Andrea Segre è un regista che seguo con una certa continuità, sebbene non del tutto assiduamente. Dei suoi film apprezzo sempre il tocco delicato, l’impegno politico, l’approccio documentaristico.
Di fronte al suo ultimo film dedicato alla figura di Enrico Berlinguer, interpretato da Elio Germano, non posso certo sottrarmi alla visione.
La grande ambizione racconta uno specifico periodo della vicenda politica e umana di Berlinguer, ossia quello compreso tra la visita a Sofia e l’attentato (di cui io non avevo alcuna memoria) del 1973 e la morte di Moro del maggio 1978, in pratica gli anni del tentativo del politico comunista di perseguire il progetto del cosiddetto “compromesso storico”.
Ci sono molte cose apprezzabili nel film di Andrea Segre: innanzitutto l’ottimo mix tra i video e le immagini di archivio e il girato contemporaneo, che riescono a dialogare molto bene sia sul piano estetico che sul piano narrativo; in secondo luogo l’attitudine (tipicamente documentaristica) di mettere in fila gli eventi sfuggendo alla tendenza – soprattutto contemporanea – alla frammentazione e anche al setaccio inevitabile operato dalla storia e dalla memoria individuale; in terzo luogo la scelta di non trasformare il personaggio di Berlinguer né in un santino né nella caricatura di sé stesso, raccontandolo con sincerità ed equilibrio; infine, l’interpretazione di Elio Germano che (dopo la parziale delusione di Iddu) qui ho ritrovato pienamente nella sua capacità di mettersi al servizio del personaggio e non viceversa. Bravi anche gli altri interpreti che riportano davanti ai nostri occhi tutto un mondo politico che sembra davvero appartenere a un passato lontanissimo, abituati come siamo da qualche tempo a vedere sorgere e tramontare stelle politiche (e non solo) in tempi rapidissimi.
Tralascio le polemiche e i giudizi sulla linea perseguita da Berlinguer con il compromesso storico – non ho né le competenze né le conoscenze per esprimermi in proposito -, però posso dire che il film di Segre è l’occasione per immergersi in quegli anni e in quel mondo politico, misurando la distanza con la contemporaneità e suscitando inevitabilmente domande e riflessioni, cui ognuno potrà dare seguito secondo il proprio particolare punto di vista e la propria sensibilità interpretativa.
Un buon film che - pur non apportando particolari elementi di novità o dirompenti - conferma le qualità di Andrea Segre e ribadisce che ogni tanto tocca buttare un occhio al passato e mettere in ordine alcuni eventi anche per guardare con sguardo nuovo il presente.
Voto: 3,5/5
mercoledì 20 novembre 2024
lunedì 18 novembre 2024
Il sen(n)o / con Lucia Mascino. Romaeuropa Festival, Teatro Vascello, 4 novembre 2024
Nell'ambito del Romaeuropa Festival non perdo l'occasione di andare a vedere dal vivo questo spettacolo che ha come protagonista e mattatrice la bravissima Lucia Mascino, che nel corso degli anni ho imparato ad apprezzare sempre di più.
Il testo è di Monica Dolan (titolo originale The B*easts), ed è stato tradotto e adattato per i palchi italiani da Serena Sinigaglia. Protagonista è una psicoterapeuta che si è trovata a gestire il caso di una madre e di sua figlia che a otto anni ha voluto e ottenuto dalla madre di potersi sottoporre a un intervento di chirurgia estetica per aumentare il volume del seno.
Di fronte a questa vicenda, la protagonista - divisa tra una sua dimensione privata di cui sappiamo poco e un ruolo pubblico molto delicato - si rivolge direttamente agli spettatori per raccontare questa storia, ma anche per condividere con loro le sue riflessioni, i suoi pensieri e i suoi dubbi.
Il racconto diventa l'occasione per sfuggire al facile giudizio volto a colpevolizzare una madre e sua figlia, bensì per riflettere sulla società tutta, sui suoi processi e percorsi che in qualche modo hanno condotto a tale situazione, certo estrema, ma sempre meno isolata. Ed è anche l'occasione per la psicoterapeuta per riflettere sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità, essendo essa stessa chiamata a stilare un rapporto medico nell'ambito di un processo penale.
Non ci sono risposte nel testo di Monica Dolan, ma solo riflessioni e domande, che chiamano ciascuno di noi a interrogarsi, non tanto per prendere posizione, ma piuttosto per provare a capire e a interpretare una realtà che si fa sempre più sfuggente e difficile.
Sul palco un grande albero spoglio riverso, illuminato, con il quale la protagonista interagisce, curandolo, o utilizzandolo come seduta o come luogo di parziale nascondimento.
Lucia Mascino è brava nel recitare con tutto il corpo - come dice la mia amica I. - offrendo a questo personaggio una fragilità e un'empatia palpabili, capaci di produrre un vero processo identificativo rispetto al senso di inadeguatezza che la protagonista rivela di fronte alla complessità del reale e che risulta infine pienamente comprensibile. Il lungo applauso conferma il gradimento del pubblico.
Voto: 3,5/5
Il testo è di Monica Dolan (titolo originale The B*easts), ed è stato tradotto e adattato per i palchi italiani da Serena Sinigaglia. Protagonista è una psicoterapeuta che si è trovata a gestire il caso di una madre e di sua figlia che a otto anni ha voluto e ottenuto dalla madre di potersi sottoporre a un intervento di chirurgia estetica per aumentare il volume del seno.
Di fronte a questa vicenda, la protagonista - divisa tra una sua dimensione privata di cui sappiamo poco e un ruolo pubblico molto delicato - si rivolge direttamente agli spettatori per raccontare questa storia, ma anche per condividere con loro le sue riflessioni, i suoi pensieri e i suoi dubbi.
Il racconto diventa l'occasione per sfuggire al facile giudizio volto a colpevolizzare una madre e sua figlia, bensì per riflettere sulla società tutta, sui suoi processi e percorsi che in qualche modo hanno condotto a tale situazione, certo estrema, ma sempre meno isolata. Ed è anche l'occasione per la psicoterapeuta per riflettere sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità, essendo essa stessa chiamata a stilare un rapporto medico nell'ambito di un processo penale.
Non ci sono risposte nel testo di Monica Dolan, ma solo riflessioni e domande, che chiamano ciascuno di noi a interrogarsi, non tanto per prendere posizione, ma piuttosto per provare a capire e a interpretare una realtà che si fa sempre più sfuggente e difficile.
Sul palco un grande albero spoglio riverso, illuminato, con il quale la protagonista interagisce, curandolo, o utilizzandolo come seduta o come luogo di parziale nascondimento.
Lucia Mascino è brava nel recitare con tutto il corpo - come dice la mia amica I. - offrendo a questo personaggio una fragilità e un'empatia palpabili, capaci di produrre un vero processo identificativo rispetto al senso di inadeguatezza che la protagonista rivela di fronte alla complessità del reale e che risulta infine pienamente comprensibile. Il lungo applauso conferma il gradimento del pubblico.
Voto: 3,5/5
giovedì 14 novembre 2024
Micah P. Hinson (+ Krano). Festival Sabir, Città dell'altra economia, 13 ottobre 2024
Ormai sono una habitué dei concerti di Micah P. Hinson al punto tale che conosco i volti delle persone che, come me, non si perdono nemmeno uno degli appuntamenti con il musicista texano.
Questa volta l'occasione di ascoltarlo dal vivo è offerta dal Festival Sabir, il festival diffuso delle culture mediterranee si è svolto dal 10 al 13 ottobre alla città dell'altra economia di Roma.
L'ingresso è gratuito e il festival è all'aperto. Io arrivo come sempre molto presto per potermi sistemare molto davanti, sotto il palco. Quando arrivo vedo che Micah P. Hinson è già in giro e chiacchiera con alcune persone non lontano dal palco. Intorno alle 21,15 inizia l'opening che è affidato a Krano, un ragazzone che con la sua chitarra - con l'aggiunta talvolta dell'armonica da bocca - comincia a intonare canzoni intimiste in un dialetto che faccio fatica a comprendere. Guardando su Internet, scopro che Krano è il progetto musicale di Marco Spigariol, che dal 2012 - dopo alcune esperienze musicali, anche internazionali - si è ritirato nel suo paese di origine, a Valdobbiadene, e ha cominciato a comporre canzoni nel dialetto locale.
Devo dire che il suo mini-concerto non mi conquista pienamente, ma apprezzo alcune canzoni e soprattutto l'atteggiamento umile e tenero che Krano ha sul palco e con il pubblico.
Dopo un rapido cambio, sale sul palco Alessandro "Asso" Stefana, il musicista italiano che da qualche tempo accompagna Micah nei suoi tour, e comincia a provare e ad accordare tutti gli strumenti. Tutto è pronto.
Intorno alle 22, sale sul palco Micah accompagnato da Stefana e da Paolo Mongardi, il batterista, ricostruendo la formazione che ho già avuto modo di ascoltare al Monk nel marzo del 2023 e che mi aveva regalato un bellissimo concerto.
Come allora Stefana cura gli arrangiamenti e funge da polistrumentista, suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar, mentre Micah alterna chitarra elettrica e acustica. Mongardi mette la ciliegina sulla torta con il suo modo mirabile di suonare la batteria, producendo sonorità, ritmi e arrangiamenti molto diversi.
Micah ci saluta in spagnolo e ci dice che da qualche tempo vive a Madrid, anche se ci ricorda - come sempre - di venire dal Texas. Ormai il suo look con capigliatura da nativo americano, abbigliamento da cowboy e cappellone con la piuma si è quasi standardizzato, almeno per chi - come me - lo conosce da tempo.
Anche il suo modo di stare sul palco è per me ormai talmente riconoscibile, nell'alternanza di canzoni suonate rabbiosamente, altre invece dolorosamente, mentre tra una canzone e l'altra Micah ci racconta delle cose (di carattere personale, ma anche tante di tipo politico) e non nasconde in alcun modo la sua personalità decisamente originale e a suo modo eccentrica.
Chi conosce la sua storia personale sa che Micah è quasi un sopravvissuto: mentre parla di quello che gli è accaduto, dice anche di quando era sposato, e io ricordo il concerto al Monk in cui c'era la moglie con il figlio. Insomma, ogni volta con Micah è come ritrovare un vecchio amico la cui vita ha sempre avuto dei percorsi strani e imprevedibili, ma a cui non puoi che volere bene per la naiveté e la sincerità che lo caratterizzano.
E poi ascoltarlo suonare e cantare è sempre uno straordinario viaggio emotivo che non può lasciare indifferenti, e che - devo dire - gli arrangiamenti di Stefana hanno ulteriormente impreziosito e accentuato.
Non ho tenuto traccia puntuale della scaletta, ma direi che a naso ha strutturato il concerto come fa di solito negli ultimi tempi: canzoni dell'ultimo album (tra cui alcune delle mie preferite, Carelessly, What does it matter now, Me & you che si alternano a suoi grandi classici (stasera Beneath the rose è la seconda canzone in scaletta) e a cover più o meno famose (tra cui Please daddy, don't get drunk this Christmas), alcune delle quali sono anche entrate nei suoi album.
In questo caso ci delizia anche - nel bis inevitabile - con una vera e propria canzone country che non gli avevo mai sentito suonare e di cui purtroppo non ho colto né il titolo né l'autore, ma solo il commento di Micah che ci dice che il country è il male, perché lì in qualche modo si annida il peggio del genere umano, ma che qualcosa della tradizione del country si può ancora recuperare.
Un concerto che nei contenuti non è stato molto diverso da quello dello scorso anno, e forse per questo sono rimasta meno colpita, o forse perché il tipo di concerto era più adatto a una location intima come quella del Monk, ma Micah P. Hinson accompagnato dai due musicisti italiani resta uno spettacolo da non perdere.
Voto: 3,5/5
Questa volta l'occasione di ascoltarlo dal vivo è offerta dal Festival Sabir, il festival diffuso delle culture mediterranee si è svolto dal 10 al 13 ottobre alla città dell'altra economia di Roma.
L'ingresso è gratuito e il festival è all'aperto. Io arrivo come sempre molto presto per potermi sistemare molto davanti, sotto il palco. Quando arrivo vedo che Micah P. Hinson è già in giro e chiacchiera con alcune persone non lontano dal palco. Intorno alle 21,15 inizia l'opening che è affidato a Krano, un ragazzone che con la sua chitarra - con l'aggiunta talvolta dell'armonica da bocca - comincia a intonare canzoni intimiste in un dialetto che faccio fatica a comprendere. Guardando su Internet, scopro che Krano è il progetto musicale di Marco Spigariol, che dal 2012 - dopo alcune esperienze musicali, anche internazionali - si è ritirato nel suo paese di origine, a Valdobbiadene, e ha cominciato a comporre canzoni nel dialetto locale.
Devo dire che il suo mini-concerto non mi conquista pienamente, ma apprezzo alcune canzoni e soprattutto l'atteggiamento umile e tenero che Krano ha sul palco e con il pubblico.
Dopo un rapido cambio, sale sul palco Alessandro "Asso" Stefana, il musicista italiano che da qualche tempo accompagna Micah nei suoi tour, e comincia a provare e ad accordare tutti gli strumenti. Tutto è pronto.
Intorno alle 22, sale sul palco Micah accompagnato da Stefana e da Paolo Mongardi, il batterista, ricostruendo la formazione che ho già avuto modo di ascoltare al Monk nel marzo del 2023 e che mi aveva regalato un bellissimo concerto.
Come allora Stefana cura gli arrangiamenti e funge da polistrumentista, suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar, mentre Micah alterna chitarra elettrica e acustica. Mongardi mette la ciliegina sulla torta con il suo modo mirabile di suonare la batteria, producendo sonorità, ritmi e arrangiamenti molto diversi.
Micah ci saluta in spagnolo e ci dice che da qualche tempo vive a Madrid, anche se ci ricorda - come sempre - di venire dal Texas. Ormai il suo look con capigliatura da nativo americano, abbigliamento da cowboy e cappellone con la piuma si è quasi standardizzato, almeno per chi - come me - lo conosce da tempo.
Anche il suo modo di stare sul palco è per me ormai talmente riconoscibile, nell'alternanza di canzoni suonate rabbiosamente, altre invece dolorosamente, mentre tra una canzone e l'altra Micah ci racconta delle cose (di carattere personale, ma anche tante di tipo politico) e non nasconde in alcun modo la sua personalità decisamente originale e a suo modo eccentrica.
Chi conosce la sua storia personale sa che Micah è quasi un sopravvissuto: mentre parla di quello che gli è accaduto, dice anche di quando era sposato, e io ricordo il concerto al Monk in cui c'era la moglie con il figlio. Insomma, ogni volta con Micah è come ritrovare un vecchio amico la cui vita ha sempre avuto dei percorsi strani e imprevedibili, ma a cui non puoi che volere bene per la naiveté e la sincerità che lo caratterizzano.
E poi ascoltarlo suonare e cantare è sempre uno straordinario viaggio emotivo che non può lasciare indifferenti, e che - devo dire - gli arrangiamenti di Stefana hanno ulteriormente impreziosito e accentuato.
Non ho tenuto traccia puntuale della scaletta, ma direi che a naso ha strutturato il concerto come fa di solito negli ultimi tempi: canzoni dell'ultimo album (tra cui alcune delle mie preferite, Carelessly, What does it matter now, Me & you che si alternano a suoi grandi classici (stasera Beneath the rose è la seconda canzone in scaletta) e a cover più o meno famose (tra cui Please daddy, don't get drunk this Christmas), alcune delle quali sono anche entrate nei suoi album.
In questo caso ci delizia anche - nel bis inevitabile - con una vera e propria canzone country che non gli avevo mai sentito suonare e di cui purtroppo non ho colto né il titolo né l'autore, ma solo il commento di Micah che ci dice che il country è il male, perché lì in qualche modo si annida il peggio del genere umano, ma che qualcosa della tradizione del country si può ancora recuperare.
Un concerto che nei contenuti non è stato molto diverso da quello dello scorso anno, e forse per questo sono rimasta meno colpita, o forse perché il tipo di concerto era più adatto a una location intima come quella del Monk, ma Micah P. Hinson accompagnato dai due musicisti italiani resta uno spettacolo da non perdere.
Voto: 3,5/5
mercoledì 13 novembre 2024
Se l'acqua ride / Paolo Malaguti
Se l'acqua ride / Paolo Malaguti. Torino: Einaudi, 2020.
Ho ricevuto questo libro in regalo per il mio compleanno e mi ha subito attirata a sé, così l'ho messo in lettura quasi immediatamente, in un'atmosfera estiva che ben si sposava con i contenuti del romanzo.
Paolo Malaguti si muove dalle parti di uno dei topoi più classici della letteratura, ossia quello del racconto di un'estate durante la quale il protagonista abbandona definitivamente l'infanzia.
Siamo negli anni Sessanta. Ganbeto, soprannome che gli è stato affibbiato per la sua corporatura, ha 14 anni; viene da una famiglia modesta e vive in quell'area del Veneto dove il sistema dei fiumi che ha il Po al suo centro non è lontano dallo sfociare nel mare Adriatico. Quella di Ganbeto è una famiglia storicamente legata ai trasporti delle merci sui fiumi per mezzo di imbarcazioni chiamate burci. Il nonno del ragazzo, Caronte, ancora svolge quest'attività con il suo burcio, la Teresina, e sia il figlio che il nipote lo aiutano, in particolare nel periodo estivo.
Il mondo però sta rapidamente cambiando e molti sono i segnali che il mestiere di Caronte è destinato a scomparire. Quando, dopo l'ultimo anno della scuola dell'obbligo, Ganbeto si trova a dover fare delle scelte sul proprio futuro, fantastica della sua vita da marinaio, e l'estate successiva - mentre il padre si converte definitivamente al lavoro in fabbrica - il ragazzo parte con il nonno per imparare quel mestiere al tramonto.
Sarà appunto l'estate in cui Ganbeto si accorgerà sia dei propri cambiamenti interiori ed esteriori (la crescita fisica, l'interesse per le ragazze, il parziale allontanamento dagli amici) sia dei cambiamenti del mondo circostante. Non solo la sua infanzia sta finendo, ma anche un'intera società sta sparendo sotto la spinta di un progresso che porta i bagni e le televisioni nelle case, e rende obsoleta la funzione dei burci e dei mestieri ad essi connessi (come quello dei cavalcanti, proprietari di cavalli a cui le imbarcazioni venivano agganciate per risalire i fiumi o i canali in caso di bonaccia).
Durante questa estate, Ganbeto passerà dallo sguardo stupito e ingenuo sul mondo circostante che di solito caratterizza l'età infantile a uno sguardo nuovo, più consapevole e per certi versi più doloroso, quello che lo accompagnerà nell'età adulta. In questo processo comprenderà meglio le scelte opposte del padre e del nonno, e sarà chiamato a sua volta a scegliere una strada che non è necessariamente quella che il suo sé bambino sognava, ma che non solo è quella più praticabile ma è anche in grado di dargli molte soddisfazioni.
Nel libro di Malaguti, che è arricchito da una lingua contaminata da espressioni tipiche dei dialetti della zona in cui è ambientata la storia, si respira un'atmosfera malinconica e agrodolce, tipica dei momenti della storia individuale e collettiva in cui bisogna lasciar andare il passato e aprirsi al futuro, senza tradire nessuno dei due.
Il risultato mi ha cullato durante la lettura (quasi fossi anch'io a bordo della Teresina) e infine mi ha commosso dolcemente.
Voto: 4/5
Ho ricevuto questo libro in regalo per il mio compleanno e mi ha subito attirata a sé, così l'ho messo in lettura quasi immediatamente, in un'atmosfera estiva che ben si sposava con i contenuti del romanzo.
Paolo Malaguti si muove dalle parti di uno dei topoi più classici della letteratura, ossia quello del racconto di un'estate durante la quale il protagonista abbandona definitivamente l'infanzia.
Siamo negli anni Sessanta. Ganbeto, soprannome che gli è stato affibbiato per la sua corporatura, ha 14 anni; viene da una famiglia modesta e vive in quell'area del Veneto dove il sistema dei fiumi che ha il Po al suo centro non è lontano dallo sfociare nel mare Adriatico. Quella di Ganbeto è una famiglia storicamente legata ai trasporti delle merci sui fiumi per mezzo di imbarcazioni chiamate burci. Il nonno del ragazzo, Caronte, ancora svolge quest'attività con il suo burcio, la Teresina, e sia il figlio che il nipote lo aiutano, in particolare nel periodo estivo.
Il mondo però sta rapidamente cambiando e molti sono i segnali che il mestiere di Caronte è destinato a scomparire. Quando, dopo l'ultimo anno della scuola dell'obbligo, Ganbeto si trova a dover fare delle scelte sul proprio futuro, fantastica della sua vita da marinaio, e l'estate successiva - mentre il padre si converte definitivamente al lavoro in fabbrica - il ragazzo parte con il nonno per imparare quel mestiere al tramonto.
Sarà appunto l'estate in cui Ganbeto si accorgerà sia dei propri cambiamenti interiori ed esteriori (la crescita fisica, l'interesse per le ragazze, il parziale allontanamento dagli amici) sia dei cambiamenti del mondo circostante. Non solo la sua infanzia sta finendo, ma anche un'intera società sta sparendo sotto la spinta di un progresso che porta i bagni e le televisioni nelle case, e rende obsoleta la funzione dei burci e dei mestieri ad essi connessi (come quello dei cavalcanti, proprietari di cavalli a cui le imbarcazioni venivano agganciate per risalire i fiumi o i canali in caso di bonaccia).
Durante questa estate, Ganbeto passerà dallo sguardo stupito e ingenuo sul mondo circostante che di solito caratterizza l'età infantile a uno sguardo nuovo, più consapevole e per certi versi più doloroso, quello che lo accompagnerà nell'età adulta. In questo processo comprenderà meglio le scelte opposte del padre e del nonno, e sarà chiamato a sua volta a scegliere una strada che non è necessariamente quella che il suo sé bambino sognava, ma che non solo è quella più praticabile ma è anche in grado di dargli molte soddisfazioni.
Nel libro di Malaguti, che è arricchito da una lingua contaminata da espressioni tipiche dei dialetti della zona in cui è ambientata la storia, si respira un'atmosfera malinconica e agrodolce, tipica dei momenti della storia individuale e collettiva in cui bisogna lasciar andare il passato e aprirsi al futuro, senza tradire nessuno dei due.
Il risultato mi ha cullato durante la lettura (quasi fossi anch'io a bordo della Teresina) e infine mi ha commosso dolcemente.
Voto: 4/5
lunedì 11 novembre 2024
Roberto Zucco / Bernard-Marie Koltès; regia di Giorgina Pi. Teatro Vascello, 26 ottobre 2024
Roberto Zucco è l'ultima pièce teatrale scritta da Bernard-Marie Koltès prima della sua prematura morte. È ispirata alla storia di Roberto Succo, un giovane che, tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta, prima uccise i genitori, poi fu arrestato ma riuscì ad evadere rifugiandosi in Francia, dove ammazzò almeno altre cinque persone. Dopo un nuovo arresto e un nuovo tentativo di fuga, finì suicida in carcere.
Alla vicenda di Succo è dedicato anche un film di qualche anno fa di Cédric Kahn.
Koltès costruisce un'opera teatrale la cui drammaturgia si presta a un'interpretazione dal sapore cinematografico: si tratta infatti di 15 quadri che cominciano con la prima fuga dal carcere e terminano con il secondo tentativo di evasione, in un andamento chiaramente circolare.
Nel mezzo procedono in parallelo la vicenda delle peregrinazioni di Zucco in Italia e poi in Francia, costellate dalle sue bravate e dai suoi omicidi, e la storia di una giovanissima che si innamora di lui e che cerca di sfuggire alla sua famiglia disfunzionale (un padre violento, una madre sottomessa, una sorella zitella e un fratello che da controllore si trasforma in sfruttatore).
Sul palco ogni quadro è delineato mediante pochi elementi di scenografia identificativi dei singoli ambienti e, al termine di ogni scena, gli stessi attori spostano questi elementi allestendo la scena successiva.
Ho apprezzato molto la regia e la messa in scena, che ho trovato visivamente affascinante, così come ho trovato molto convincente Valentino Mannias, l'interprete del protagonista, inquietante al punto giusto e capace di trasmettere chiaramente il senso di disagio mentale e di pazzia che caratterizza il personaggio.
Lo spettacolo ha molti interpreti e molte voci, e direi anche molti registri diversi, che vanno dal drammatico al grottesco (come del resto è abbastanza tipico dell'opera di Koltès). Devo dire che non tutto mi ha convinto, e non saprei dire se dipenda dal testo di Koltès oppure dalla recitazione - invero un po' straniante - di alcuni attori, o da alcune scelte di regia.
Lo spettacolo si fa seguire con interesse, ma mi è rimasto un po' estraneo cosicché, a parte il senso di disagio veicolato dai personaggi principali, non mi sono portata a casa grandi emozioni e riflessioni.
Voto: 3/5
Alla vicenda di Succo è dedicato anche un film di qualche anno fa di Cédric Kahn.
Koltès costruisce un'opera teatrale la cui drammaturgia si presta a un'interpretazione dal sapore cinematografico: si tratta infatti di 15 quadri che cominciano con la prima fuga dal carcere e terminano con il secondo tentativo di evasione, in un andamento chiaramente circolare.
Nel mezzo procedono in parallelo la vicenda delle peregrinazioni di Zucco in Italia e poi in Francia, costellate dalle sue bravate e dai suoi omicidi, e la storia di una giovanissima che si innamora di lui e che cerca di sfuggire alla sua famiglia disfunzionale (un padre violento, una madre sottomessa, una sorella zitella e un fratello che da controllore si trasforma in sfruttatore).
Sul palco ogni quadro è delineato mediante pochi elementi di scenografia identificativi dei singoli ambienti e, al termine di ogni scena, gli stessi attori spostano questi elementi allestendo la scena successiva.
Ho apprezzato molto la regia e la messa in scena, che ho trovato visivamente affascinante, così come ho trovato molto convincente Valentino Mannias, l'interprete del protagonista, inquietante al punto giusto e capace di trasmettere chiaramente il senso di disagio mentale e di pazzia che caratterizza il personaggio.
Lo spettacolo ha molti interpreti e molte voci, e direi anche molti registri diversi, che vanno dal drammatico al grottesco (come del resto è abbastanza tipico dell'opera di Koltès). Devo dire che non tutto mi ha convinto, e non saprei dire se dipenda dal testo di Koltès oppure dalla recitazione - invero un po' straniante - di alcuni attori, o da alcune scelte di regia.
Lo spettacolo si fa seguire con interesse, ma mi è rimasto un po' estraneo cosicché, a parte il senso di disagio veicolato dai personaggi principali, non mi sono portata a casa grandi emozioni e riflessioni.
Voto: 3/5
venerdì 8 novembre 2024
Festa del cinema di Roma, 16-27 ottobre 2024 (Terza parte)
Leggi anche la prima e la seconda parte delle recensioni della Festa del cinema.
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Anora
Anora è il film vincitore della Palma d'oro a Cannes che la Festa del cinema di Roma ci dà la possibilità di vedere in anteprima. Prima di sedermi in Sala Petrassi, del film non sapevo quasi nulla, se non che il regista è Sean Baker, che ho scoperto qualche anno fa con la visione di Red Rocket.
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Bring them down
Il film dell'irlandese Chris Andrews è un dramma rurale senza via d'uscite. Ambientato nelle colline irlandesi, protagonisti sono due famiglie le cui fattorie non sono distanti e i cui terreni sono confinanti: quella di Mikey (Christopher Abbot) che vive da solo col padre e alleva pecore, e quella di Caroline (Nora-Jane Noone), di suo marito Gary (Paul Ready) e di suo figlio Jack (Barry Keoghan).
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Anora
Anora è il film vincitore della Palma d'oro a Cannes che la Festa del cinema di Roma ci dà la possibilità di vedere in anteprima. Prima di sedermi in Sala Petrassi, del film non sapevo quasi nulla, se non che il regista è Sean Baker, che ho scoperto qualche anno fa con la visione di Red Rocket.
Sean Baker è un regista che sfugge a qualunque classificazione e che fa film decisamente originali, sia a livello di soggetto sia a livello di confezione.
Qui la protagonista è Anora (Mikey Madison), una ragazza di origine russa che si fa chiamare Ani e che si mantiene facendo la lavoratrice del sesso in un locale. Ani è una donna molto sicura di sé e gestisce il suo lavoro con grande padronanza e al contempo naturalezza. Un giorno viene chiamata dal proprietario del locale per occuparsi delle esigenze di Ivan, in realtà Vanja (Mark Eydelshteyn), il rampollo di una famiglia di oligarchi russi che è negli Stati Uniti teoricamente per studiare, ma passa il tempo a divertirsi coi soldi dei genitori, tra sesso, droghe, shopping e feste. Tra Ani e Ivan si crea una sintonia: Ani accompagna Ivan nei suoi sballi e lo "aiuta" a goderseli di più, Ivan trova in Ani la perfetta partner di una filosofia di vita tutta all'insegna del lusso e del divertimento. Questo incastro porta i due a Las Vegas e al matrimonio, suscitando le ire dei genitori di Ivan che mandano i loro scagnozzi armeni a risistemare la situazione.
Se nella prima parte del film prevale la vena romantica, la seconda si fa invece grottesca e divertente, per poi virare, attraverso il personaggio chiave di Igor (quel Yuriy Borisov ammirato nel bellissimo Scompartimento n. 6), verso la malinconia e il senso di sconfitta, che in realtà - a ben vedere - corrono sotterranee fin dal principio e durante tutta la narrazione.
Gli attori in parte semisconosciuti di Sean Baker sono eccezionali nei loro ruoli, la sceneggiatura è godibilissima, a tratti esilarante, le scene ben costruite. Il film di Sean Baker è un tourbillon nel quale si viene piacevolmente risucchiati, per poi essere risputati fuori storditi e malinconici, esattamente come la protagonista, volitiva, decisa, piena di risorse, ma condannata in qualche modo a restare al suo posto, a constatare per l'ennesima volta che solo tra simili ci si comprende davvero, e che i ricchi vincono sempre perché viaggiano su altri binari.
Voto: 4/5
Qui la protagonista è Anora (Mikey Madison), una ragazza di origine russa che si fa chiamare Ani e che si mantiene facendo la lavoratrice del sesso in un locale. Ani è una donna molto sicura di sé e gestisce il suo lavoro con grande padronanza e al contempo naturalezza. Un giorno viene chiamata dal proprietario del locale per occuparsi delle esigenze di Ivan, in realtà Vanja (Mark Eydelshteyn), il rampollo di una famiglia di oligarchi russi che è negli Stati Uniti teoricamente per studiare, ma passa il tempo a divertirsi coi soldi dei genitori, tra sesso, droghe, shopping e feste. Tra Ani e Ivan si crea una sintonia: Ani accompagna Ivan nei suoi sballi e lo "aiuta" a goderseli di più, Ivan trova in Ani la perfetta partner di una filosofia di vita tutta all'insegna del lusso e del divertimento. Questo incastro porta i due a Las Vegas e al matrimonio, suscitando le ire dei genitori di Ivan che mandano i loro scagnozzi armeni a risistemare la situazione.
Se nella prima parte del film prevale la vena romantica, la seconda si fa invece grottesca e divertente, per poi virare, attraverso il personaggio chiave di Igor (quel Yuriy Borisov ammirato nel bellissimo Scompartimento n. 6), verso la malinconia e il senso di sconfitta, che in realtà - a ben vedere - corrono sotterranee fin dal principio e durante tutta la narrazione.
Gli attori in parte semisconosciuti di Sean Baker sono eccezionali nei loro ruoli, la sceneggiatura è godibilissima, a tratti esilarante, le scene ben costruite. Il film di Sean Baker è un tourbillon nel quale si viene piacevolmente risucchiati, per poi essere risputati fuori storditi e malinconici, esattamente come la protagonista, volitiva, decisa, piena di risorse, ma condannata in qualche modo a restare al suo posto, a constatare per l'ennesima volta che solo tra simili ci si comprende davvero, e che i ricchi vincono sempre perché viaggiano su altri binari.
Voto: 4/5
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Bring them down
Il film dell'irlandese Chris Andrews è un dramma rurale senza via d'uscite. Ambientato nelle colline irlandesi, protagonisti sono due famiglie le cui fattorie non sono distanti e i cui terreni sono confinanti: quella di Mikey (Christopher Abbot) che vive da solo col padre e alleva pecore, e quella di Caroline (Nora-Jane Noone), di suo marito Gary (Paul Ready) e di suo figlio Jack (Barry Keoghan).
Tutto ruota intorno al furto di due montoni del gregge di cui si occupa Mikey, e a partire da questo episodio, grazie anche a una narrazione che ci mostra gli eventi da punti di vista differenti, via via scopriamo i complessi rapporti tra queste due famiglie, e si vanno delineando i motivi dell'ostilità di Gary, ma soprattutto di Jack nei confronti di Mikey. La vicenda si fa così sempre più cupa e nera, e si avverte con forza sempre maggiore quanto primitiva e lontana dal mondo sia la vita di queste persone, talvolta frutto di una scelta consapevole, una forma quasi di espiazione dei propri errori, altre volte una condizione che si subisce ma da cui non si riesce a sfuggire.
Storia fatta di buio, di sangue, di sguardi e di pochissime parole, in cui viene lasciato interamente allo spettatore interpretare i sentimenti e i pensieri che stanno dietro le azioni non sempre prevedibili dei personaggi del film.
Ottimo cast, bravo Abbot, sempre con la giusta dose di ambiguità Keoghan. Qualche perplessità ho invece sulla costruzione del film e il montaggio, che a volte ho trovato un po' confuso e disorientante.
A tratti mi ha richiamato alla mente - più come sensazione che come narrazione - As bestas di Sorogoyen, altro dramma provenienti da mondi remoti e rurali, nei quali ogni cosa può amplificarsi e assumere proporzioni ingestibili.
Voto: 3/5
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We live in time - Tutto il tempo che abbiamo
Il regista John Crowley si affida ad Andrew Garfield e Florence Pugh per dare spessore ai protagonisti di questa storia dal soggetto piuttosto classico, ma che sa essere decisamente sorprendente. Tobias e Almut si conoscono in un'occasione non felice: Almut investe Tobias nel giorno in cui lui ha firmato le carte del divorzio. Nel breve tempo che i due trascorrono insieme nasce un feeling che li porterà a rivedersi, e poi a diventare una coppia, a fare una figlia, a condividere gioie e successi personali e lavorativi (Almut è una chef stellata), ad affrontare la malattia di Almut.
Detto così, sembra qualcosa di già visto mille volte, un melodramma tra il romantico e il lacrimevole. Crowley però riesce a dare a questa storia un respiro fresco e originale, ottimamente supportato dall'ottima alchimia tra i due protagonisti, ma anche da una sceneggiatura di altissimo livello (di Nick Payne) e quasi senza sbavature, da un montaggio che attraverso la scomposizione della narrazione ci permette di scoprire le cose in maniera sempre nuova e sorprendente, da una colonna sonora non banale.
Oltre ad alcune scene davvero magistrali (penso in particolare a quella della nascita di Ella nella stazione di servizio), il film promana una tenerezza, una sincerità e una vitalità, che in opere come questa facilmente scadono nello stucchevole e nel lacrimevole. Non che in We live in time non ci si commuova, ma la commozione è uno dei tanti sentimenti della giostra emotiva che Crowley magistralmente costruisce.
Chi legge questo blog sa che rapporto difficile ed entusiasmante ho con il tempo: non potevo non amare un film che mette al centro il "tempo che abbiamo", non per dirci banalmente che dobbiamo vivere il presente ecc. ecc. ma per farci capire, mettendo in sequenza una vita, quanta ricchezza c'è al suo interno, se solo la sappiamo vedere.
Voto: 4/5
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The outrun
The outrun è il film della regista Nora Fingscheidt, tratto dal romanzo autobiografico dal titolo Nelle isole estreme di Amy Liptrot, che è anche coautrice della sceneggiatura.
Al centro del racconto Rona (la sempre bravissima Saoirse Ronan), una giovane donna originaria delle isole Orcadi che ha studiato biologia e vissuto per un periodo a Londra, ma di fronte a un serio problema di alcolismo decide di ritornare a casa, per affrontare i suoi fantasmi anche attraverso un rinnovato contatto con la natura selvaggia delle isole.
Il presente di Rona è nelle Orcadi, dove lei ha fatto ritorno alla ricerca di sé stessa e nel tentativo di colmare i suoi vuoti e dare una risposta alla propria insoddisfazione. Attraverso un montaggio che ci porta avanti e indietro nel tempo, in fasi diverse della giovane vita della protagonista, via via ne comprendiamo il percorso e la personalità: vediamo Rona bambina all'interno di un contesto familiare non facile, in particolare a causa del bipolarismo grave del padre che ha portato alla separazione dei genitori e ha spinto la madre verso una religiosità quasi bigotta; poi più avanti la ritroviamo a Londra tra discoteche, uscite con gli amici, sbronze colossali, e nelle varie fasi del rapporto con il giovane Daynin (Paapa Essiedu), dall'intesa iniziale all'allontanamento a causa dei problemi di alcolismo di lei; infine la ritroviamo nel primo tentativo di rimanere sobria attraverso un programma di disintossicazione, che dopo oltre 200 giorni si infrange contro una crisi del padre e il fondo di vino di un bicchiere.
Rispetto ad altre storie simili che già conosciamo o che abbiamo visto sullo schermo, la cosa interessante in questo caso non è solo la riflessione sulla dipendenza, ma anche e soprattutto il rapporto con il paesaggio e la natura, probabilmente particolarmente significativo per Rona in virtù della sua formazione universitaria, ma anche come conseguenza delle sue origini.
Nell'alternativa tra metropoli e ruralità estrema io al momento non avrei dubbi su cosa scegliere e faccio davvero fatica a capire una vita così solitaria e ritirata in un posto dal clima così inospitale, però devo anche dire che queste realtà mi affascinano enormemente e mi piacerebbe entrarci in contatto.
Voto: 3,5/5
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Conclave
Di Edward Berger avevo visto Niente di nuovo sul fronte occidentale (non al cinema) e devo dire che non mi aveva colpita particolarmente. Questa volta il regista austriaco - ispirandosi nuovamente a un romanzo - si sposta dalle trincee della prima guerra mondiale a un luogo se vogliamo ancora più claustrofobico, le stanze del Vaticano durante il conclave.
Il libro omonimo è quello di Robert Harris, un best seller che ovviamente non ho letto, ma che - dopo aver visto il film - mi sono fatta l'idea che appartenga allo stesso genere di libri come Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Al centro del romanzo la morte del pontefice, a seguito della quale viene affidato al cardinale decano Thomas Lawrence (un credibilissimo Ralph Fiennes) il compito di gestire il conclave che dovrà eleggere il nuovo pontefice. Mentre a Roma convergono da tutto il mondo i cardinali, nonché un folto stuolo di suore che dovrà occuparsi del vitto e alloggio degli stessi durante il periodo del conclave, si vanno delineando gli schieramenti. Al soglio pontificio ambiscono un cardinale africano Adeyemi (Lucian Msamati), lo statunitense cardinale Tremblay (John Lithgow), nonché due italiani, i cardinali Bellini (Stanley Tucci) e Tedesco (Sergio Castellitto), esponenti di posizioni "politiche" e punti di vista molto diversi.
Il tono della narrazione è quello di un vero e proprio thriller, in cui si susseguono i colpi di scena: prima l'arrivo di un cardinale nominato in pectore dal precedente pontefice, il cardinale Benitez (Carlos Diehz), poi l'emergere di scandali che riguardano Adeyemi e Tremblay, e parallelamente anche il voto dei convenuti si sposta. Lawrence deve gestire tutto questo, in una condizione individuale sempre più difficile e incerta, fino al colpo di scena finale (invero piuttosto incredibile, nel senso di difficile da credere).
Non si può dire che il film non mantenga viva l'attenzione, e certamente si avvale di attori molto in parte (su tutti Ralph Fiennes), però sul piano dell'intreccio non convince (probabilmente come il libro da cui proviene). Ho trovato invece strepitosa la fotografia - alcune scene da lasciare a bocca aperta per composizione e colori - e molto affascinanti procedure e dettagli messi a punto nei secoli dalla Chiesa per gestire il momento della transizione tra un pontefice e un altro.
Voto: 3/5
A tratti mi ha richiamato alla mente - più come sensazione che come narrazione - As bestas di Sorogoyen, altro dramma provenienti da mondi remoti e rurali, nei quali ogni cosa può amplificarsi e assumere proporzioni ingestibili.
Voto: 3/5
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We live in time - Tutto il tempo che abbiamo
Il regista John Crowley si affida ad Andrew Garfield e Florence Pugh per dare spessore ai protagonisti di questa storia dal soggetto piuttosto classico, ma che sa essere decisamente sorprendente. Tobias e Almut si conoscono in un'occasione non felice: Almut investe Tobias nel giorno in cui lui ha firmato le carte del divorzio. Nel breve tempo che i due trascorrono insieme nasce un feeling che li porterà a rivedersi, e poi a diventare una coppia, a fare una figlia, a condividere gioie e successi personali e lavorativi (Almut è una chef stellata), ad affrontare la malattia di Almut.
Detto così, sembra qualcosa di già visto mille volte, un melodramma tra il romantico e il lacrimevole. Crowley però riesce a dare a questa storia un respiro fresco e originale, ottimamente supportato dall'ottima alchimia tra i due protagonisti, ma anche da una sceneggiatura di altissimo livello (di Nick Payne) e quasi senza sbavature, da un montaggio che attraverso la scomposizione della narrazione ci permette di scoprire le cose in maniera sempre nuova e sorprendente, da una colonna sonora non banale.
Oltre ad alcune scene davvero magistrali (penso in particolare a quella della nascita di Ella nella stazione di servizio), il film promana una tenerezza, una sincerità e una vitalità, che in opere come questa facilmente scadono nello stucchevole e nel lacrimevole. Non che in We live in time non ci si commuova, ma la commozione è uno dei tanti sentimenti della giostra emotiva che Crowley magistralmente costruisce.
Chi legge questo blog sa che rapporto difficile ed entusiasmante ho con il tempo: non potevo non amare un film che mette al centro il "tempo che abbiamo", non per dirci banalmente che dobbiamo vivere il presente ecc. ecc. ma per farci capire, mettendo in sequenza una vita, quanta ricchezza c'è al suo interno, se solo la sappiamo vedere.
Voto: 4/5
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The outrun
The outrun è il film della regista Nora Fingscheidt, tratto dal romanzo autobiografico dal titolo Nelle isole estreme di Amy Liptrot, che è anche coautrice della sceneggiatura.
Al centro del racconto Rona (la sempre bravissima Saoirse Ronan), una giovane donna originaria delle isole Orcadi che ha studiato biologia e vissuto per un periodo a Londra, ma di fronte a un serio problema di alcolismo decide di ritornare a casa, per affrontare i suoi fantasmi anche attraverso un rinnovato contatto con la natura selvaggia delle isole.
Il presente di Rona è nelle Orcadi, dove lei ha fatto ritorno alla ricerca di sé stessa e nel tentativo di colmare i suoi vuoti e dare una risposta alla propria insoddisfazione. Attraverso un montaggio che ci porta avanti e indietro nel tempo, in fasi diverse della giovane vita della protagonista, via via ne comprendiamo il percorso e la personalità: vediamo Rona bambina all'interno di un contesto familiare non facile, in particolare a causa del bipolarismo grave del padre che ha portato alla separazione dei genitori e ha spinto la madre verso una religiosità quasi bigotta; poi più avanti la ritroviamo a Londra tra discoteche, uscite con gli amici, sbronze colossali, e nelle varie fasi del rapporto con il giovane Daynin (Paapa Essiedu), dall'intesa iniziale all'allontanamento a causa dei problemi di alcolismo di lei; infine la ritroviamo nel primo tentativo di rimanere sobria attraverso un programma di disintossicazione, che dopo oltre 200 giorni si infrange contro una crisi del padre e il fondo di vino di un bicchiere.
Rispetto ad altre storie simili che già conosciamo o che abbiamo visto sullo schermo, la cosa interessante in questo caso non è solo la riflessione sulla dipendenza, ma anche e soprattutto il rapporto con il paesaggio e la natura, probabilmente particolarmente significativo per Rona in virtù della sua formazione universitaria, ma anche come conseguenza delle sue origini.
Nell'alternativa tra metropoli e ruralità estrema io al momento non avrei dubbi su cosa scegliere e faccio davvero fatica a capire una vita così solitaria e ritirata in un posto dal clima così inospitale, però devo anche dire che queste realtà mi affascinano enormemente e mi piacerebbe entrarci in contatto.
Voto: 3,5/5
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Conclave
Di Edward Berger avevo visto Niente di nuovo sul fronte occidentale (non al cinema) e devo dire che non mi aveva colpita particolarmente. Questa volta il regista austriaco - ispirandosi nuovamente a un romanzo - si sposta dalle trincee della prima guerra mondiale a un luogo se vogliamo ancora più claustrofobico, le stanze del Vaticano durante il conclave.
Il libro omonimo è quello di Robert Harris, un best seller che ovviamente non ho letto, ma che - dopo aver visto il film - mi sono fatta l'idea che appartenga allo stesso genere di libri come Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Al centro del romanzo la morte del pontefice, a seguito della quale viene affidato al cardinale decano Thomas Lawrence (un credibilissimo Ralph Fiennes) il compito di gestire il conclave che dovrà eleggere il nuovo pontefice. Mentre a Roma convergono da tutto il mondo i cardinali, nonché un folto stuolo di suore che dovrà occuparsi del vitto e alloggio degli stessi durante il periodo del conclave, si vanno delineando gli schieramenti. Al soglio pontificio ambiscono un cardinale africano Adeyemi (Lucian Msamati), lo statunitense cardinale Tremblay (John Lithgow), nonché due italiani, i cardinali Bellini (Stanley Tucci) e Tedesco (Sergio Castellitto), esponenti di posizioni "politiche" e punti di vista molto diversi.
Il tono della narrazione è quello di un vero e proprio thriller, in cui si susseguono i colpi di scena: prima l'arrivo di un cardinale nominato in pectore dal precedente pontefice, il cardinale Benitez (Carlos Diehz), poi l'emergere di scandali che riguardano Adeyemi e Tremblay, e parallelamente anche il voto dei convenuti si sposta. Lawrence deve gestire tutto questo, in una condizione individuale sempre più difficile e incerta, fino al colpo di scena finale (invero piuttosto incredibile, nel senso di difficile da credere).
Non si può dire che il film non mantenga viva l'attenzione, e certamente si avvale di attori molto in parte (su tutti Ralph Fiennes), però sul piano dell'intreccio non convince (probabilmente come il libro da cui proviene). Ho trovato invece strepitosa la fotografia - alcune scene da lasciare a bocca aperta per composizione e colori - e molto affascinanti procedure e dettagli messi a punto nei secoli dalla Chiesa per gestire il momento della transizione tra un pontefice e un altro.
Voto: 3/5
mercoledì 6 novembre 2024
Festa del cinema di Roma, 16-27 ottobre 2024 (Seconda parte)
Leggi anche la prima parte e la terza parte delle recensioni dei film della Festa del cinema.
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Reading Lolita in Tehran = Leggere Lolita a Teheran
Il film di Eran Riklis (il regista israeliano de La sposa siriana e Il giardino di limoni) è la trasposizione cinematografica del libro omonimo di Azar Nafisi, bestseller a livello mondiale.
La storia è appunto quella di Azar che, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, rientra nel 1979 a Teheran per insegnare all'Università, con grandi speranze sul futuro del paese dopo la rivoluzione. Purtroppo, sappiamo che l'Iran è andato incontro a una rapidissima islamizzazione, di cui hanno subito le conseguenze (e continuano a subirle) soprattutto le donne, cosicché Azar ha dovuto a un certo punto interrompere l'insegnamento. Per alcuni anni la donna ha organizzato presso la sua casa dei seminari insieme a un gruppo di allieve per leggere alcuni classici della letteratura mondiale e riflettere sulla situazione del paese. Proprio attraverso questi incontri ciascuna di loro ha in qualche modo acquisito consapevolezza della propria condizione, e la stessa Azar ha infine scelto di tornare negli Stati Uniti insieme al marito e ai figli.
Il film non mi è piaciuto, nonostante alcune ottime interpreti tra cui Golshifteh Farahani nei panni di Azar Nafisi e Zar Amir nei panni di una delle sue studentesse, e i motivi sono diversi. Sul piano narrativo l'ho trovato legnoso e poco scorrevole, oltre che molto didascalico (le studentesse sono una specie di catalogo delle varie situazioni in cui si possono trovare le donne iraniane); straniante - anche se dovuto a comprensibili ragioni - l'effetto che produce su noi spettatori italiani il fatto che moltissime scene del film siano girate a Roma (più volte viene ad esempio inquadrata la scalinata di ingresso alla Sapienza che diventa l'ingresso all'Università di Teheran).
Ma soprattutto - al di là della questione iraniana e dell'interesse e dell’empatia che suscita in tutti noi – mi è sembrato che il film non aggiunga molto a quanto già conosciamo, o quanto meno non aiuta a comprendere le complessità, e da questo punto di vista non mi pare che i riferimenti letterari facciano crescere la riflessione. I romanzi sono usati qui quasi come feticci e pretesti, e secondo me questo toglie persino forza al loro potere dirompente. Alcune amiche mi dicono che il romanzo da cui è tratto il film ha i medesimi difetti. Dubito che lo leggerò.
Voto: 2,5/5
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The return = Il ritorno
Uberto Pasolini è un regista che seguo da tempo con attenzione. Avevo amato moltissimo il suo film Still life e avevo apprezzato anche il più melodrammatico Nowhere special. Sicuramente avevo già avuto modo di notare il suo tentativo di non ripetersi e di scegliere sempre strade narrative e cinematografiche differenti.
In questo caso però il regista mi sorprende davvero con questo film dedicato a uno specifico episodio dell’Odissea, ossia il momento del ritorno di Ulisse a Itaca, dove la moglie Penelope e il figlio Telemaco resistono da anni al tentativo dei proci di prendere il potere.
Supportato da un cast di tutto rispetto in cui spiccano Ralph Fiennes nei panni di Ulisse e Juliette Binoche in quelli di Penelope (e c’è anche il nostro Claudio Santamaria nel ruolo di Eumeo), Pasolini si lancia nel classico genere peplum, con grande attenzione alle ricostruzioni e grande dispiego di mezzi.
Non posso dire che il film sia brutto, però non posso che esprimere delle perplessità verso questa operazione, certamente coraggiosa ma per me non particolarmente significativa.
È chiaro che quella di Ulisse è una storia senza tempo che appartiene al nostro bagaglio culturale e al nostro immaginario, però - anche o proprio per questo - affrontarla oggi è una sfida davvero difficile, che si scontra da un lato con quanto già conosciamo e abbiamo già visto e dall'altro con un approccio diverso al cinema che ci rende molto più smaliziati e poco inclini ad accogliere pienamente un film di questo tipo. Se un tempo il peplum suscitava nel pubblico grandi emozioni, oggi secondo me è davvero difficile sospendere l’incredulità di fronte a un film di questo tipo, a meno che non si scelga una strada molto più postmoderna come quella di Matteo Rovere ne Il primo re (che comunque in parte soffre di alcune problematiche simili).
Insomma, spero che Pasolini si ravveda da questa strada che ha imboccato e torni a fare quei film più intimisti che personalmente ho apprezzato molto di più.
Voto: 3/5
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Blitz
Steve McQueen è un regista che seguo ormai da parecchio tempo e di cui ho apprezzato molti lavori, da Hunger e Shame, a 12 anni schiavo fino ad arrivare a Small axe, la miniserie di cui avevo visto tre film alla Festa del cinema di Roma del 2020.
Va detto che McQueen è piuttosto imprevedibile e può fare film molto diversi (vedi ad esempio il film Widows che faccio decisamente più fatica a inserire nella sua filmografia), anche se negli ultimi anni sempre di più la sua attenzione si va concentrando sulle questioni razziali che hanno caratterizzato l'Inghilterra e in modo particolare Londra nelle varie fasi della sua storia.
Siamo proprio in questo filone anche con l'ultimo film da lui realizzato per Apple TV, Blitz, che racconta la storia di George (Elliott Heffernan), un ragazzino di 9 anni che vive nell'East End di Londra con la madre Rita (Saoirse Ronan) e il nonno Gerald (Paul Weller). Del padre sappiamo solo che è un giovane della comunità nera di Londra che a un certo punto è stato arrestato dalla polizia quasi senza motivo, e non si sa che fine abbia fatto. Siamo nel 1940, durante i bombardamenti nazisti sulla città, e Rita decide di mandare il figlio nelle campagne intorno a Londra, presso un'altra famiglia, come molti stanno facendo per mettere al sicuro i loro figli. George però vive questa scelta come un tradimento, quindi salterà giù dal treno sul quale è salito e inizierà un epico viaggio attraverso la Londra bombardata per tornare a casa. Durante questo viaggio dovrà affrontare molte situazioni e avventure, in una classica storia di coming of age, che in questo caso si arricchisce della presa di coscienza da parte del bambino di appartenere a una minoranza discriminata.
Il film è ben fatto, e gli interpreti sono molto bravi a partire dalla Ronan e dal piccolo Heffernan, però devo dire che l'ho trovato un po' troppo prevedibile e poco credibile; i personaggi eccessivamente monodimensionali, e la ricostruzione per quanto interessante un po' troppo estetizzante.
Insomma, per me un pochino un passo falso di McQueen; forse la richiesta eccessiva di contenuti per effetto del moltiplicarsi delle piattaforme non aiuta a garantire un livello sempre adeguato, nemmeno quando di mezzo ci sono grandi nomi.
Voto: 3/5
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The seed of the sacred fig = Il seme del fico selvativo
Dopo le prime scene del film, mi torna immediatamente in mente il primo episodio del film Il male non esiste, in particolare nella percezione di un forte senso di contraddizione tra presunta normalità del quotidiano ed eccezionalità della situazione politica e sociale. Scoprirò solo dopo - perché evidentemente a suo tempo non avevo memorizzato il nome - che il regista è lo stesso, quel Mohammad Rasoulof che è dovuto scappare dall'Iran per sfuggire alla persecuzione del regime. Ma non è questo che mi ha reso il film così emotivamente vicino, anche perché sono tutte informazioni che ho letto successivamente.
Il titolo del film viene spiegato dopo i titoli di testa e fa riferimento alla pianta il cui nome scientifico è ficus religiosa, la quale si sviluppa su una pianta ospite e alla fine con i suoi rami soffoca la pianta che la ospita. Questa immagine di soffocamento sicuramente rimanda a chi vive in Iran, ma forse anche agli spettatori che durante la visione saranno lentamente risucchiati in uno stato di angoscia crescente.
La storia è quella di una famiglia, padre, madre e due figlie, la più grande che frequenta l'università e la più piccola al liceo. Il padre è un giudice e tutto inizia con la sua promozione a giudice istruttore e la consegna di una pistola che gli servirà come strumento di autodifesa. Questo nuovo incarico coincide con l'avvio delle manifestazioni di piazza che si fanno sempre più frequenti dopo la morte della giovane Mahsa Amini.
Da un lato dunque le due ragazze - grazie ai loro cellulari e alle testimonianze delle loro amiche, nonché alle esperienze che vivono anche in prima persona - acquistano progressivamente consapevolezza della condizione nella quale il paese si trova, dall'altro il loro padre si trova a dover giudicare frettolosamente i moltissimi casi delle persone arrestate e spesso - proprio in seguito a queste sentenze frettolose - mandate a morte. La madre da un lato è felice della promozione del marito che darà alla famiglia la possibilità di spostarsi in una casa più grande e rappresenta comunque un avanzamento di status, dall'altro è preoccupata del contesto che si sta creando e del fatto che le sue figlie sono sempre più critiche nei confronti del loro stesso padre. La situazione deflagra quando scompare la pistola.
Nel film di Rasoulof il dramma politico-sociale del paese diventa dramma familiare, ed è un dramma che ha più coloriture: non è solo uno scontro tra ideologie politiche, concezioni etiche e religiose, bensì anche un scontro tra generazioni (si veda il rapporto tra la madre e le figlie), e tra generi (perché non è indifferente che si stia parlando di figlie femmine alla soglia dell'età adulta).
Come già avevo avuto modo di osservare ne Il male non esiste, la forza del cinema di Rasoulof non sta solo nell'essere un cinema impegnato e di denuncia (qui abbiamo modo di vedere anche i video veri delle proteste di piazza e delle reazioni violente delle forze dell'ordine), ma soprattutto nel non essere in alcun modo didascalico né giudicante. I suoi personaggi sono sempre stratificati e complessi, mai monodimensionali, e soprattutto è sempre piuttosto evidente la pietas con cui il regista guarda alle persone che - in modi e forme diverse - sono tutti vittime di un sistema disumano, di cui talvolta si fanno strumento, anche perché è un sistema che non consente alternative alla fuga. Non è possibile starci all'interno senza essere perseguitati o persecutori.
The seed of the sacred fig è un film da tre ore, in cui personalmente non ho mai sentito alcuna stanchezza, e che è in grado di giocare persino coi generi, come quando nella parte finale vira potentemente verso il thriller e infine forse verso il grottesco.
Grandissimo film. E del resto non a caso ha vinto il Premio speciale della giuria a Cannes.
Voto: 4,5/5
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Reading Lolita in Tehran = Leggere Lolita a Teheran
Il film di Eran Riklis (il regista israeliano de La sposa siriana e Il giardino di limoni) è la trasposizione cinematografica del libro omonimo di Azar Nafisi, bestseller a livello mondiale.
La storia è appunto quella di Azar che, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, rientra nel 1979 a Teheran per insegnare all'Università, con grandi speranze sul futuro del paese dopo la rivoluzione. Purtroppo, sappiamo che l'Iran è andato incontro a una rapidissima islamizzazione, di cui hanno subito le conseguenze (e continuano a subirle) soprattutto le donne, cosicché Azar ha dovuto a un certo punto interrompere l'insegnamento. Per alcuni anni la donna ha organizzato presso la sua casa dei seminari insieme a un gruppo di allieve per leggere alcuni classici della letteratura mondiale e riflettere sulla situazione del paese. Proprio attraverso questi incontri ciascuna di loro ha in qualche modo acquisito consapevolezza della propria condizione, e la stessa Azar ha infine scelto di tornare negli Stati Uniti insieme al marito e ai figli.
Il film non mi è piaciuto, nonostante alcune ottime interpreti tra cui Golshifteh Farahani nei panni di Azar Nafisi e Zar Amir nei panni di una delle sue studentesse, e i motivi sono diversi. Sul piano narrativo l'ho trovato legnoso e poco scorrevole, oltre che molto didascalico (le studentesse sono una specie di catalogo delle varie situazioni in cui si possono trovare le donne iraniane); straniante - anche se dovuto a comprensibili ragioni - l'effetto che produce su noi spettatori italiani il fatto che moltissime scene del film siano girate a Roma (più volte viene ad esempio inquadrata la scalinata di ingresso alla Sapienza che diventa l'ingresso all'Università di Teheran).
Ma soprattutto - al di là della questione iraniana e dell'interesse e dell’empatia che suscita in tutti noi – mi è sembrato che il film non aggiunga molto a quanto già conosciamo, o quanto meno non aiuta a comprendere le complessità, e da questo punto di vista non mi pare che i riferimenti letterari facciano crescere la riflessione. I romanzi sono usati qui quasi come feticci e pretesti, e secondo me questo toglie persino forza al loro potere dirompente. Alcune amiche mi dicono che il romanzo da cui è tratto il film ha i medesimi difetti. Dubito che lo leggerò.
Voto: 2,5/5
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The return = Il ritorno
Uberto Pasolini è un regista che seguo da tempo con attenzione. Avevo amato moltissimo il suo film Still life e avevo apprezzato anche il più melodrammatico Nowhere special. Sicuramente avevo già avuto modo di notare il suo tentativo di non ripetersi e di scegliere sempre strade narrative e cinematografiche differenti.
In questo caso però il regista mi sorprende davvero con questo film dedicato a uno specifico episodio dell’Odissea, ossia il momento del ritorno di Ulisse a Itaca, dove la moglie Penelope e il figlio Telemaco resistono da anni al tentativo dei proci di prendere il potere.
Supportato da un cast di tutto rispetto in cui spiccano Ralph Fiennes nei panni di Ulisse e Juliette Binoche in quelli di Penelope (e c’è anche il nostro Claudio Santamaria nel ruolo di Eumeo), Pasolini si lancia nel classico genere peplum, con grande attenzione alle ricostruzioni e grande dispiego di mezzi.
Non posso dire che il film sia brutto, però non posso che esprimere delle perplessità verso questa operazione, certamente coraggiosa ma per me non particolarmente significativa.
È chiaro che quella di Ulisse è una storia senza tempo che appartiene al nostro bagaglio culturale e al nostro immaginario, però - anche o proprio per questo - affrontarla oggi è una sfida davvero difficile, che si scontra da un lato con quanto già conosciamo e abbiamo già visto e dall'altro con un approccio diverso al cinema che ci rende molto più smaliziati e poco inclini ad accogliere pienamente un film di questo tipo. Se un tempo il peplum suscitava nel pubblico grandi emozioni, oggi secondo me è davvero difficile sospendere l’incredulità di fronte a un film di questo tipo, a meno che non si scelga una strada molto più postmoderna come quella di Matteo Rovere ne Il primo re (che comunque in parte soffre di alcune problematiche simili).
Insomma, spero che Pasolini si ravveda da questa strada che ha imboccato e torni a fare quei film più intimisti che personalmente ho apprezzato molto di più.
Voto: 3/5
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Blitz
Steve McQueen è un regista che seguo ormai da parecchio tempo e di cui ho apprezzato molti lavori, da Hunger e Shame, a 12 anni schiavo fino ad arrivare a Small axe, la miniserie di cui avevo visto tre film alla Festa del cinema di Roma del 2020.
Va detto che McQueen è piuttosto imprevedibile e può fare film molto diversi (vedi ad esempio il film Widows che faccio decisamente più fatica a inserire nella sua filmografia), anche se negli ultimi anni sempre di più la sua attenzione si va concentrando sulle questioni razziali che hanno caratterizzato l'Inghilterra e in modo particolare Londra nelle varie fasi della sua storia.
Siamo proprio in questo filone anche con l'ultimo film da lui realizzato per Apple TV, Blitz, che racconta la storia di George (Elliott Heffernan), un ragazzino di 9 anni che vive nell'East End di Londra con la madre Rita (Saoirse Ronan) e il nonno Gerald (Paul Weller). Del padre sappiamo solo che è un giovane della comunità nera di Londra che a un certo punto è stato arrestato dalla polizia quasi senza motivo, e non si sa che fine abbia fatto. Siamo nel 1940, durante i bombardamenti nazisti sulla città, e Rita decide di mandare il figlio nelle campagne intorno a Londra, presso un'altra famiglia, come molti stanno facendo per mettere al sicuro i loro figli. George però vive questa scelta come un tradimento, quindi salterà giù dal treno sul quale è salito e inizierà un epico viaggio attraverso la Londra bombardata per tornare a casa. Durante questo viaggio dovrà affrontare molte situazioni e avventure, in una classica storia di coming of age, che in questo caso si arricchisce della presa di coscienza da parte del bambino di appartenere a una minoranza discriminata.
Il film è ben fatto, e gli interpreti sono molto bravi a partire dalla Ronan e dal piccolo Heffernan, però devo dire che l'ho trovato un po' troppo prevedibile e poco credibile; i personaggi eccessivamente monodimensionali, e la ricostruzione per quanto interessante un po' troppo estetizzante.
Insomma, per me un pochino un passo falso di McQueen; forse la richiesta eccessiva di contenuti per effetto del moltiplicarsi delle piattaforme non aiuta a garantire un livello sempre adeguato, nemmeno quando di mezzo ci sono grandi nomi.
Voto: 3/5
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The seed of the sacred fig = Il seme del fico selvativo
Dopo le prime scene del film, mi torna immediatamente in mente il primo episodio del film Il male non esiste, in particolare nella percezione di un forte senso di contraddizione tra presunta normalità del quotidiano ed eccezionalità della situazione politica e sociale. Scoprirò solo dopo - perché evidentemente a suo tempo non avevo memorizzato il nome - che il regista è lo stesso, quel Mohammad Rasoulof che è dovuto scappare dall'Iran per sfuggire alla persecuzione del regime. Ma non è questo che mi ha reso il film così emotivamente vicino, anche perché sono tutte informazioni che ho letto successivamente.
Il titolo del film viene spiegato dopo i titoli di testa e fa riferimento alla pianta il cui nome scientifico è ficus religiosa, la quale si sviluppa su una pianta ospite e alla fine con i suoi rami soffoca la pianta che la ospita. Questa immagine di soffocamento sicuramente rimanda a chi vive in Iran, ma forse anche agli spettatori che durante la visione saranno lentamente risucchiati in uno stato di angoscia crescente.
La storia è quella di una famiglia, padre, madre e due figlie, la più grande che frequenta l'università e la più piccola al liceo. Il padre è un giudice e tutto inizia con la sua promozione a giudice istruttore e la consegna di una pistola che gli servirà come strumento di autodifesa. Questo nuovo incarico coincide con l'avvio delle manifestazioni di piazza che si fanno sempre più frequenti dopo la morte della giovane Mahsa Amini.
Da un lato dunque le due ragazze - grazie ai loro cellulari e alle testimonianze delle loro amiche, nonché alle esperienze che vivono anche in prima persona - acquistano progressivamente consapevolezza della condizione nella quale il paese si trova, dall'altro il loro padre si trova a dover giudicare frettolosamente i moltissimi casi delle persone arrestate e spesso - proprio in seguito a queste sentenze frettolose - mandate a morte. La madre da un lato è felice della promozione del marito che darà alla famiglia la possibilità di spostarsi in una casa più grande e rappresenta comunque un avanzamento di status, dall'altro è preoccupata del contesto che si sta creando e del fatto che le sue figlie sono sempre più critiche nei confronti del loro stesso padre. La situazione deflagra quando scompare la pistola.
Nel film di Rasoulof il dramma politico-sociale del paese diventa dramma familiare, ed è un dramma che ha più coloriture: non è solo uno scontro tra ideologie politiche, concezioni etiche e religiose, bensì anche un scontro tra generazioni (si veda il rapporto tra la madre e le figlie), e tra generi (perché non è indifferente che si stia parlando di figlie femmine alla soglia dell'età adulta).
Come già avevo avuto modo di osservare ne Il male non esiste, la forza del cinema di Rasoulof non sta solo nell'essere un cinema impegnato e di denuncia (qui abbiamo modo di vedere anche i video veri delle proteste di piazza e delle reazioni violente delle forze dell'ordine), ma soprattutto nel non essere in alcun modo didascalico né giudicante. I suoi personaggi sono sempre stratificati e complessi, mai monodimensionali, e soprattutto è sempre piuttosto evidente la pietas con cui il regista guarda alle persone che - in modi e forme diverse - sono tutti vittime di un sistema disumano, di cui talvolta si fanno strumento, anche perché è un sistema che non consente alternative alla fuga. Non è possibile starci all'interno senza essere perseguitati o persecutori.
The seed of the sacred fig è un film da tre ore, in cui personalmente non ho mai sentito alcuna stanchezza, e che è in grado di giocare persino coi generi, come quando nella parte finale vira potentemente verso il thriller e infine forse verso il grottesco.
Grandissimo film. E del resto non a caso ha vinto il Premio speciale della giuria a Cannes.
Voto: 4,5/5
lunedì 4 novembre 2024
Festa del cinema di Roma, 16-27 ottobre 2024 (Prima parte)
E anche stavolta si rispetta l'ormai pluriennale tradizione della settimana dedicata alla festa del cinema di Roma, che quest'anno si è svolta tra il 16 e il 27 ottobre, e che - come sempre - viaggia in parallelo ad Alice nella città, il festival rivolto in particolare al pubblico più giovane.
Nonostante la stanchezza indicibile di questo autunno, mi organizzo per andare a vedere ben 14 film, quasi un record, anche rispetto ai miei già elevati standard.
Vi racconto qui quello che ho visto, spendendo come sempre qualche parola in più per quello che mi è piaciuto di più.
Nonostante la stanchezza indicibile di questo autunno, mi organizzo per andare a vedere ben 14 film, quasi un record, anche rispetto ai miei già elevati standard.
Vi racconto qui quello che ho visto, spendendo come sempre qualche parola in più per quello che mi è piaciuto di più.
[Vedi anche la seconda e la terza parte delle recensioni dei film della Festa del cinema 2024].
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Nickel boys
Il mio festival del cinema si apre con questo film di RaMell Ross, tratto dal romanzo omonimo di Colson Whitehead (di cui a suo tempo ho letto La ferrovia sotterranea). Si tratta del film di apertura di Alice nella città: all'Auditorium Conciliazione, dove si tiene la proiezione, sono presenti il regista, la co-sceneggiatrice e produttrice Joslyn Barnes, l’attrice Aunjanue Ellis, e i due attori protagonisti, Ethan Herisse e Brandon Wilson.
La storia è quella di Elwood (Ethan Herisse), un giovane afroamericano che vive nella Tallahassee degli anni Sessanta con la nonna Hettie (Aunjanue Ellis). Elwood è studioso e ha grandi ideali, anche ispirato da Martin Luther King e dai movimenti per la fine della segregazione razziale. Un giorno, mentre sta andando al college, dove è stato ammesso grazie alle sue capacità, accetta il passaggio di un uomo che poi si scopre aver rubato l’auto, e nonostante Elwood non c’entri nulla viene mandato alla Nickel Academy, una scuola-riformatorio per adolescenti (ispirata a una scuola realmente esistita). Qui Elwood conosce e diventa amico di Turner (Brandon Wilson), un giovane molto più cinico e smaliziato, che aiuterà Elwood a sopravvivere in un ambiente abusivo e violento e a sua volta sarà profondamente influenzato dall'idealismo e dalla generosità dell’amico.
Il film di RaMell Ross è potente e originale: è quasi interamente girato in soggettiva, in pratica vediamo il mondo dal punto di vista di Elwood e di Turner, gli stiamo letteralmente addosso, o meglio nei loro panni, il che rende tutto quello che vivono ancora più di impatto, in quanto produce un feedback non solo visivo, ma quasi fisico. La brutalità che attraversa il film e di cui questi ragazzi sono vittime viene mostrata solo in parte, perché il regista preferisce lavorare anche sul piano onirico, trasformando in visioni – in parte animalesche – quello che Elwood vede e prova. Eppure, il film arriva forte e potente come una bastonata, a cui è difficile sottrarsi emotivamente. Il regista non rinuncia inoltre a contaminare la fiction con la sua formazione da documentarista, e man mano che la storia procede essa è inframmezzata da immagini di repertorio che ci mostrano luoghi e reperti che capiremo essere il risultato delle indagini svolte a molti anni di distanza e delle ricerche di chi, da adulto, ha scelto a un certo punto di non tacere e di aiutare la verità ad emergere.
Non ci saranno mai abbastanza film a raccontare quello che i neri hanno subito (e in buona parte subiscono ancora) nella patria della democrazia occidentale, e che in questo caso si somma all'orrore degli ambienti in cui adolescenti e giovani si trovano in balia di adulti che possono esercitare un potere senza limiti e scrupoli.
Un film che merita grande diffusione. E personalmente metto già in lista la lettura del romanzo.
Voto: 4/5
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Pierce
Il secondo giorno della festa del cinema vado a vedere questa opera prima della regista Nelicia Low, campionessa di scherma, ora passata al mondo del cinema.
Non a caso, questo suo primo film è ambientato proprio nel mondo della scherma e racconta di due fratelli, Zihan (Tsao Yu-Ning) e Zijie (Liu Hsiu-Fu), legati proprio dalla passione per questo sport. Il fratello maggiore Zihan è appena uscito dal carcere, dopo aver scontato la pena per l’omicidio di un giovane proprio durante uno scambio di scherma: il giovane ha sempre affermato di essere innocente e che si è trattato di un incidente, e suo fratello minore Zijie – che è legato al ricordo di essere stato salvato dal fratello mentre stava per annegare in un fiume – gli crede, al contrario di sua madre che non vuole più nemmeno vedere il figlio maggiore.
Il film di Nelicia Low, ispirato ad alcuni fatti di cronaca realmente avvenuti a Taiwan, costruisce il racconto come un thriller psicologico, nel quale il centro dell’attenzione è Zijie, ragazzo gentile, gay non ancora dichiarato, che cerca nel fratello maggiore un sé più adulto e maturo nel quale rispecchiarsi, ma non coglie o non vuole cogliere alcuni segnali di ambiguità.
In un crescendo di tensione, a poco a poco la verità si scopre e gli eventi precipitano, mentre Zijie – di fronte all'evidenza dei fatti – farà una scelta estrema e sorprendente.
Che dire? Non necessariamente un brutto film, regge il ritmo e la tensione per almeno due terzi della durata, ma a un certo punto mi sembra si sfilacci e si faccia sempre più inverosimile.
Bravo il giovane Liu Hsiu-Fu nel ruolo di questo ragazzo delicato e insicuro, dalla personalità ancora in costruzione, che di fronte alla verità non riesce a marcare la differenza con il fratello, anzi finisce per sostituirsi a lui.
Voto: 2,5/5
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I am Martin Parr
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Nickel boys
Il mio festival del cinema si apre con questo film di RaMell Ross, tratto dal romanzo omonimo di Colson Whitehead (di cui a suo tempo ho letto La ferrovia sotterranea). Si tratta del film di apertura di Alice nella città: all'Auditorium Conciliazione, dove si tiene la proiezione, sono presenti il regista, la co-sceneggiatrice e produttrice Joslyn Barnes, l’attrice Aunjanue Ellis, e i due attori protagonisti, Ethan Herisse e Brandon Wilson.
La storia è quella di Elwood (Ethan Herisse), un giovane afroamericano che vive nella Tallahassee degli anni Sessanta con la nonna Hettie (Aunjanue Ellis). Elwood è studioso e ha grandi ideali, anche ispirato da Martin Luther King e dai movimenti per la fine della segregazione razziale. Un giorno, mentre sta andando al college, dove è stato ammesso grazie alle sue capacità, accetta il passaggio di un uomo che poi si scopre aver rubato l’auto, e nonostante Elwood non c’entri nulla viene mandato alla Nickel Academy, una scuola-riformatorio per adolescenti (ispirata a una scuola realmente esistita). Qui Elwood conosce e diventa amico di Turner (Brandon Wilson), un giovane molto più cinico e smaliziato, che aiuterà Elwood a sopravvivere in un ambiente abusivo e violento e a sua volta sarà profondamente influenzato dall'idealismo e dalla generosità dell’amico.
Il film di RaMell Ross è potente e originale: è quasi interamente girato in soggettiva, in pratica vediamo il mondo dal punto di vista di Elwood e di Turner, gli stiamo letteralmente addosso, o meglio nei loro panni, il che rende tutto quello che vivono ancora più di impatto, in quanto produce un feedback non solo visivo, ma quasi fisico. La brutalità che attraversa il film e di cui questi ragazzi sono vittime viene mostrata solo in parte, perché il regista preferisce lavorare anche sul piano onirico, trasformando in visioni – in parte animalesche – quello che Elwood vede e prova. Eppure, il film arriva forte e potente come una bastonata, a cui è difficile sottrarsi emotivamente. Il regista non rinuncia inoltre a contaminare la fiction con la sua formazione da documentarista, e man mano che la storia procede essa è inframmezzata da immagini di repertorio che ci mostrano luoghi e reperti che capiremo essere il risultato delle indagini svolte a molti anni di distanza e delle ricerche di chi, da adulto, ha scelto a un certo punto di non tacere e di aiutare la verità ad emergere.
Non ci saranno mai abbastanza film a raccontare quello che i neri hanno subito (e in buona parte subiscono ancora) nella patria della democrazia occidentale, e che in questo caso si somma all'orrore degli ambienti in cui adolescenti e giovani si trovano in balia di adulti che possono esercitare un potere senza limiti e scrupoli.
Un film che merita grande diffusione. E personalmente metto già in lista la lettura del romanzo.
Voto: 4/5
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Pierce
Il secondo giorno della festa del cinema vado a vedere questa opera prima della regista Nelicia Low, campionessa di scherma, ora passata al mondo del cinema.
Non a caso, questo suo primo film è ambientato proprio nel mondo della scherma e racconta di due fratelli, Zihan (Tsao Yu-Ning) e Zijie (Liu Hsiu-Fu), legati proprio dalla passione per questo sport. Il fratello maggiore Zihan è appena uscito dal carcere, dopo aver scontato la pena per l’omicidio di un giovane proprio durante uno scambio di scherma: il giovane ha sempre affermato di essere innocente e che si è trattato di un incidente, e suo fratello minore Zijie – che è legato al ricordo di essere stato salvato dal fratello mentre stava per annegare in un fiume – gli crede, al contrario di sua madre che non vuole più nemmeno vedere il figlio maggiore.
Il film di Nelicia Low, ispirato ad alcuni fatti di cronaca realmente avvenuti a Taiwan, costruisce il racconto come un thriller psicologico, nel quale il centro dell’attenzione è Zijie, ragazzo gentile, gay non ancora dichiarato, che cerca nel fratello maggiore un sé più adulto e maturo nel quale rispecchiarsi, ma non coglie o non vuole cogliere alcuni segnali di ambiguità.
In un crescendo di tensione, a poco a poco la verità si scopre e gli eventi precipitano, mentre Zijie – di fronte all'evidenza dei fatti – farà una scelta estrema e sorprendente.
Che dire? Non necessariamente un brutto film, regge il ritmo e la tensione per almeno due terzi della durata, ma a un certo punto mi sembra si sfilacci e si faccia sempre più inverosimile.
Bravo il giovane Liu Hsiu-Fu nel ruolo di questo ragazzo delicato e insicuro, dalla personalità ancora in costruzione, che di fronte alla verità non riesce a marcare la differenza con il fratello, anzi finisce per sostituirsi a lui.
Voto: 2,5/5
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I am Martin Parr
Non poteva mancare nella mia maratona cinematografica il documentario che Lee Shulman ha dedicato al fotografo britannico Martin Parr, di cui ho dato poco visitato la mostra Short & sweet a Bologna.
Il documentario ripercorre la carriera del fotografo, dalla scoperta della fotografia a 13 anni grazie al nonno, agli esordi con le fotografie in bianco e nero, fino ad arrivare alla fotografia a colori che ne ha segnato la consacrazione con quel suo stile inconfondibile che o si ama o si odia, tanto che anche il suo ingresso – piuttosto tardo – nell'agenzia fotografica Magnum è stato piuttosto controverso.
Il documentario è costruito in maniera piuttosto classica: da un lato segue Martin nelle sue uscite quotidiane per fare fotografie, con il suo inseparabile carrello che lo aiuta a camminare e gli consente anche di tanto in tanto di riposarsi, dall'altro propone immagini di repertorio e stralci di interviste sia a persone a lui molto vicine come la moglie e il fotografo Bruce Gilden, sia ad altri esponenti del mondo della fotografia e dell’arte (fotografi, critici, curatori ecc.). Ovviamente l’intero documentario è attraversato dalle foto e dai progetti fotografici di Martin che in questo momento ho particolarmente presenti, proprio grazie alla mostra che ho da poco visitato.
Nel suo impianto piuttosto classico, il documentario riesce però anche a essere - nella forma e nei colori - molto coerente con lo stile ipersaturo e un po’ kitsch di Martin Parr, ma soprattutto riesce a trasmettere in modo sincero e piuttosto immediato la personalità di quest’uomo mite e sornione, ma anche sfacciato e ossessivo, che nella fotografia ha trovato il suo modo di raccontare la società, le classi sociali, ma anche e soprattutto le persone, e in particolare un popolo, gli inglesi, con tutte le loro caratteristiche positive e negative.
Un collezionista, un grande lavoratore, un amante della vita, che ha già lasciato un segno indelebile nel mondo della fotografia.
Voto: 3,5/5
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En fanfare
En fanfare fa parte della rassegna "Best of" della Festa del cinema di Roma, ed è una commedia francese presentata all'ultimo festival di Cannes. Il film di Emmanuel Courcol ha come protagonista Thibaud (Benjamin Lavernhe), un famoso direttore d’orchestra che, dopo la diagnosi di leucemia, alla ricerca di un midollo compatibile, scopre di essere stato adottato e di avere un fratello di cui non sospettava l’esistenza, Jimmy (Pierre Lottin), che vive in un paese a nord della Francia, fa il cuoco in una mensa e suona il trombone nella banda locale. Sarà proprio sulla comune passione per la musica che – attraverso incomprensioni e riavvicinamenti – i due fratelli costruiranno un rapporto, e ciascuno di loro sarà chiamato a una rinnovata riflessione sul proprio destino ma anche sulle proprie scelte di vita.
En fanfare è una commedia gradevole e ben recitata, ma piuttosto prevedibile nella sua struttura narrativa e inevitabilmente un po’ troppo buonista. Regala però bei momenti di musica, e due interpreti molto bravi, oltre che momenti di leggerezza e di divertimento mai greve né superficiale, dimostrando ancora una volta la capacità del cinema francese di frequentare, con intelligenza, buon gusto e qualche elemento di originalità, il genere della commedia. Il film uscirà in Italia con il banalissimo titolo di L’orchestra stonata che toglierà a questo film quella dignità e possibilità di essere visto anche da un pubblico dal palato un po’ più raffinato che pure avrebbe potuto avere.
Voto: 3/5
Il documentario ripercorre la carriera del fotografo, dalla scoperta della fotografia a 13 anni grazie al nonno, agli esordi con le fotografie in bianco e nero, fino ad arrivare alla fotografia a colori che ne ha segnato la consacrazione con quel suo stile inconfondibile che o si ama o si odia, tanto che anche il suo ingresso – piuttosto tardo – nell'agenzia fotografica Magnum è stato piuttosto controverso.
Il documentario è costruito in maniera piuttosto classica: da un lato segue Martin nelle sue uscite quotidiane per fare fotografie, con il suo inseparabile carrello che lo aiuta a camminare e gli consente anche di tanto in tanto di riposarsi, dall'altro propone immagini di repertorio e stralci di interviste sia a persone a lui molto vicine come la moglie e il fotografo Bruce Gilden, sia ad altri esponenti del mondo della fotografia e dell’arte (fotografi, critici, curatori ecc.). Ovviamente l’intero documentario è attraversato dalle foto e dai progetti fotografici di Martin che in questo momento ho particolarmente presenti, proprio grazie alla mostra che ho da poco visitato.
Nel suo impianto piuttosto classico, il documentario riesce però anche a essere - nella forma e nei colori - molto coerente con lo stile ipersaturo e un po’ kitsch di Martin Parr, ma soprattutto riesce a trasmettere in modo sincero e piuttosto immediato la personalità di quest’uomo mite e sornione, ma anche sfacciato e ossessivo, che nella fotografia ha trovato il suo modo di raccontare la società, le classi sociali, ma anche e soprattutto le persone, e in particolare un popolo, gli inglesi, con tutte le loro caratteristiche positive e negative.
Un collezionista, un grande lavoratore, un amante della vita, che ha già lasciato un segno indelebile nel mondo della fotografia.
Voto: 3,5/5
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En fanfare
En fanfare fa parte della rassegna "Best of" della Festa del cinema di Roma, ed è una commedia francese presentata all'ultimo festival di Cannes. Il film di Emmanuel Courcol ha come protagonista Thibaud (Benjamin Lavernhe), un famoso direttore d’orchestra che, dopo la diagnosi di leucemia, alla ricerca di un midollo compatibile, scopre di essere stato adottato e di avere un fratello di cui non sospettava l’esistenza, Jimmy (Pierre Lottin), che vive in un paese a nord della Francia, fa il cuoco in una mensa e suona il trombone nella banda locale. Sarà proprio sulla comune passione per la musica che – attraverso incomprensioni e riavvicinamenti – i due fratelli costruiranno un rapporto, e ciascuno di loro sarà chiamato a una rinnovata riflessione sul proprio destino ma anche sulle proprie scelte di vita.
En fanfare è una commedia gradevole e ben recitata, ma piuttosto prevedibile nella sua struttura narrativa e inevitabilmente un po’ troppo buonista. Regala però bei momenti di musica, e due interpreti molto bravi, oltre che momenti di leggerezza e di divertimento mai greve né superficiale, dimostrando ancora una volta la capacità del cinema francese di frequentare, con intelligenza, buon gusto e qualche elemento di originalità, il genere della commedia. Il film uscirà in Italia con il banalissimo titolo di L’orchestra stonata che toglierà a questo film quella dignità e possibilità di essere visto anche da un pubblico dal palato un po’ più raffinato che pure avrebbe potuto avere.
Voto: 3/5
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Libre
Scelgo questo film nel programma della festa non tanto perché attirata particolarmente dalla trama, ma perché la regista è Mélanie Laurent, che ho amato molto come attrice e che ho cominciato ad apprezzare anche come regista. Comunque, vado a vedere il film senza grandi aspettative e, tra l'altro, senza sapere che sul red carpet ci sarà proprio Mélanie, insieme alla protagonista femminile Léa Luce Busato, il che per me è una sorpresa più che gradita. Tento anche di farmi una foto con la Laurent, ma niente da fare, ogni volta che mi avvicino viene richiamata da qualcos'altro.
Il film, invece, si rivela una vera sorpresa positiva. Libre racconta la storia di Bruno Sulak (interpretato da Lucas Bravo), un ladro molto famoso in Francia negli anni Settanta e primi anni Ottanta, una specie di ladro gentiluomo, autore di una serie di rapine incredibili e di evasioni spettacolari dal carcere, morto a soli 29 anni dopo l'ennesimo tentativo di fuga.
Pare che il film dovesse chiamarsi Sulak, ma a seguito delle proteste dei familiari dell'uomo, alla fine la regista ha scelto un altro titolo e ovviamente ha subito dichiarato che i fatti raccontati sono ispirati al personaggio reale, ma il film è comunque una narrazione parzialmente romanzata.
Però, a mio modesto avviso, questi sono aspetti secondari rispetto alla scrittura e alla confezione del film che dimostrano chiarezza di intenti e maestria. La storia di Sulak è trattata, sul piano della sceneggiatura, in maniera estremamente classica nella migliore tradizione del polar, richiamando alla mente molti precedenti, non ultimo Arsenio Lupin e l'insieme dei personaggi che gli ruotano attorno e che echeggiano nei protagonisti del film: dall'amata Annie, ai compari di avventure, fino ad arrivare al suo rivale, l'ispettore Georges Moréas (interpretato da Yvan Attal). Questo impianto classico è però inserito dentro una confezione pop e moderna, che risulta accattivante e gradevole (in particolare, le scene in cui la telecamera ruota su sé stessa producendo un effetto sottosopra e rotatorio molto interessante).
Si esce dal cinema contenti di aver visto un bel prodotto cinematografico, senza pretese di insegnarci nulla, ma solo con il gusto di realizzare cinema ben fatto. E non è una cosa che ormai si vede tanto spesso.
Brava Mélanie.
Voto: 3,5/5
Libre
Scelgo questo film nel programma della festa non tanto perché attirata particolarmente dalla trama, ma perché la regista è Mélanie Laurent, che ho amato molto come attrice e che ho cominciato ad apprezzare anche come regista. Comunque, vado a vedere il film senza grandi aspettative e, tra l'altro, senza sapere che sul red carpet ci sarà proprio Mélanie, insieme alla protagonista femminile Léa Luce Busato, il che per me è una sorpresa più che gradita. Tento anche di farmi una foto con la Laurent, ma niente da fare, ogni volta che mi avvicino viene richiamata da qualcos'altro.
Il film, invece, si rivela una vera sorpresa positiva. Libre racconta la storia di Bruno Sulak (interpretato da Lucas Bravo), un ladro molto famoso in Francia negli anni Settanta e primi anni Ottanta, una specie di ladro gentiluomo, autore di una serie di rapine incredibili e di evasioni spettacolari dal carcere, morto a soli 29 anni dopo l'ennesimo tentativo di fuga.
Pare che il film dovesse chiamarsi Sulak, ma a seguito delle proteste dei familiari dell'uomo, alla fine la regista ha scelto un altro titolo e ovviamente ha subito dichiarato che i fatti raccontati sono ispirati al personaggio reale, ma il film è comunque una narrazione parzialmente romanzata.
Però, a mio modesto avviso, questi sono aspetti secondari rispetto alla scrittura e alla confezione del film che dimostrano chiarezza di intenti e maestria. La storia di Sulak è trattata, sul piano della sceneggiatura, in maniera estremamente classica nella migliore tradizione del polar, richiamando alla mente molti precedenti, non ultimo Arsenio Lupin e l'insieme dei personaggi che gli ruotano attorno e che echeggiano nei protagonisti del film: dall'amata Annie, ai compari di avventure, fino ad arrivare al suo rivale, l'ispettore Georges Moréas (interpretato da Yvan Attal). Questo impianto classico è però inserito dentro una confezione pop e moderna, che risulta accattivante e gradevole (in particolare, le scene in cui la telecamera ruota su sé stessa producendo un effetto sottosopra e rotatorio molto interessante).
Si esce dal cinema contenti di aver visto un bel prodotto cinematografico, senza pretese di insegnarci nulla, ma solo con il gusto di realizzare cinema ben fatto. E non è una cosa che ormai si vede tanto spesso.
Brava Mélanie.
Voto: 3,5/5
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