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lunedì 13 marzo 2017

L'ora di ricevimento (banlieu) / di Stefano Massini. Teatro Eliseo, 9 marzo 2017

Un testo di Stefano Massini (di cui avevo già visto a teatro 7 minuti) e l'interpretazione di Fabrizio Bentivoglio mi sono sembrati due motivi più che sufficienti per andare all'Eliseo a vedere L'ora di ricevimento (banlieu).

Siamo in una imprecisata banlieu francese, nella stanza ricevimenti di una scuola. La storia si svolge nel corso di un intero anno scolastico, scandito dal trascorrere delle stagioni testimoniate dall'albero visibile dietro la finestra, e vede protagonista un insegnante di francese, il professor Philippe Ardeche (interpretato appunto da Fabrizio Bentivoglio) nei suoi rapporti con allievi e genitori delle più diverse provenienze etniche, culturali e religiose.

Dopo il bel monologo di apertura in cui Philippe ci racconta la sua classe e ci spiega il perché di soprannomi che si ripetono anno dopo anno, assistiamo agli incontri - singoli o collettivi - con i genitori degli alunni che hanno per oggetto episodi specifici avvenuti in classe, la gita scolastica, i compiti assegnati, in un tentativo sempre più faticoso di far dialogare e mantenere in equilibrio mondi diversi.

I ragazzi sono assenti e vengono rievocati solo attraverso le parole del professore e quelle dei loro genitori, entrambi portatori di una propria visione del mondo e impegnati a comprendere - non sappiamo quanto efficacemente - questi ragazzi.

Il testo di Massini vede dunque alternarsi registri molto diversi che vanno dal drammatico al comico (come nella scena del supplente di matematica spernacchiato), e oscilla tra guizzi illuminanti e luoghi comuni (non necessariamente falsi), restando nel complesso piuttosto didascalico. Anche la scelta di questa ambientazione - pur interessante - appare in qualche misura un po' forzata, nel senso di non pienamente naturalistica per chi non è immerso in quel mondo, e rischia talvolta di trasformarsi in farsa, come nel caso della riunione in vista della gita scolastica.

La regia - come mi è già capitato di osservare con Michele Placido - risulta un po' piatta, e lascia la sensazione che la messa in scena non aggiunga granché al testo, se non per la recitazione sorniona e a tratti intensa di Bentivoglio.

In definitiva, uno spettacolo che non ha centrato pienamente le aspettative e mi ha lasciata con un po' di amaro in bocca.

Voto: 3/5

sabato 19 dicembre 2015

Tradimenti / Harold Pinter, con Francesco Scianna e Ambra Angiolini. Teatro Eliseo, 1 dicembre 2015

È un periodo di spettacoli teatrali per me e - abbastanza casualmente - anche di prime.

Questa volta si tratta della prima dell'opera scritta da Harold Pinter, Tradimenti, e portata in scena - per la regia di Michele Placido - da Francesco Scianna, Ambra Angiolini e Francesco Biscione.

Siamo nel 1977. Jerry (Francesco Scianna) ed Emma (Ambra Angiolini) non sono più amanti da un paio di anni. Si incontrano in un bar per raccontarsi le loro vite e ricordare i tempi passati.

Da qui incomincia un viaggio a ritroso che, di scena in scena, ci porta fino al 1968, quando - al matrimonio di Roger e Emma - quest'ultima conosce Jerry e i due si innamorano diventando amanti per sette lunghissimi anni, durante i quali molte cose succedono all’interno delle due coppie ufficiali e molte anche tra loro due.

A poco a poco scopriamo così che oggetto di questa pièce non è solo il tradimento di Jerry ed Emma nei confronti dei rispettivi coniugi, bensì "i" tradimenti che a poco si disvelano: quello di Roger nei confronti di Emma, e che lei scopre solo quando la sua storia con Jerry è terminata, e quello probabile della moglie di Jerry che lui etichetta come un corteggiamento di un collega nei confronti della moglie.

Ne emerge la quasi ineluttabilità del tradimento all’interno di vite di coppie che, col tempo, mostrano segni di stanchezza e la generalizzata convinzione di poter tradire, ma di non poter essere traditi.

Il testo è decisamente interessante e, seppure un po’ datato nella sua ambientazione, fortemente attuale nei contenuti e nelle tematiche affrontate.

Devo dire però che l’allestimento non mi ha convinto: non mi è piaciuta la scenografia, ho trovato piuttosto banali le musiche, abbastanza scialba la recitazione degli attori (in qualche modo distante dai loro personaggi, ad eccezione forse di Francesco Biscione), e per ultimo, ma forse alla base di tutto questo, la regia mi è sembrata poco riuscita e un po’ sottotono.

Ma forse è un fatto di gusti, visto che alla mia compagna di teatro lo spettacolo è piaciuto molto e ha apprezzato anche le interpretazioni.

Alla fine esco dal teatro senza entusiasmi, e un po’ me ne dispiace perché forse una messa in scena diversa avrebbe potuto restituire a questo testo la potenza e la forza emotiva che pure da qualche parte mi è sembrato di scorgere.

Voto: 2,5/5

lunedì 31 gennaio 2011

Vallanzasca. Gli angeli del male

La parola che più rapidamente mi è affiorata alla mente durante e dopo la visione del film è stata "angosciante".

Non saprei dire quale elemento abbia contribuito di più a farmi salire dentro questa sensazione d'angoscia. Forse l'atmosfera di quella Milano degli anni Settanta, i cui grigi sono accentuati da una pellicola finto-scolorita che inevitabilmente ci richiama alla mente certe fotografie della nostra infanzia.

O forse quegli ambienti sociali in cui, negli stessi anni, cominciavano a girare grandi quantità di soldi, cocaina e belle ragazze, generando un intreccio mortale tra malavita nata dai bassifondi e losche dinamiche governate dall'alto; ambienti nei quali lo stato d'animo più comune risultava essere un'esaltazione effimera e un po' sopra le righe e, al contempo, una costante insoddisfazione, una conflittualità perennemente strisciante.

O forse ad angosciarmi di più è stata la parabola di quest'uomo, Renato Vallanzasca, detto "Renatino" o "il bel Renè", capo di una banda che in quegli anni fu protagonista di una serie di rapine, sequestri, estorsioni.

Mi angoscia il fatto che qualcuno possa scegliere una vita la cui spirale di autodistruzione e di violenza è ineluttabile. Eh sì, perché Renato Vallanzasca, dalla cui autobiografia Il fiore del male è tratta la sceneggiatura del film, dichiara di non essere il prodotto di un ambiente familiare povero e degradato, bensì di aver scelto di fare il ladro, di essere nato per questo tipo di vita.
Renato sembra interpretare la sua vita all'interno di uno scenario classico da "guardie e ladri", o "indiani e sceriffi", in cui lui ha scelto di stare dalla parte dei "cosiddetti" cattivi, e la cui principale ragione dell'azione criminale non è semplicemente accumulare soldi e diventare ricco, bensì sfidare le istituzioni, gabbare il potere costituito, metterne in luce limiti e debolezze, dimostrare di essere sempre e comunque il più coraggioso, il più furbo, il più intelligente e, in fondo, il più magnanimo.

Da qui probabilmente le critiche al film, da alcuni accusato di essere troppo compiacente nei confronti di Vallanzasca, quasi giustificandone l'operato ovvero facendone emergere il lato più positivo e quasi eroico.

Non si deve, però, dimenticare che la fonte dichiarata è l'autobiografia del bandito, ma soprattutto non si può isolare il protagonista da tutto ciò che accade intorno a lui. Al di là delle intenzioni e dell'atteggiamento a tratti fors'anche un po' infantile di Vallanzasca, che sembra aborrire la violenza gratuita e cercare il massimo risultato con l'astuzia dei metodi, risulta evidente che - se di gioco si tratta - è un gioco più grosso di lui, ben al di fuori del controllo di un singolo.

Il fascino che Renato emana (e di cui rimasero vittime molte donne e uomini) e i tratti un po' epici che lo caratterizzano sono sminuiti, se non annullati, dallo sfacelo che lui stesso provoca - o comunque non può impedire - intorno a sé, infelicità, violenza, morte, sfruttamento.
Renato Vallanzasca finisce per essere un uomo solo, perennemente in fuga, destinato ad assistere alla morte o al tradimento degli amici, condannato a reiterare per tutta la vita la sfida con lo stato, anche quando le dinamiche intorno a lui stanno cambiando. E la società pure.

Bravissimo Kim Rossi Stuart a trasmettere l'anima "grigia" di quest'uomo. Bravo Michele Placido a tenere alta l'adrenalina per più di due ore, nonostante qualche indugio un po' eccessivo sul dettaglio splatter.
Notevoli anche le interpretazioni dei comprimari (tra tutti Filippo Timi), così come la colonna sonora dei Negramaro.

In conclusione, un film che non si propone di far luce su alcuna vicenda o mistero italiano, bensì sceglie di raccontare una storia attraverso gli occhi del suo protagonista, con tutti i limiti che questo può comportare.

Voto: 3,5/5

lunedì 1 marzo 2010

Genitori & figli: Agitare bene prima dell'uso

Diciamocelo: andare a vedere questo film per me è stato sostanzialmente un ripiego. Non dico che non l'avrei visto, ma certo ieri non ero uscita di casa per vederlo. E così, complice lo sciopero di diverse sale cinematografiche romane, alla fine mi sono ritrovata in una stracolma sala del Savoy a vedere Genitori & figli: Agitare bene prima dell'uso, di cui tra l'altro avevo sentito parlare la sera prima a Che tempo che fa dal regista Giovanni Veronesi e da una delle protagoniste, la mia adorata Lucianina Littizzetto.

Il film, come ha raccontato il regista, si ispira ai contenuti di una selezione di temi scritti da adolescenti in diverse scuole italiane sul rapporto genitori/figli. E infatti se un merito dobbiamo riconoscere a questo film è certamente la sua freschezza e la sua verità nel rappresentare queste dinamiche, senza scadere in dramma e senza pretendere di proporre modelli, soluzioni e ricette.

Il film strappa frequentemente la risata senza essere stupido, riesce ad essere leggero senza essere necessariamente superficiale. Il cast di attori è di prim'ordine, sebbene devo dire che i più convincenti siano alla fine proprio i ragazzi, la protagonista Nina (Chiara Passarelli), il suo filarino detto Ubaldolay (Vittorio Emanuele Propizio), Gigio (Andrea Fachinetti), il figlio del professore Michele Placido.

Alla fine, però, si ha l'impressione di aver assistito a una puntata di una fiction televisiva, potrebbe essere Un medico in famiglia, o I liceali, o qualunque altra cosa di questo genere. Ci scivola addosso senza lasciare il segno, senza darci nuove prospettive, senza scombinare le carte, senza costringerci a riflettere; non ci dice niente che non sapessimo già e indugia anche in un sostanziale buonismo per cui si esce dal cinema senza essere nemmeno particolarmente preoccupati, perché alla fine tutto in fondo si conclude per il meglio, anche se come dice Nina, in questo caso non conta tanto l'intelligenza, ma è solo questione di c**o.

Gli stessi attori, pur bravi, non tirano fuori approcci inediti e volti nascosti, sono loro, esattamente come li conosciamo, da Silvio Orlando a Margherita Buy a Piera degli Esposti. E Lucianina è al contempo un po' troppo sopra le righe e un po' troppo irregimentata per i suoi standard. Non c'è niente da fare, lei, bisogna lasciarla parlare a ruota libera, questa è la sua forza.

Alla fine, Giovanni Veronesi non solo non riesce a rinunciare al linguaggio e agli stereotipi della commedia all'italiana - e la cosa in sé non avrebbe nulla di male -, ma non riesce a sollevare la farsa, la battuta spiritosa, la colorita espressione romanesca in strumento di un discorso più articolato e approfondito.

Insomma, esco dal cinema, e mi viene un po' di tristezza, perché erano anni che non vedevo una sala così piena di gente e un pubblico così contento di aver visto un film, e penso che forse questo è l'unico livello di comunicazione che oggi sappiamo o vogliamo accogliere perché non ci va affatto di gestire emotivamente una maggiore drammaticità né di dover fare i conti con qualcosa che non sia lineare e rassicurante. Peccato che la vita non è una commedia all'italiana.
O forse sì?

Voto: 2,5/5