il suo teatro di parola, e speriamo che l’ispirazione continui ad accompagnarlo in futuro visto che sono sempre meno i rappresentanti di questa forma teatrale che riescono ancora a toccarmi il cuore. Mi pare anzi che, rispetto allo spettacolo visto a suo tempo, in questo caso la dimensione privata e personale si sposi ancora meglio emotivamente e narrativamente con il racconto della storia collettiva, colpendo nettamente nel segno.

Bravo Enia, e lunga vita al teatro di parola.

Voto: 4/5

venerdì 20 giugno 2025

Il re di Bangkok / Claudio Sopranzetti, Sara Fabbri e Chiara Natalucci

Il re di Bangkok
/ Claudio Sopranzetti, Sara Fabbri e Chiara Natalucci. Torino: add editore, 2019.

Dopo aver letto quasi tutti i graphic novel che add editore un po’ di anni fa ha dedicato a storie provenienti da diversi paesi del mondo (Cina, Taiwan, Siria, Cile, Libia) termino queste interessantissime letture con Il re di Bangkok, frutto di oltre 10 anni di ricerca antropologica e di centinaia di interviste realizzate da Claudio Sopranzetti, autore del libro insieme alla fumettista Sara Fabbri e alla traduttrice Chiara Natalucci.

Come viene spiegato all’inizio dell’albo, l’intento del fumetto è quello di raccontare la storia della Thailandia attraverso la vita di un personaggio, Nok, che non è un personaggio reale, ma è di fatto la somma di tante storie reali e vicende vissute di cui Sopranzetti ha raccolto la testimonianza nel corso della sua indagine.

La narrazione inizia in un presente in cui Nok, ormai cieco, si muove per le strade della città vendendo biglietti della tombola. Da qui ci muoveremo poi indietro nel tempo alle origini della sua storia: l’infanzia nel villaggio, la decisione di cercare un futuro migliore e un riscatto per sé e per la sua famiglia nella capitale, la fatica di trovare una strada e i numerosi lavori fatti - l’operaio in fabbrica, il muratore, il guidatore di mototaxi ,- la costruzione di una famiglia con Gai, la nascita del figlio, e tutto quello che accade nel frattempo in Thailandia e che più volte travolge anche la vicenda personale di Nok, costringendolo a cambiare direzione e a reinventarsi.

Dentro questo percorso c’è anche la lotta per la costruzione di un paese più giusto e più democratico, di cui Nok è protagonista pagandone un prezzo molto alto, e dovendo infine fare i conti con una delusione profonda e un senso di sconfitta che lo porta a tornare indietro, alla vita del villaggio.

Come tutti i libri di questa serie di graphic novel di add editore, Il re di Bangkok è un modo efficace per avvicinarsi alla storia di un paese a noi lontano, e anche di misurare la nostra ignoranza, ossia quanto poco sappiamo delle vicende politiche e sociali di questi paesi che intersecano il nostro mondo solo come meta di vacanze o quando instabilità politica e guerre minacciano la nostra tranquillità.

Gli autori fanno uno sforzo sovrumano per raccontare con precisione e verosimiglianza questa realtà a noi lontana, e riescono anche nel non scontato tentativo di conferire spessore umano ed empatia alla figura del protagonista, che non perde veridicità in alcuno snodo narrativo.

Una lettura molto istruttiva e interessante, che mi fa molto rimpiangere il fatto che add editore abbia abbandonato questa linea della sua produzione.

Voto: 3,5/5

mercoledì 18 giugno 2025

Sarabanda / Ingmar Bergman; regia di Roberto Andò. Teatro Argentina, 28 maggio 2025

Ormai giunti quasi al termine della stagione teatrale, insieme al solito “gruppetto teatro”, andiamo a vedere l’ultima regia di Roberto Andò al Teatro Argentina, non senza qualche timore, considerati la location, la regia e soprattutto l’autore del testo, Ingmar Bergman.

Sarabanda – scopro solo più tardi – è una specie di testamento di Bergman (è stato realizzato nel 2003), un seguito ideale di Scene da un matrimonio, da cui riprende i personaggi a distanza di tempo. Questa opera era stata pensata da Bergman come un film per la televisione, informazione importante per comprendere la messa in scena teatrale scelta da Andò.

Al centro di Sarabanda, oltre alla musica – come è chiaro fin dal titolo -, c’è una famiglia: il capofamiglia Johan (interpretato da Renato Carpentieri), la sua ex moglie Marianne (Alvia Reale) che torna a trovarlo nella sua casa sul lago dopo molti anni di allontanamento, il figlio di Johan, Henrik (Elia Schilton), che da anni non ha rapporti con il padre, e infine Karin (Caterina Tieghi), la figlia diciannovenne di Henrik, violoncellista come il padre. L’altra protagonista di questo dramma familiare, sebbene assente,  è Anne, moglie di Henrik e madre di Karin, morta di cancro qualche anno prima, che per tutti è un po’ il termine di paragone di una relazione affettiva sana, ovviamente senza possibilità di appello o verifica.

Trattasi di un classico dramma da famiglia disfunzionale, in cui ciascuno dei protagonisti, soprattutto quelli uniti da legami di sangue, sono incastrati in dinamiche distruttive o autodistruttive: Johan è un finto mite, ma rivela di tanto in tanto la sua natura manipolatrice, Henrik è un possessivo, con un legame morboso, quasi incestuoso con la figlia, e fortemente conflittuale con il padre, Karin è ingenua e insicura, come è normale per la sua età, e fa fatica a districarsi all’interno di queste dinamiche. Marianne è un’osservatrice quasi neutrale, spesso interlocutrice e confidente dei protagonisti, in particolare Johan e Karin.

Molto d’impatto la scelta di allestimento: il palco è completamente immerso nel buio e luci molto puntuali producono un effetto fortemente fotografico e cinematografico; gli attori si muovono all’interno di una specie di scatola nera la cui faccia anteriore è formata di piani che si aprono, si chiudono e si spostano producendo vere e proprie inquadrature e un effetto di movimento da macchina da presa. Sicuramente bravissimo Gianni Carluccio a immaginare un sistema così semplice e sofisticato al contempo, che certamente è parecchio d’effetto e ben si sposa con l’approccio ormai consolidato delle regie teatrali di Roberto Andò, che tutte strizzano l’occhio al cinema.

Nonostante le interessanti soluzioni di allestimento e di regia e la bravura degli interpreti, personalmente sono comunque uscita dal teatro piuttosto delusa. Nel testo ho sentito fortissimo il sapore di un’opera senile che risente di tutti i limiti che secondo me le caratterizzano: la cupezza, la lentezza, il ripiegamento su sé stessa. Il modo di narrare di Bergman, che già non amo nelle opere più giovanili, qui mi pare che raggiunga vette di algidità e rigidità notevoli, che faccio fatica ad apprezzare, tanto più che ormai il tema della famiglia disfunzionale è onnipresente e non è facile raccontarlo in modi che non risultino già visti e sentiti.

Esco dunque dal teatro pensando che il prossimo anno la mia programmazione teatrale sarà ancora più restrittiva e meticolosa.

Voto: 3/5

lunedì 16 giugno 2025

Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia. Monza, Villa Reale, 20 maggio 2025

Approfittando di una tre giorni milanese - sempre con finalità fotografiche – decido di fare un salto a Monza (un quarto d’ora di treno da Milano) per vedere la mostra dedicata al fotografo americano Saul Leiter, Una finestra punteggiata di gocce di pioggia.

Si tratta di una importante retrospettiva che permette di scoprire o riscoprire un fotografo non così conosciuto nel contesto italiano e di cui– nei miei ormai vent’anni di interesse verso la fotografia – non ricordo mostre monografiche a lui dedicate.

Alla Villa Reale – dove la mostra è stata allestita - si arriva con un comodo autobus la cui fermata è praticamente davanti alla stazione, e devo dire che il viaggio vale la pena anche solo per scoprire questo posto di cui personalmente nemmeno sospettavo l’esistenza.

La mostra occupa in particolare il piano alto, il cosiddetto Belvedere e si articola in numerose sale e salette.

All’ingresso una prima saletta permette di vedere un video in cui la curatrice Anne Morin introduce il fotografo, la sua poetica e le scelte di allestimento che sono state fatte, sottolineando in particolare come nella vita di Saul Leiter (come in quella di altri fotografi) pittura e fotografia sono andate praticamente di pari passo, con rimandi e connessioni che la mostra si propone di portare all’evidenza, esponendo sia opere pittoriche che fotografiche.

Dopo il video introduttivo, il percorso inizia con una piccola installazione di quelle che ormai vanno molto di moda nelle mostre, in quanto producono tag e storie sui social. In questo caso si tratta di una specie di finestra sul cui vetro scorre continuamente dell’acqua, dove il visitatore viene invitato a fare delle foto alla maniera di Saul Leiter. Nel percorso della mostra ci sono altre 2-3 installazioni con la stessa finalità, ma devo dire meno riuscite di questa prima che ho trovato piuttosto affascinante.

Questi elementi accessori non servono però – come accade per altre mostre – a riempire un vuoto o ad arricchire una mostra povera, perché in questo caso il numero di lavori esposti è davvero molto elevato: si va dalle fotografie urbane e di strade in bianco e nero a quelle a colori, dai ritratti e nudi ai piccoli reportage, fino ad arrivare alle fotografie di moda e a quelle di interni. In molte sale le fotografie dialogano con gli acquerelli e i dipinti di Saul Leiter, che sono stati – come si diceva – una parte importante della sua produzione.

Aiuta a entrare nel punto di vista dell’artista la visione e l’ascolto della videointervista proposta in una delle salette, che consente di farsi un’idea della personalità di Saul Leiter, un uomo schivo, ironico, disallineato. Non si dimentichi che Saul era il figlio di un importante rabbino e, nonostante la volontà del padre di indirizzarlo verso un percorso teologico, decise di seguire la sua ispirazione artistica e andò a New York per seguirla, arrangiandosi e sopravvivendo come poteva. Proprio a New York Saul Leiter iniziò a fotografare le strade, la gente e la città in un modo che era totalmente originale e anomalo rispetto ad altri fotografi dell’epoca.

Le sue sono fotografie in sordina, frammenti di un quadro più ampio ma invisibile agli occhi, pezzetti di un discorso poetico più che di un racconto descrittivo, e sono il risultato di una ricerca molto personale che – come sempre accade ai fotografi – a lungo non è stata compresa. Ma del resto Leiter non cercava la ribalta o la fama (semmai si preoccupava di sopravvivere con il suo lavoro, cosa per niente scontata), e poi nel suo privato inseguiva un filo nascosto nel mondo attraverso piccoli oggetti, dettagli, gesti e, a un certo punto, anche attraverso il colore, fronte sul quale fu un vero pioniere.

Un fotografo da studiare e riscoprire.

Voto: 3,5/5

venerdì 13 giugno 2025

Intermezzo / Sally Rooney

Intermezzo / Sally Rooney; trad. di Norman Gobetti. Torino: Einaudi, 2024.

Dopo la sostanziale delusione della lettura di Parlarne tra amici e di Persone normali, avevo deciso di abbandonare Sally Rooney al suo destino di scrittrice generazionale e di non leggere altri suoi romanzi.

Poi – dopo il parere positivo di S. – ho deciso di dare alla Rooney un’altra possibilità con questo Intermezzo, e… ne sono stata letteralmente conquistata.

Protagonisti di questo romanzo sono Peter e Ivan, due fratelli rimasti da poco orfani del padre, morto a causa di un cancro. Il primo è un avvocato, in prima linea nella difesa dei diritti, ma la sua vita personale è un caos: frequenta Naomi, una ragazza molto più giovane di lui, senza un soldo e che lui di fatto mantiene anche economicamente, ma ha ancora un legame molto forte con Sylvia, la donna con cui è stato in coppia per molti anni fino a quando un incidente con conseguenze gravi su di lei non li ha separati. Ivan, il fratello minore, è invece un appassionato e un campione di scacchi, ma introverso, con l’apparecchio ai denti e scarsa fortuna con le donne, fino a quando non incontra e comincia una storia con Margaret, una donna parecchio più grande di lui, separata da un marito alcolista.

In questo intermezzo, che coincide di fatto con il periodo di elaborazione del lutto, i due fratelli, che una volta abbandonata l’infanzia hanno attraversato fasi alterne di amore e odio, avvicinamento e allontanamento nel loro rapporto, dovranno fare i conti con la morte, e insieme con le fatiche dei legami familiari e delle relazioni, ma dovranno anche fare delle scelte sulla propria vita, guardandosi dentro e affrontando situazioni emotivamente difficili.

Ebbene, tanto avevo trovato i due romanzi precedenti distanti e poco comprensibili per me dal punto di vista emotivo quanto invece ho sentito questo romanzo vero ed empatico nella narrazione e nei contenuti, al punto che ho terminato l’ultima ventina di pagine del libro tra le lacrime, cosa che mai avrei ritenuto possibile.

Evidentemente – mi sono detta – anche Sally Rooney è cresciuta, e così, pur appartenendo a un’altra generazione ed essendo cresciuta in una dimensione sociale, relazionale ed emotiva in parte differente dalla mia, è arrivata a quel momento della vita in cui tutti si trovano di fronte ai nodi cruciali dell’esistenza umana, che sono gli stessi da sempre e in qualunque luogo e che conferiscono alla grande letteratura la capacità di parlare alle persone al di là del tempo e dello spazio.

Oltre alla sensibilità e precisione con cui la Rooney riesce in questo romanzo a raccontare la forza e la difficoltà dei legami familiari, due cose di Intermezzo mi hanno colpita particolarmente. Da un lato il fatto che quell’universo di possibilità affettive, e non solo, che si sono dischiuse davanti alla sua generazione senza renderla né più felice né più risolta (o almeno questo emergeva nei precedenti romanzi) qui diventa un terreno da dissodare responsabilmente e con fatica, ma che può potenzialmente dare i suoi frutti, una strada da percorrere se si è disposti a rischiare e ad essere onesti con sé stessi e con gli altri. Dall’altro lo sguardo affettuoso verso la generazione successiva, i venti-venticinquenni di oggi (qui rappresentati da Naomi ed Ivan), altrettanto incasinati e imperfetti, ma meno cinici, meno frustrati, più aperti alle possibilità, forse i primi che stanno riuscendo a trasformare le maggiori libertà in vere scelte di vita, convenzionali o non convenzionali, ma rispettose del proprio sentire.

Chissà se è vero, o è solo l’auspicio di chi si sta lasciando alle spalle la giovinezza o per cui la giovinezza è un ricordo ormai lontano.

Il fatto importante è però che finalmente nella scrittura della Rooney – tra l’altro magistrale, ma questa non è una novità – sono riuscita a riconoscere sentimenti, sensazioni e situazioni che mi appartengono o che comprendo e sento emotivamente anche quando non fanno parte del mio vissuto o sono lontane dalle mie.

Voto: 4/5