lunedì 16 giugno 2025

Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia. Monza, Villa Reale, 20 maggio 2025

Approfittando di una tre giorni milanese - sempre con finalità fotografiche – decido di fare un salto a Monza (un quarto d’ora di treno da Milano) per vedere la mostra dedicata al fotografo americano Saul Leiter, Una finestra punteggiata di gocce di pioggia.

Si tratta di una importante retrospettiva che permette di scoprire o riscoprire un fotografo non così conosciuto nel contesto italiano e di cui– nei miei ormai vent’anni di interesse verso la fotografia – non ricordo mostre monografiche a lui dedicate.

Alla Villa Reale – dove la mostra è stata allestita - si arriva con un comodo autobus la cui fermata è praticamente davanti alla stazione, e devo dire che il viaggio vale la pena anche solo per scoprire questo posto di cui personalmente nemmeno sospettavo l’esistenza.

La mostra occupa in particolare il piano alto, il cosiddetto Belvedere e si articola in numerose sale e salette.

All’ingresso una prima saletta permette di vedere un video in cui la curatrice Anne Morin introduce il fotografo, la sua poetica e le scelte di allestimento che sono state fatte, sottolineando in particolare come nella vita di Saul Leiter (come in quella di altri fotografi) pittura e fotografia sono andate praticamente di pari passo, con rimandi e connessioni che la mostra si propone di portare all’evidenza, esponendo sia opere pittoriche che fotografiche.

Dopo il video introduttivo, il percorso inizia con una piccola installazione di quelle che ormai vanno molto di moda nelle mostre, in quanto producono tag e storie sui social. In questo caso si tratta di una specie di finestra sul cui vetro scorre continuamente dell’acqua, dove il visitatore viene invitato a fare delle foto alla maniera di Saul Leiter. Nel percorso della mostra ci sono altre 2-3 installazioni con la stessa finalità, ma devo dire meno riuscite di questa prima che ho trovato piuttosto affascinante.

Questi elementi accessori non servono però – come accade per altre mostre – a riempire un vuoto o ad arricchire una mostra povera, perché in questo caso il numero di lavori esposti è davvero molto elevato: si va dalle fotografie urbane e di strade in bianco e nero a quelle a colori, dai ritratti e nudi ai piccoli reportage, fino ad arrivare alle fotografie di moda e a quelle di interni. In molte sale le fotografie dialogano con gli acquerelli e i dipinti di Saul Leiter, che sono stati – come si diceva – una parte importante della sua produzione.

Aiuta a entrare nel punto di vista dell’artista la visione e l’ascolto della videointervista proposta in una delle salette, che consente di farsi un’idea della personalità di Saul Leiter, un uomo schivo, ironico, disallineato. Non si dimentichi che Saul era il figlio di un importante rabbino e, nonostante la volontà del padre di indirizzarlo verso un percorso teologico, decise di seguire la sua ispirazione artistica e andò a New York per seguirla, arrangiandosi e sopravvivendo come poteva. Proprio a New York Saul Leiter iniziò a fotografare le strade, la gente e la città in un modo che era totalmente originale e anomalo rispetto ad altri fotografi dell’epoca.

Le sue sono fotografie in sordina, frammenti di un quadro più ampio ma invisibile agli occhi, pezzetti di un discorso poetico più che di un racconto descrittivo, e sono il risultato di una ricerca molto personale che – come sempre accade ai fotografi – a lungo non è stata compresa. Ma del resto Leiter non cercava la ribalta o la fama (semmai si preoccupava di sopravvivere con il suo lavoro, cosa per niente scontata), e poi nel suo privato inseguiva un filo nascosto nel mondo attraverso piccoli oggetti, dettagli, gesti e, a un certo punto, anche attraverso il colore, fronte sul quale fu un vero pioniere.

Un fotografo da studiare e riscoprire.

Voto: 3,5/5

venerdì 13 giugno 2025

Intermezzo / Sally Rooney

Intermezzo / Sally Rooney; trad. di Norman Gobetti. Torino: Einaudi, 2024.

Dopo la sostanziale delusione della lettura di Parlarne tra amici e di Persone normali, avevo deciso di abbandonare Sally Rooney al suo destino di scrittrice generazionale e di non leggere altri suoi romanzi.

Poi – dopo il parere positivo di S. – ho deciso di dare alla Rooney un’altra possibilità con questo Intermezzo, e… ne sono stata letteralmente conquistata.

Protagonisti di questo romanzo sono Peter e Ivan, due fratelli rimasti da poco orfani del padre, morto a causa di un cancro. Il primo è un avvocato, in prima linea nella difesa dei diritti, ma la sua vita personale è un caos: frequenta Naomi, una ragazza molto più giovane di lui, senza un soldo e che lui di fatto mantiene anche economicamente, ma ha ancora un legame molto forte con Sylvia, la donna con cui è stato in coppia per molti anni fino a quando un incidente con conseguenze gravi su di lei non li ha separati. Ivan, il fratello minore, è invece un appassionato e un campione di scacchi, ma introverso, con l’apparecchio ai denti e scarsa fortuna con le donne, fino a quando non incontra e comincia una storia con Margaret, una donna parecchio più grande di lui, separata da un marito alcolista.

In questo intermezzo, che coincide di fatto con il periodo di elaborazione del lutto, i due fratelli, che una volta abbandonata l’infanzia hanno attraversato fasi alterne di amore e odio, avvicinamento e allontanamento nel loro rapporto, dovranno fare i conti con la morte, e insieme con le fatiche dei legami familiari e delle relazioni, ma dovranno anche fare delle scelte sulla propria vita, guardandosi dentro e affrontando situazioni emotivamente difficili.

Ebbene, tanto avevo trovato i due romanzi precedenti distanti e poco comprensibili per me dal punto di vista emotivo quanto invece ho sentito questo romanzo vero ed empatico nella narrazione e nei contenuti, al punto che ho terminato l’ultima ventina di pagine del libro tra le lacrime, cosa che mai avrei ritenuto possibile.

Evidentemente – mi sono detta – anche Sally Rooney è cresciuta, e così, pur appartenendo a un’altra generazione ed essendo cresciuta in una dimensione sociale, relazionale ed emotiva in parte differente dalla mia, è arrivata a quel momento della vita in cui tutti si trovano di fronte ai nodi cruciali dell’esistenza umana, che sono gli stessi da sempre e in qualunque luogo e che conferiscono alla grande letteratura la capacità di parlare alle persone al di là del tempo e dello spazio.

Oltre alla sensibilità e precisione con cui la Rooney riesce in questo romanzo a raccontare la forza e la difficoltà dei legami familiari, due cose di Intermezzo mi hanno colpita particolarmente. Da un lato il fatto che quell’universo di possibilità affettive, e non solo, che si sono dischiuse davanti alla sua generazione senza renderla né più felice né più risolta (o almeno questo emergeva nei precedenti romanzi) qui diventa un terreno da dissodare responsabilmente e con fatica, ma che può potenzialmente dare i suoi frutti, una strada da percorrere se si è disposti a rischiare e ad essere onesti con sé stessi e con gli altri. Dall’altro lo sguardo affettuoso verso la generazione successiva, i venti-venticinquenni di oggi (qui rappresentati da Naomi ed Ivan), altrettanto incasinati e imperfetti, ma meno cinici, meno frustrati, più aperti alle possibilità, forse i primi che stanno riuscendo a trasformare le maggiori libertà in vere scelte di vita, convenzionali o non convenzionali, ma rispettose del proprio sentire.

Chissà se è vero, o è solo l’auspicio di chi si sta lasciando alle spalle la giovinezza o per cui la giovinezza è un ricordo ormai lontano.

Il fatto importante è però che finalmente nella scrittura della Rooney – tra l’altro magistrale, ma questa non è una novità – sono riuscita a riconoscere sentimenti, sensazioni e situazioni che mi appartengono o che comprendo e sento emotivamente anche quando non fanno parte del mio vissuto o sono lontane dalle mie.

Voto: 4/5

mercoledì 11 giugno 2025

Any other (+ Tutto piange). Unplugged in Monti, Teatro Basilica, 19 maggio 2025

Da poco è uscito un EP di Any Other (nome d’arte di Adele Altro), musicista e cantautrice italiana che seguo ormai da parecchio tempo e che si è già costruita una solida collocazione all’interno del panorama musicale italiano, e non solo.

Personalmente con la sua musica ho sempre avuto un rapporto strano, fatto di apprezzamenti ma senza esserne emotivamente conquistata, e non so bene perché.

Ebbene, devo dire che il suo ultimo EP dal titolo Per te, che non ci sarai più – forse anche per i temi trattati e per quel multilinguismo che lo caratterizza (ci sono canzoni in inglese, in italiano e una persino in giapponese) – mi è sembrato un salto importante nella sua carriera e per me rappresenta il disco della definitiva affezione alla sua musica.

Per questo non mi lascio scappare la possibilità di ascoltarla dal vivo ancora una volta, a questo giro in solo, nell’ambito dei concerti organizzati da Unplugged in Monti al Teatro Basilica, posto tra l’altro molto suggestivo.

Visto il rapidissimo soldout del concerto delle 21, Any Other accetta di bissare con un concerto alle 19 e appena i biglietti vengono messi in vendita mi fiondo a comprarlo (del resto si sa che ho un amore particolare per i concerti presto!).

Arrivo al Teatro Basilica alle 18,30 e c’è già un po’ di fila per entrare, ma riesco comunque a garantirmi un posto in prima fila. Alle 19.10 inizia a suonare e cantare Tutto piange (aka Virginia Tepatti), che già avevo sentito come opening al concerto di Any Other al Circolo Angelo Mai.

Tutto piange ci propone un po’ di canzoni del suo repertorio, alcune delle quali ricordo con piacere dal primo concerto e che riascolto volentieri. Arriva poi sul palco Adele Altro che con la sua chitarra in mano ci delizia con il suo repertorio: canta tutte le canzoni del suo ultimo EP (Distratta, このままでいい, Lazy e la title track Per te, che non ci sarai più) inframmezzata da alcuni brani tratti dai suoi precedenti album che cominciano a essere un certo numero, offrendole dunque un repertorio piuttosto importante in cui andare a pescare e da proporre al suo pubblico.

Gli spettatori ascoltano in religioso silenzio questa ragazza semplice ma con eccellenti qualità sia di esecuzione musicale che canora, e che soprattutto dimostra con le canzoni da lei scritte di saper attingere a molti universi musicali, ma anche di aver costruito uno stile molto personale e riconoscibile.

Alle ultime due canzoni ci ricorda che lei non è una da bis e dunque inizia un siparietto per cui il pubblico chiama al bis proprio per queste due canzoni; con qualche sorriso e queste ultime due esecuzioni termina un concerto semplice ma molto bello ed emozionante, anche perché nel pubblico ci sono davvero persone di tutte le età, a dimostrazione che Adele sa essere intergenerazionale con la sua musica e i suoi testi.

Mentre esco compro il poster del concerto disegnato da Scismatica (aka Luca Morello), e vado a casa contenta.

Grazie, e alla prossima.

Voto: 4/5

lunedì 9 giugno 2025

Deep vacation / Yi Yang

Deep vacation / Yi Yang. Milano: Bao Publishing, 2022.

Dopo aver letto Easy breezy, il primo graphic novel della fumettista cinese trapiantata in Italia, Yi Yang, ho deciso di comprare anche il successivo Deep vacation che condivide con il primo alcuni personaggi, pur non essendo un vero e proprio sequel, ma un'avventura a sé stante.

Ritroviamo in particolare Yang Kuaikuai, il ragazzino occhialuto e secchione, e Li Yu, il teppistello scansafatiche. Il rapporto tra i due mantiene alcuni elementi di ambiguità che già emergevano nel primo lavoro, ma al contempo è cresciuto in complessità e profondità, anche perché i due ragazzini sono cresciuti e sono ormai alle soglie dell'adolescenza: Li Yu si prende ancora gioco di Yang Kuaikuai, ma anche quest'ultimo tratta l'altro con evidente atteggiamento di sufficienza, cosicché il loro rapporto oscilla continuamente tra l'indifferenza, il disprezzo, l'amicizia e la cura reciproca, mentre di mezzo cominciano a inserirsi delle figure femminili a cui i ragazzi sono sempre più sensibili, Li Yu in maniera esplicita, Yang Kuaikuai in maniera più sotterranea.

Questo secondo romanzo a fumetti si configura meno come un'avventura pura e adrenalinica (caratteristica propria di Easy breezy), e molto di più come una specie di romanzo di formazione che, attraverso una serie di situazioni, anche avventurose, conduce i due ragazzi sempre più vicini all'età adulta.

Nello specifico, la vicenda raccontata in Deep vacation è appunto una vacanza che i due protagonisti fanno insieme alla loro classe in un'isola non meglio identificata, dove tutti dovranno aiutare i pescatori locali nelle loro attività, ad eccezione di Yang Kuaikuai che deve studiare per prepararsi alle competizioni di matematica. La permanenza sull'isola si trasforma a poco a poco in un vero e proprio thriller, perché i due protagonisti entreranno in contatto con una figura misteriosa che sembra vivere nelle profondità del mare e che tutti riconducono a un fantasma dell'acqua, una creatura soprannaturale tipica della cultura cinese.

In realtà, la natura di questo essere si rivelerà molto più terrena e collegata a vicende reali, che affondano le radici nel passato, e con cui lo strano trio formato da Yang Kuaikuai, Li Yu e la ragazza che piace a quest'ultimo, dovranno fare i conti, affrontando le conseguenze delle loro scelte e decisioni.

Un racconto meno adrenalinico di Easy breezy, più attento ai sentimenti e alle emozioni dei protagonisti, che però mantiene quel tono scanzonato e leggero tipico dei lavori di Yi Yang, in questo fortemente sostenuti dal tipo di disegno, dalle scelte di colore e dalla messa in pagina, sempre interessante e originale.

Voto: 3,5/5

venerdì 6 giugno 2025

Karate. Monk, 8 maggio 2025

Dopo il lungo silenzio durato 17 anni, i Karate dal 2022 sono tornati a suonare insieme e anche a comporre musica come dimostra l’uscita alla fine del 2024 di un nuovo album dal titolo Make it fit, da me prontamente acquistato e anche discretamente ascoltato.

Da un po' di settimane il loro tour sta toccando diverse città italiane, e a Roma il Monk ha dovuto aggiungere nuove date perché ci sono stati diversi soldout.

Arrivo al concerto quando le porte sono già aperte e dunque mi posiziono al lato del palco, cosa che lì per lì mi infastidisce un po’ (sono abituata a stare in prima fila), ma poi si rivela un’ottima soluzione per seguire il concerto, fare le foto e osservare anche il pubblico.

Non starò qui a ripetere quanto già scritto per il concerto da me visto a Villa Ada nel 2022: i Karate sono una band di culto, e possono contare su un seguito di fan non solo appassionati della loro musica, ma profondi conoscitori della stessa. È vero che praticamente a tutti i concerti a cui vado ci sono persone capaci di cantare le canzoni insieme ai cantanti, cioè fan che conoscono tutto il repertorio dei loro musicisti preferiti, però devo dire che il trasporto e l’entusiasmo trasognato che vedo nel pubblico dei concerti dei Karate ha caratteristiche sue proprie.

I tre musicisti, il leader, nonché chitarrista e voce del gruppo, Geoff Farina, il bassista Jeff Goddard e il batterista Gavin McCarthy, salgono sul palco poco dopo le 22, e suonano di filato per oltre un’ora, senza troppe chiacchiere, bensì mettendo la musica al centro di tutto.

Trovate a questo link la setlist completa del concerto, su cui io vi so dire poco, considerata la mia conoscenza tutto sommato limitata della band.

Quello che invece posso sicuramente dire è che, trovandomi così vicina al palco in una posizione in cui potevo osservare molto bene tutti e tre i musicisti, ho potuto apprezzare al massimo grado le loro qualità di musicisti e la loro intesa, semplicemente perfetta, anche quando Geoff Farina chiama gli altri due con la sua chitarra alla ripetizione quasi ossessiva degli stessi accordi, introducendo piccole varianti e creando quasi un effetto di trance collettiva.

È chiaro che i Karate puntano tutto o quasi sugli arrangiamenti e sull’esecuzione dei pezzi cercando di far esprimere i loro strumenti al massimo livello possibile di perfezione musicale: sul piano vocale, Farina ha sempre preferito uno stile molto essenziale, quasi parlato, che tra l’altro dalla posizione in cui sono io non si sente nemmeno perfettamente.

Io sono catturata sia dai gesti assorti e concentrati di questi grandi musicisti – che attraverso il loro leader non smettono di ringraziare il pubblico del fatto di essere tornati a suonare dal vivo dopo tanti anni di assenza dalle scene – sia dal pubblico con le sue diverse anime, da chi si esalta soprattutto sui pezzi più ballabili a chi si fa invece conquistare dai pezzi più quieti e notturni.

Alla fine usciremo dalla sala concerti del Monk tutti soddisfatti, convinti di aver assistito a una eccellente performance musicale e di aver potuto vedere da vicino tre grandissimi musicisti.

Voto: 3,5/5

martedì 3 giugno 2025

Sul lato selvaggio / Tiffany McDaniel

Sul lato selvaggio / Tiffany McDaniel; trad. di Luca Briasco. Roma: Atlantide edizioni, 2020.

Sono al terzo libro di Tiffany McDaniel, e a questo punto è accertato che questa giovane scrittrice è in grado di conquistarmi con le sue storie e il suo stile narrativo.

Dopo L'estate che sciolse ogni cosa e Il caos da cui veniamo - due libri che ho amato moltissimo e divorato - ho letto praticamente tutto d'un fiato anche questo terzo romanzo, anche approfittando di un ritardo clamoroso (tre ore) del treno su cui viaggiavo.

In questo caso, il libro è ispirato a una vicenda di cronaca, la scomparsa e la morte di sei donne a Chillicothe, in Ohio, a opera di un probabile serial killer.

Ebbene, Tiffany McDaniel racconta questa vicenda per bocca di Arc (diminutivo di Arcade, il suo nome scelto dai genitori ispirandosi al loro videogiochi preferito), una delle donne sparite e assassinate, cosa che sappiamo fin dal principio visto che la narratrice è lo 'spirito' di Arc, o comunque quello che di lei è rimasto dopo la sua morte.

La narrazione procede dunque come un lunghissimo flashback, durante il quale ci si spinge a volte in avanti e poi si torna indietro nel tempo, per raccontare la vicenda di questa giovane e della sua famiglia, in particolare di sua sorella gemella Daffy, di sua madre Addy, di sua zia Jo e di sua nonna Keith.

Quella di Arc - come tutte le famiglie di cui la McDaniel parla nei suoi libri - è una famiglia sfasciata e senza speranza: i genitori e la zia di Arc e Daffy sono tossici, e suo padre è morto di overdose quando le due bambine erano molto piccole. Le due gemelle, legatissime, fin da subito hanno dovuto lottare per vivere e sopravvivere alla totale mancanza di cura da parte dei genitori, rifugiandosi, fino alla sua morte, nella casa della nonna Keith, donna saggia ma dolente, che niente può di fronte al naufragare della sua discendenza.

È proprio nonna Keith che insegna alle due bambine a comprendere che la vita, come la coperta afghana che hanno realizzato insieme, ha un lato bello e ordinato, e un lato selvaggio, quello nel quale si vedono tutti i fili di mille colori utilizzati per realizzarla. Se si nasce su questo lato della vita - come Arc e Daffy - l'unica strategia possibile è rimettere i fili dentro e trasformare anche il lato selvaggio in qualcosa di bello. È questo dunque che Arc fa per tutta la sua breve esistenza: trasformare gli eventi orribili che capitano a lei e alla sua famiglia in storie a lieto fine, grazie al potere salvifico e quasi magico del racconto. Del resto, nonna Keith aveva raccontato alle bambine che nel loro passato c'era un'antenata che era stata bruciata in quanto considerata una strega, ma che in realtà si trattava solo di una donna capace di sognare e dunque poi anticipare gli eventi futuri, potere che anche Arc ha ereditato.

Assistiamo così alla vicenda di Arc e Daffy dalla loro infanzia pericolosa e a tratti gloriosa fino alla loro giovinezza e alla parabola che le porterà a finire nel vortice della droga e a doversi procurare il denaro per comprarla prostituendosi e rubando.

Quello di Tiffany McDaniel - come già avevo avuto modo di osservare nei precedenti romanzi - è un universo sfasciato e tragico, attraversato da una violenza sorda e onnipresente che scuote il lettore; al contempo però nei personaggi della McDaniel c'è una luce e una bellezza da cui non si può non rimanere folgorati. La McDaniel ha un interesse e un'attenzione particolari per le figure femminili e spesso si tratta di donne con cui la vita non è stata certamente generosa, che sono per molti versi deprecabili e indifendibili, ma verso le quali la scrittrice è in grado di muovere - anche nel lettore - una profondissima compassione e di evitare un giudizio superficiale. Non si riesce a sentirsi veramente estranei ai personaggi di cui la McDaniel parla, è impossibile ergersi sul proprio piedistallo e giudicare, perché la scrittrice ce li rende così vicini da costringerci a comprendere e talvolta addirittura ad amarli.

In secondo luogo, nei romanzi della McDaniel opera potentissima la forza del racconto, che forse è lo strumento primario con cui la scrittrice produce l'empatia di cui sopra. Spesso si sconfina nel magico, qui frequentemente ci si muove nei territori accidentati e allucinati dell'onirico, e spesso si fa fatica a capire cosa è accaduto veramente e cosa invece sta solo nella mente di Arc.

Ma è proprio questa la forza di una scrittrice che sa portarci dovunque vuole e non ci molla un'istante durante un viaggio emotivo che è una montagna russa di emozioni.

Voto: 3,5/5