Divorzio a Buda / Sàndor Màrài. Palermo: Adeplhi, 2002.
Il primo libro che ho letto di Sàndor Màrài è stato Le braci. Forse non bisognerebbe mai accostarsi a uno scrittore (e a un artista in generale) cominciando dal suo capolavoro, perché inevitabilmente il confronto sarà difficile da gestire e inevitabilmente condizionerà il giudizio finale.
Intanto cominciamo dalla storia di Divorzio a Buda: Kristof Komives è un integerrimo magistrato vicino alla quarantina che vive a Buda e si occupa di cause di separazione. L'assoluta regolarità della sua vita lavorativa e familiare viene all'improvviso interrotta quando il magistrato si trova sulla scrivania le carte della separazione tra il medico Imre Greiner, suo vecchio compagno di scuola, e la moglie, Anna Fazekas, la donna che ha incontrato poche ma significative volte nella sua vita.
Due terzi del libro sono dedicati alla descrizione del protagonista Komives: la sua famiglia, la sua educazione, le persone importanti della vita, il lavoro, i suoi principi ideali e morali, la sua visione della modernità. È la preparazione all'incontro finale con Imre che occupa l'ultimo terzo del volume, un incontro che produce una potente accelerazione del ritmo della scrittura, introducendoci a quei dialoghi/monologhi che, secondo me, costituiscono l'aspetto più dirompente della scrittura di Màrài.
Divorzio a Buda mi ha certamente confermata nell'idea che Màrài è uno scrittore affascinante e che ha una modalità e una tecnica di scrittura assolutamente originali. Dall'altro lato, però, questa narrazione mi è sembrata meno compatta e meno emotivamente coinvolgente rispetto a quella de Le braci. Probabilmente perché, conoscendo lo stile dello scrittore, in parte si comprende fin da subito dove porterà il racconto e la rivelazione delle pagine finali finisce per non essere così dirompente come forse ci si aspetterebbe. In realtà, la stessa cosa accade ne Le braci, con la differenza che in quel caso siamo travolti dalle parole del protagonista in modo così intimo e intenso che non è la gravità o l'importanza dei fatti a conquistarci, bensì i movimenti dell'animo umano.
Non che tutto questo non sia presente in Divorzio a Buda. In particolare, trovo mirabile il modo in cui Màrài utilizza il personaggio di Kristof Komives (e il suo contrappunto, Imre Greiner) per rappresentare il passaggio di un'epoca, il confronto tra un mondo vecchio e uno nuovo con tutto quello che porta con sé. Buda e Pest, ossia la città storica arrampicata sulle colline e la città nuova costruita nella grande piana al di là del fiume, diventano il simbolo dell'antico e del moderno, civiltà e barbarie.
Komives è un uomo saldamente legato ai principi del passato; da un punto di vista personale e sociale crede nella necessità di far prevalere il buon senso, la razionalità, l'ordine, la pazienza, su una confusa e disordinata ricerca di emozioni e novità, capaci di causare solo sofferenza, distruzione e sovvertimento delle leggi naturali.
In realtà, anch'egli avverte in profondità l'urgenza del cambiamento, il senso di limite che regole sociali così rigide impongono, sebbene viva questa necessità con paura e inquietudine perché riconosce l'ingestibilità di una vita vissuta all'insegna dell'istintività e dei sentimenti.
«Che cosa c'era in fondo a quella fretta? Talvolta, nei momenti di oscura inquietudine, pensava: la morte, forse, una sorta di profondo, segreto, sicuramente non "morale" desiderio di morte, o invece la paura di morire - e da qualche tempo riteneva ormai che le due cose fossero tutt'uno.» (p. 20-21)
Dall'altro lato, Imre Greiner materializzerà ai suoi occhi le conseguenze della volontà di aderire ai propri desideri, di vivere i sentimenti fino in fondo, di non accontentarsi di quello che è buono ed accettabile, bensì di cercare la pienezza delle cose, di sperimentare l'urgenza della vita.
Il conflitto e il senso di inadeguatezza che sono spesso caratteristici delle epoche di transizione è tratteggiato con maestria e con uno straordinario sapore di modernità. A me, per esempio, ha fatto venire in mente il dibattito che negli ultimi anni sta attraversando e dividendo gli intellettuali di tutto il mondo, ossia quello relativo alle conseguenze sociali e culturali di Internet e al modo nuovo in cui la generazione che è nata con Internet gestisce saperi e sentimenti. Si delinea una contrapposizione tra civiltà e barbarie, che è stata variamente declinata anche nel nostro paese. In particolare, si veda il dibattito suscitato da un articolo pubblicato da Alessandro Baricco sulla rivista Wired.
Ed ognuno di noi, generazione di mezzo in piena transizione, capisce Komives, ma anche Greiner. Sono cambiati i contesti, le opzioni materiali, le condizioni personali, ma gli interrogativi e le sensazioni restano gli stessi. Da questo punto di vista, tutte le epoche di transizione si trovano nella necessità di: « […] decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo.» (I barbari. Saggio sulla mutazione / Alessandro Baricco. Feltrinelli: Milano 2008, pp. 179)
Non ci si può opporre realmente al cambiamento, che è un'esigenza profonda dell'animo umano. Come dice Màrài: «Forse si trattava di questo: non bisognava difendersi... C'era qualcosa di inequivocabile nell'essere umano, qualcosa che quasi urlava: e di fronte a quell'ordine non bisognava rimanere sordi.» (p. 50)
Voto: 3,5/5
giovedì 30 settembre 2010
mercoledì 29 settembre 2010
Martedì fiammingo: da Ploegmans ai Marble Sounds
Purtroppo non ho portato con me la macchina fotografica e dunque non posso adeguatamente illustrare con immagini mie quella che si è configurata come la mia prima vera serata fiamminga da quando sono a Bruxelles!
La serata potrebbe essere messa sotto l'etichetta "Stoemp" (quella che vedete qui a fianco), perché lo "stoemp" è sia un piatto nazionale fiammingo (praticamente una specie di purè di patate con verdure) che viene usato come accompagnamento di numerosi piatti di carne, sia una serie di concerti gratuiti che un gruppo di bar e caffè del centro di Bruxelles ospitano per dare spazio e visibilità a gruppi e cantanti emergenti fiamminghi.
Eh sì, perché la serata è stata fiamminga da un punto di vista sia culinario sia musicale. Il tutto è iniziato con una cena da Ploegmans, una tipicissima brasserie di cucina belga, in Rue Haute (tra il Sablon e Les Marolles), con i tavoloni in legno, le birre alla spina, la lavagna con i piatti del giorno e il tipico odore di frites (patate fritte) a farla da padrone.
Per onorare il posto prendiamo due piatti altrettanto tipici: la carbonnade (una specie di spezzatino di manzo cotto nella birra scura, in questo caso la Faro) con le frites e il mignon de porcelet à la brabançonne (un filetto di maiale in salsa bianca con contorno di chicons, quelli che noi chiamiamo insalata belga, e crocchette di patate). Il tutto innaffiato da una buona Leffe blonde.
Avrei tanto voluto prendere la tarte tatin flambée, ma il pensiero dei soldi investiti nella palestra mi ha fatto desistere :-((
E così con le pance piene, ci dirigiamo al Cafè Kafka dove dovrebbe appunto esserci in programmazione un concerto gratuito di un gruppo fiammingo, il cui nome è Marble Sounds. Durante il giorno avevo preso informazioni su questi ragazzoni fiamminghi (sebbene uno dei componenti abbia un nome italiano), guardando il loro sito su Myspace e ascoltando su You Tube alcune delle loro canzoni (che meraviglia Internet!) e mi avevano convinto.
Effettivamente quando arriviamo stanno ancora suonando. In questo spazio un po' angusto in fondo al locale, in cui il numero dei cavi e delle prese elettriche è assolutamente esorbitante. Chitarre, basso, batteria e tastiera per un classico gruppo indie che - non so bene perché - mi ricorda The Notwist. Forse per gli occhialoni neri del cantante e del chitarrista, forse per la vena un po' malinconica delle canzoni, forse per lo stile sicuramente nordeuropeo. I ragazzi cantano in inglese, ma parlano in fiammingo tra una canzone e l'altra, per un pubblico che effettivamente è in gran parte fiammingo. E noi - vi assicuro - nonostante la nostra Maes in mano - non ci confondiamo affatto nella folla. Anche se, quando per far tornare i Marble Sounds sul palco per il bis, mi unisco ad applausi e fischi con il mio potente "fischio alla pecorara", credo di essermi conquistata il rispetto dei miei vicini.
E così ancora una canzone. E poi saluti e baci. Al prossimo concerto. Magari gli Isbells.
Ci si avvia verso casa attraversando questa Bruxelles notturna. Che - vi assicuro - comincia a piacermi, certo ora che sto per andar via. Sto già pensando al post che scriverò alla mia partenza e che dedicherò a cosa mi mancherà di questa città (e magari a cosa suggerisco di fare, vedere, mangiare a quelli che ci restano o ci verranno). Una città che non conquista con lustrini e monumenti, ma tutto sommato accoglie e avvolge. Non come una mamma. Come un'amica, con cui il rapporto non è scontato, ma si costruisce, si mette in discussione e si rafforza nel tempo.
E ora, godetevi anche voi i Marble Sounds in The time to sleep:
La serata potrebbe essere messa sotto l'etichetta "Stoemp" (quella che vedete qui a fianco), perché lo "stoemp" è sia un piatto nazionale fiammingo (praticamente una specie di purè di patate con verdure) che viene usato come accompagnamento di numerosi piatti di carne, sia una serie di concerti gratuiti che un gruppo di bar e caffè del centro di Bruxelles ospitano per dare spazio e visibilità a gruppi e cantanti emergenti fiamminghi.
Eh sì, perché la serata è stata fiamminga da un punto di vista sia culinario sia musicale. Il tutto è iniziato con una cena da Ploegmans, una tipicissima brasserie di cucina belga, in Rue Haute (tra il Sablon e Les Marolles), con i tavoloni in legno, le birre alla spina, la lavagna con i piatti del giorno e il tipico odore di frites (patate fritte) a farla da padrone.
Per onorare il posto prendiamo due piatti altrettanto tipici: la carbonnade (una specie di spezzatino di manzo cotto nella birra scura, in questo caso la Faro) con le frites e il mignon de porcelet à la brabançonne (un filetto di maiale in salsa bianca con contorno di chicons, quelli che noi chiamiamo insalata belga, e crocchette di patate). Il tutto innaffiato da una buona Leffe blonde.
Avrei tanto voluto prendere la tarte tatin flambée, ma il pensiero dei soldi investiti nella palestra mi ha fatto desistere :-((
E così con le pance piene, ci dirigiamo al Cafè Kafka dove dovrebbe appunto esserci in programmazione un concerto gratuito di un gruppo fiammingo, il cui nome è Marble Sounds. Durante il giorno avevo preso informazioni su questi ragazzoni fiamminghi (sebbene uno dei componenti abbia un nome italiano), guardando il loro sito su Myspace e ascoltando su You Tube alcune delle loro canzoni (che meraviglia Internet!) e mi avevano convinto.
Effettivamente quando arriviamo stanno ancora suonando. In questo spazio un po' angusto in fondo al locale, in cui il numero dei cavi e delle prese elettriche è assolutamente esorbitante. Chitarre, basso, batteria e tastiera per un classico gruppo indie che - non so bene perché - mi ricorda The Notwist. Forse per gli occhialoni neri del cantante e del chitarrista, forse per la vena un po' malinconica delle canzoni, forse per lo stile sicuramente nordeuropeo. I ragazzi cantano in inglese, ma parlano in fiammingo tra una canzone e l'altra, per un pubblico che effettivamente è in gran parte fiammingo. E noi - vi assicuro - nonostante la nostra Maes in mano - non ci confondiamo affatto nella folla. Anche se, quando per far tornare i Marble Sounds sul palco per il bis, mi unisco ad applausi e fischi con il mio potente "fischio alla pecorara", credo di essermi conquistata il rispetto dei miei vicini.
E così ancora una canzone. E poi saluti e baci. Al prossimo concerto. Magari gli Isbells.
Ci si avvia verso casa attraversando questa Bruxelles notturna. Che - vi assicuro - comincia a piacermi, certo ora che sto per andar via. Sto già pensando al post che scriverò alla mia partenza e che dedicherò a cosa mi mancherà di questa città (e magari a cosa suggerisco di fare, vedere, mangiare a quelli che ci restano o ci verranno). Una città che non conquista con lustrini e monumenti, ma tutto sommato accoglie e avvolge. Non come una mamma. Come un'amica, con cui il rapporto non è scontato, ma si costruisce, si mette in discussione e si rafforza nel tempo.
E ora, godetevi anche voi i Marble Sounds in The time to sleep:
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domenica 26 settembre 2010
Going the distance = Amore a millemiglia
Si tratta di una commedia americana costruita secondo una formula ormai piuttosto consolidata e direi tendenzialmente vincente: colonna sonora accattivante e ben assortita (la fanno da padroni le musiche dei The Boxer Rebellion, che hanno anche una parte importante nello sviluppo della sceneggiatura), ambientazioni affascinanti (questa volta ci si muove tra New York e San Francisco, tra il ponte di Brooklin e il Golden Gate, con voli di macchina mozzafiato sulle straordinarie vedute di insieme delle due città forse più belle deli Stati Uniti), dialoghi frizzanti e gag divertenti, protagonisti tendenzialmente giovani e carini (Drew Barrymore e Justin Long, insieme anche nella vita), storia d'amore tenera e a lieto fine, coprotagonisti che fanno da portentosa spalla comica (come i due coinquilini del protagonista, Dan e Box, e la sorella di lei, Corinne).
La storia è - come sempre accade in questi casi - piuttosto semplice: Erin e Garrett si incontrano a New York quando lui è stato appena mollato dalla sua precedente fidanzata e lei sta facendo uno stage presso la redazione di un giornale newyorkese. Inizia una storia bella, leggera e divertente che ben presto si trasformerà in qualcosa di più importante, tant'è che continuerà anche quando lei, al termine dello stage, farà ritorno a San Francisco. Inizieranno così telefonate notturne, contatti via computer, ricerca continua di biglietti aerei e relativi prezzi, tentativi di sesso telefonico, e tutto quello - di bello e meno bello - che una storia a distanza comporta: la mancanza, la gelosia, la bellezza degli incontri, la tristezza dei saluti, la difficoltà di confrontarsi con la quotidianità, la necessità di conciliare aspirazioni personali e prospettive di coppia. Il tutto ovviamente senza alcuna pretesa né intenzione di originalità o di profondità, bensì in un'atmosfera da commedia, in cui si ride dall'inizio alla fine.
Il lieto fine è inevitabilmente dietro l'angolo. Certo è un lieto fine tutto americano, e il concetto di distanza finisce per essere del tutto relativo.
Quindi, voi, fidanzati a distanza che vivete a un'ora di volo o sei ore di macchina l'uno dall'altra, potete d'ora in poi considerarvi fortunati, perché siete nello stesso stato e godete dello stesso fuso orario!! Volete mettere? ;-))
Insomma, se avete una sera libera in cui volete stare spensierate (eh sì, perché è un film che consiglio soprattutto al pubblico femminile, o a giovani coppie molto innamorate), farvi qualche risata, riconoscere situazioni e modelli noti, e tornare a casa senza avvertire l'impellente necessità di una riflessione profonda, andate a vedere questa commedia, nonostante l'ancora una volta orribile titolo che i produttori italiani sono riusciti a scegliere, Amore a millemiglia.
Ma se non vi va di uscire e volete rimanere in tema di commedia leggera e dalle parti di Drew Barrymore, vi consiglio di cercare in homevideo 50 volte il primo bacio, che sinceramente mi era piaciuto di più ed avevo trovato più tenero ed originale.
Voto: 3/5
Questa volta, piuttosto che il trailer, guardatevi questo video in cui sulle note della canzone dei The Boxer Rebellion If you run scorrono le immagini del film:
La storia è - come sempre accade in questi casi - piuttosto semplice: Erin e Garrett si incontrano a New York quando lui è stato appena mollato dalla sua precedente fidanzata e lei sta facendo uno stage presso la redazione di un giornale newyorkese. Inizia una storia bella, leggera e divertente che ben presto si trasformerà in qualcosa di più importante, tant'è che continuerà anche quando lei, al termine dello stage, farà ritorno a San Francisco. Inizieranno così telefonate notturne, contatti via computer, ricerca continua di biglietti aerei e relativi prezzi, tentativi di sesso telefonico, e tutto quello - di bello e meno bello - che una storia a distanza comporta: la mancanza, la gelosia, la bellezza degli incontri, la tristezza dei saluti, la difficoltà di confrontarsi con la quotidianità, la necessità di conciliare aspirazioni personali e prospettive di coppia. Il tutto ovviamente senza alcuna pretesa né intenzione di originalità o di profondità, bensì in un'atmosfera da commedia, in cui si ride dall'inizio alla fine.
Il lieto fine è inevitabilmente dietro l'angolo. Certo è un lieto fine tutto americano, e il concetto di distanza finisce per essere del tutto relativo.
Quindi, voi, fidanzati a distanza che vivete a un'ora di volo o sei ore di macchina l'uno dall'altra, potete d'ora in poi considerarvi fortunati, perché siete nello stesso stato e godete dello stesso fuso orario!! Volete mettere? ;-))
Insomma, se avete una sera libera in cui volete stare spensierate (eh sì, perché è un film che consiglio soprattutto al pubblico femminile, o a giovani coppie molto innamorate), farvi qualche risata, riconoscere situazioni e modelli noti, e tornare a casa senza avvertire l'impellente necessità di una riflessione profonda, andate a vedere questa commedia, nonostante l'ancora una volta orribile titolo che i produttori italiani sono riusciti a scegliere, Amore a millemiglia.
Ma se non vi va di uscire e volete rimanere in tema di commedia leggera e dalle parti di Drew Barrymore, vi consiglio di cercare in homevideo 50 volte il primo bacio, che sinceramente mi era piaciuto di più ed avevo trovato più tenero ed originale.
Voto: 3/5
Questa volta, piuttosto che il trailer, guardatevi questo video in cui sulle note della canzone dei The Boxer Rebellion If you run scorrono le immagini del film:
venerdì 24 settembre 2010
Cattivissimo me
Una volta tanto mi piace di più il titolo tradotto che quello originale. Perché in francese il titolo di questo film, che in lingua originale suona Despicable me, diventa Moi, moche et mechant: una specie di bellissimo scioglilingua che trovo davvero appropriato alla pellicola. Sarà perché pur trattandosi di una produzione americana, in realtà gli inventori ed autori di questa storia (Pierre Coffin, Chris Renaud e Sergio Pablos) sono europei - e per gran parte francesi - che sono riusciti a esportare in America le loro idee e a convincere l'industria cinematografica americana (in particolare il produttore Christopher Meledandri, il padre di successi come L'era glaciale) a investire nel loro progetto. Anche questa volta gli americani si sono dimostrati bravissimi a scoprire talenti e a puntare su di loro, tant'è che il film ha sbaragliato l'estate cinematografica americana surclassando tutti i più diretti concorrenti.
Successo assolutamente meritato, perché non c'è alcun dubbio sul fatto che Gru sia il cattivo più tenero e più simpatico della storia del cinema. Omone con il naso a punta che vuole diventare il criminale più famoso del pianeta compiendo la straordinaria impresa di rubare la luna, aiutato da un vecchio scienziato un po' matto e da un popolo di "ovetti kinder" gialli che sono una vera forza comica. Se la dovrà vedere con il suo rivale Vector, ma soprattutto con le tre bimbe, Margot, Agnes e Edith, che decide di adottare a scopi puramente utilitaristici e che - come si può immaginare - gli metteranno la vita sottosopra, ne tireranno fuori l'anima "buona", lo salveranno e gli permetteranno di superare il suo trauma del rapporto con una madre anafettiva che gli ha rovinato l'infanzia!
Niente di particolarmente nuovo e originale. Tutto assolutamente prevedibile, come già starete pensando. Ma vi assicuro. Mai ho sentito ridere così di cuore in un cinema gli adulti e i bambini insieme come per questo film, che non ha niente dell'umorismo intellettuale e sofisticato di altri capolavori recenti (dalla serie di Shrek a Toy Story alle altre invenzioni della Pixar). È godimento bambinesco e infantile allo stato puro, gioco, montagna russa, cacca, sonno, zucchero filato, coccole... Sì, è un po' quello che ho provato...
Ho la sensazione che mentre il cinema "in carne e ossa" stenti sempre più a trovare storie, novità, stimoli, originalità (fatta eccezione per pochi registi funamboli ancora capaci di stupirci, vedi Nolan), il cinema di animazione si è nutrito di tecnologia per ritrovare però creatività e, alla fine, anche semplicità. O forse, chissà, è più facile divertirsi facendo un film di animazione ed è più ammissibile lasciarsi andare al riso o al pianto guardando un cartoon. Forse, è un modo per lasciar cadere le sovrastrutture e godere senza vergogna e senza pudore. Io per esempio riesco sempre a commuovermi...
Andatelo a vedere (in Italia esce il 15 ottobre). E, vi assicuro, difficilmente vi dimenticherete di Gru, Agnes, Margot e Edith. Ma soprattutto non vi dimenticherete di loro: i Minions (alias gli "ovetti kinder").
A proposito, qualcuno sa per caso dove si comprano? ;-)
Voto: 4/5
P.S. E comunque vedere un'anteprima grazie ai Movie Days qui a Bruxelles non ha prezzo (o meglio, costa solo 3 euro!)
Successo assolutamente meritato, perché non c'è alcun dubbio sul fatto che Gru sia il cattivo più tenero e più simpatico della storia del cinema. Omone con il naso a punta che vuole diventare il criminale più famoso del pianeta compiendo la straordinaria impresa di rubare la luna, aiutato da un vecchio scienziato un po' matto e da un popolo di "ovetti kinder" gialli che sono una vera forza comica. Se la dovrà vedere con il suo rivale Vector, ma soprattutto con le tre bimbe, Margot, Agnes e Edith, che decide di adottare a scopi puramente utilitaristici e che - come si può immaginare - gli metteranno la vita sottosopra, ne tireranno fuori l'anima "buona", lo salveranno e gli permetteranno di superare il suo trauma del rapporto con una madre anafettiva che gli ha rovinato l'infanzia!
Niente di particolarmente nuovo e originale. Tutto assolutamente prevedibile, come già starete pensando. Ma vi assicuro. Mai ho sentito ridere così di cuore in un cinema gli adulti e i bambini insieme come per questo film, che non ha niente dell'umorismo intellettuale e sofisticato di altri capolavori recenti (dalla serie di Shrek a Toy Story alle altre invenzioni della Pixar). È godimento bambinesco e infantile allo stato puro, gioco, montagna russa, cacca, sonno, zucchero filato, coccole... Sì, è un po' quello che ho provato...
Ho la sensazione che mentre il cinema "in carne e ossa" stenti sempre più a trovare storie, novità, stimoli, originalità (fatta eccezione per pochi registi funamboli ancora capaci di stupirci, vedi Nolan), il cinema di animazione si è nutrito di tecnologia per ritrovare però creatività e, alla fine, anche semplicità. O forse, chissà, è più facile divertirsi facendo un film di animazione ed è più ammissibile lasciarsi andare al riso o al pianto guardando un cartoon. Forse, è un modo per lasciar cadere le sovrastrutture e godere senza vergogna e senza pudore. Io per esempio riesco sempre a commuovermi...
Andatelo a vedere (in Italia esce il 15 ottobre). E, vi assicuro, difficilmente vi dimenticherete di Gru, Agnes, Margot e Edith. Ma soprattutto non vi dimenticherete di loro: i Minions (alias gli "ovetti kinder").
A proposito, qualcuno sa per caso dove si comprano? ;-)
Voto: 4/5
P.S. E comunque vedere un'anteprima grazie ai Movie Days qui a Bruxelles non ha prezzo (o meglio, costa solo 3 euro!)
lunedì 13 settembre 2010
Il passato è una terra straniera / Gianrico Carofiglio
Il passato è una terra straniera / Gianrico Carofiglio. Milano: RCS Libri, 2004.
Non si può certamente dire che Carofiglio non abbia mestiere come scrittore.
Con questa storia tutto sommato semplice - e per certi versi anche un po' scontata - è riuscito a tenermi attaccata al libro per un intero fine settimana, fino a quando all'una della domenica notte non ho letto l'ultima riga e finalmente spento la luce.
Questo romanzo non appartiene alla serie dell'avvocato Guerrieri; è stato scritto dopo che già erano usciti Testimone inconsapevole e Ad occhi chiusi. Si tratta, in qualche modo, di una digressione dalla vicenda di Guerrieri, rispetto alla quale l'unica cosa a non cambiare è l'ambientazione, Bari, questa volta ritratta nella sua dimensione notturna e clandestina degli anni Ottanta.
Protagonista è Giorgio, uno studente modello di giurisprudenza, di cui si racconta l'amicizia con Francesco, nata per caso una sera ad una festa. Francesco è un personaggio affascinante, è inserito negli ambienti più diversi della città, bara alle carte, ha tutte le donne che vuole. Giorgio ne è conquistato al punto da lasciarsi andare a una vita di emozioni, avventure, rischi, vincite milionarie, truffe, persino violenza, una vita in cui tutto quello che ha fatto sino ad allora non ha più significato. Sarà una specie di discesa senza freni per un pendio che il lettore sa fino dal principio che porterà Giorgio vicino all'autodistruzione.
Corre parallela la storia di un altro Giorgio, un tenente dei carabinieri che viene dal Nord e che sta indagando su una serie di stupri che sembra apparentemente non aprire alcuna pista alle indagini. Anche lui segnato dalla vita e da un passato con cui sta ancora facendo i conti.
Mentre le pagine scorrono sotto i nostri occhi, si ha netta la sensazione di avere di fronte più la sceneggiatura di un film (che è stato poi immancabilmente tratto dal libro per la regia di Daniele Vicari) che un'opera letteraria in senso stretto. La scrittura di Carofiglio è infatti estremamente visuale e la storia, che sul piano letterario non è del tutto compiuta e ben riuscita (troppi interrogativi restano appesi e quasi dimenticati nella vicenda personale del tenente Giorgio Chiti, troppo improvviso e senza tentennamenti veri il cambiamento di vita di Giorgio Cipriani), riesce invece a creare un'attesa più narrativa che di senso.
A me personalmente la discesa agli inferi del giovane Giorgio ha suscitato una sensazione profonda di fastidio; diciamo che Giorgio è la tipica persona che avrei l'impulso di prendere a schiaffi per quel senso di istupidita ricerca di una vitalità effimera propria di chi vive un'adolescenza infinita e indefinita. Ok, sono una vecchia bacchettona...
Ma voglio provare a spiegarmi. Capisco perfettamente il peso che può esercitare una vita di cui si conosce in anticipo tutto; comprendo il tentativo di cercare una via alternativa a quello che tutti si aspettano da noi e che spesso eseguiamo senza fiatare a scapito della nostra felicità; accetto la necessità di una rottura, di una ribellione, di uno scompaginamento che è l'unica condizione per diventare veramente adulti. Non comprendo però in alcun modo la stupidità, il bisogno di vivere ai limiti, di cercare artificiali metodi di leggerezza.
A dire la verità, penso che, sebbene vivere con leggerezza sia l'ambizione e il desiderio di tutti e sentire costantemente la scarica di adrenalina nel proprio corpo sia ben più eccitante della routine quotidiana, la vera sfida sia accettare questa nostra vita umana con le sue pesantezze e la sua noia e riconoscere in questo flusso incolore ciò che invece non lo è.
Ok, sono una bacchettona. Mi pare però che questa riflessione sia presente anche in una delle frasi iniziali di Giorgio, da cui emerge la sua personalità: "Io [...] ero sempre stato incuriosito da quel mondo diverso. E alla curiosità si mescolava una specie di invidia. Per una vita che sembrava più facile, meno problematica; non segnata da un esercizio, a volte ossessivo, del senso critico." (p. 46)
Ebbene, io credo che sia "l'esercizio, a volte ossessivo, del senso critico" che ci uccide e al contempo ci salva.
Voto: 3/5
P.S. Comunque, che vi devo dire, preferisco Guerrieri, soprattutto se facesse un po' pace con la sua malinconia esistenziale.
Non si può certamente dire che Carofiglio non abbia mestiere come scrittore.
Con questa storia tutto sommato semplice - e per certi versi anche un po' scontata - è riuscito a tenermi attaccata al libro per un intero fine settimana, fino a quando all'una della domenica notte non ho letto l'ultima riga e finalmente spento la luce.
Questo romanzo non appartiene alla serie dell'avvocato Guerrieri; è stato scritto dopo che già erano usciti Testimone inconsapevole e Ad occhi chiusi. Si tratta, in qualche modo, di una digressione dalla vicenda di Guerrieri, rispetto alla quale l'unica cosa a non cambiare è l'ambientazione, Bari, questa volta ritratta nella sua dimensione notturna e clandestina degli anni Ottanta.
Protagonista è Giorgio, uno studente modello di giurisprudenza, di cui si racconta l'amicizia con Francesco, nata per caso una sera ad una festa. Francesco è un personaggio affascinante, è inserito negli ambienti più diversi della città, bara alle carte, ha tutte le donne che vuole. Giorgio ne è conquistato al punto da lasciarsi andare a una vita di emozioni, avventure, rischi, vincite milionarie, truffe, persino violenza, una vita in cui tutto quello che ha fatto sino ad allora non ha più significato. Sarà una specie di discesa senza freni per un pendio che il lettore sa fino dal principio che porterà Giorgio vicino all'autodistruzione.
Corre parallela la storia di un altro Giorgio, un tenente dei carabinieri che viene dal Nord e che sta indagando su una serie di stupri che sembra apparentemente non aprire alcuna pista alle indagini. Anche lui segnato dalla vita e da un passato con cui sta ancora facendo i conti.
Mentre le pagine scorrono sotto i nostri occhi, si ha netta la sensazione di avere di fronte più la sceneggiatura di un film (che è stato poi immancabilmente tratto dal libro per la regia di Daniele Vicari) che un'opera letteraria in senso stretto. La scrittura di Carofiglio è infatti estremamente visuale e la storia, che sul piano letterario non è del tutto compiuta e ben riuscita (troppi interrogativi restano appesi e quasi dimenticati nella vicenda personale del tenente Giorgio Chiti, troppo improvviso e senza tentennamenti veri il cambiamento di vita di Giorgio Cipriani), riesce invece a creare un'attesa più narrativa che di senso.
A me personalmente la discesa agli inferi del giovane Giorgio ha suscitato una sensazione profonda di fastidio; diciamo che Giorgio è la tipica persona che avrei l'impulso di prendere a schiaffi per quel senso di istupidita ricerca di una vitalità effimera propria di chi vive un'adolescenza infinita e indefinita. Ok, sono una vecchia bacchettona...
Ma voglio provare a spiegarmi. Capisco perfettamente il peso che può esercitare una vita di cui si conosce in anticipo tutto; comprendo il tentativo di cercare una via alternativa a quello che tutti si aspettano da noi e che spesso eseguiamo senza fiatare a scapito della nostra felicità; accetto la necessità di una rottura, di una ribellione, di uno scompaginamento che è l'unica condizione per diventare veramente adulti. Non comprendo però in alcun modo la stupidità, il bisogno di vivere ai limiti, di cercare artificiali metodi di leggerezza.
A dire la verità, penso che, sebbene vivere con leggerezza sia l'ambizione e il desiderio di tutti e sentire costantemente la scarica di adrenalina nel proprio corpo sia ben più eccitante della routine quotidiana, la vera sfida sia accettare questa nostra vita umana con le sue pesantezze e la sua noia e riconoscere in questo flusso incolore ciò che invece non lo è.
Ok, sono una bacchettona. Mi pare però che questa riflessione sia presente anche in una delle frasi iniziali di Giorgio, da cui emerge la sua personalità: "Io [...] ero sempre stato incuriosito da quel mondo diverso. E alla curiosità si mescolava una specie di invidia. Per una vita che sembrava più facile, meno problematica; non segnata da un esercizio, a volte ossessivo, del senso critico." (p. 46)
Ebbene, io credo che sia "l'esercizio, a volte ossessivo, del senso critico" che ci uccide e al contempo ci salva.
Voto: 3/5
P.S. Comunque, che vi devo dire, preferisco Guerrieri, soprattutto se facesse un po' pace con la sua malinconia esistenziale.
domenica 12 settembre 2010
Metafisica dei tubi / Amélie Nothomb
Metafisica dei tubi / Amélie Nothomb; trad. di Patrizia Galeone. Parma: Guanda, 2004.
Che Amélie Nothomb sia mezza matta mi sembra di averlo già ipotizzato nella recensione a un altro suo romanzo Sabotaggio d’amore (che pure mi era piaciuto molto!). Che sia un’estremista della scrittura – e non solo – credo risulti evidente a chiunque abbia letto almeno uno dei suoi romanzi. Che eserciti un incredibile fascino su di me con questa sua presunzione di ipersensibilità che apparentemente si porta dietro fin dalla primissima infanzia è un dato di fatto.
Questo romanzo, Metafisica dei tubi, è – come diversi altri della Nothomb - parzialmente autobiografico, in quanto racconta i primissimi anni di vita di questa bimba, figlia di un diplomatico belga che in quel momento sta prestando servizio in Giappone.
La bimba per due anni è praticamente priva di qualunque segnale di vitalità fisica e mentale, ad eccezione delle funzioni corporee necessarie per la sopravvivenza. Un tubo, sostanzialmente. Attraversato da ciò che la circonda senza che questo lasci alcuna traccia.
La nascita vera e propria al mondo esterno e la trasformazione del tubo in essere umano avviene a due anni, quando la nonna belga arriva in Giappone con un pezzetto di cioccolato bianco. È la scoperta del piacere, del peccato, della trasgressione.
Il tubo sviluppa così rapidamente un mondo interiore di grande intensità, che va ben al di là dei suoi due-tre anni di età, e che condensa in pochissimo tempo tutto quel groviglio di sentimenti – positivi e negativi – che normalmente si dipana per poi raggrovigliarsi durante tutto il nostro percorso di vita e che nel piccolo tubo-Amélie si mescola con le ingenuità, le estremizzazioni, i paradossi che l’io narrante infantile consentono.
È così che il tubo conosce e sperimenta in rapida sequenza il contatto con la natura, la paura, l’affezione, il senso di superiorità, i ricatti affettivi, l’odio, il ribrezzo, l’amore, l’abbandono, l’angoscia, commentando felicità e catastrofi umane con un cinismo e un pessimismo senza sconti.
Quello che per lei – come per tutti - è più scioccante è l’acquisizione della consapevolezza che tutto passa e, in particolare, che "quello che ami, lo perderai", che "quanto ti è stato dato, ti verrà ripreso". Da qui, la paura dell’abbandono, la paura della perdita. La ricerca dell’oblio. La ricerca della morte per paura della morte. Da qui anche la sensazione di essere vivi.
Capisco che il tutto può apparire come un delirio senza capo né coda. Ma a me i deliri piacciono. Il bianco e il nero con cui Amélie ama rappresentare la realtà sono i miei colori. Sprofondare negli abissi ossessivi della mente è l’inevitabile percorso per riaffiorare in superficie. Cadere nel laghetto delle carpe, incontrare le proprie paure ed esserne sopraffatti, è la condizione necessaria per metabolizzarle, per riconoscere se stessi e accettare l’inevitabile alternarsi di conquista e perdita che caratterizza la nostra esistenza.
Perché in fondo quello che cerchiamo non è una risposta all’ingiustificata provvisorietà di ogni cosa, ma solo un modo per non esserne schiacciati, la possibilità di non sentirsene vittime, la forza di compensare con l’intensità la sensazione che tutto inevitabilmente scivoli via.
Il fatto è che siamo solo dei tubi. Che però si credono immortali, finché non scoprono di essere solo dei tubi.
Voto: 4/5
P.S. Comincio a pensare che ci sia qualcosa che attiri i belgi verso il Giappone, visto che un'altra belga (ormai romana) - Sigrid, l'autrice del blog Il cavoletto di Bruxelles - sembra avere una spiccata preferenza per la cultura e la cucina giapponese. Toccherà indagare ;-))
Che Amélie Nothomb sia mezza matta mi sembra di averlo già ipotizzato nella recensione a un altro suo romanzo Sabotaggio d’amore (che pure mi era piaciuto molto!). Che sia un’estremista della scrittura – e non solo – credo risulti evidente a chiunque abbia letto almeno uno dei suoi romanzi. Che eserciti un incredibile fascino su di me con questa sua presunzione di ipersensibilità che apparentemente si porta dietro fin dalla primissima infanzia è un dato di fatto.
Questo romanzo, Metafisica dei tubi, è – come diversi altri della Nothomb - parzialmente autobiografico, in quanto racconta i primissimi anni di vita di questa bimba, figlia di un diplomatico belga che in quel momento sta prestando servizio in Giappone.
La bimba per due anni è praticamente priva di qualunque segnale di vitalità fisica e mentale, ad eccezione delle funzioni corporee necessarie per la sopravvivenza. Un tubo, sostanzialmente. Attraversato da ciò che la circonda senza che questo lasci alcuna traccia.
La nascita vera e propria al mondo esterno e la trasformazione del tubo in essere umano avviene a due anni, quando la nonna belga arriva in Giappone con un pezzetto di cioccolato bianco. È la scoperta del piacere, del peccato, della trasgressione.
Il tubo sviluppa così rapidamente un mondo interiore di grande intensità, che va ben al di là dei suoi due-tre anni di età, e che condensa in pochissimo tempo tutto quel groviglio di sentimenti – positivi e negativi – che normalmente si dipana per poi raggrovigliarsi durante tutto il nostro percorso di vita e che nel piccolo tubo-Amélie si mescola con le ingenuità, le estremizzazioni, i paradossi che l’io narrante infantile consentono.
È così che il tubo conosce e sperimenta in rapida sequenza il contatto con la natura, la paura, l’affezione, il senso di superiorità, i ricatti affettivi, l’odio, il ribrezzo, l’amore, l’abbandono, l’angoscia, commentando felicità e catastrofi umane con un cinismo e un pessimismo senza sconti.
Quello che per lei – come per tutti - è più scioccante è l’acquisizione della consapevolezza che tutto passa e, in particolare, che "quello che ami, lo perderai", che "quanto ti è stato dato, ti verrà ripreso". Da qui, la paura dell’abbandono, la paura della perdita. La ricerca dell’oblio. La ricerca della morte per paura della morte. Da qui anche la sensazione di essere vivi.
Capisco che il tutto può apparire come un delirio senza capo né coda. Ma a me i deliri piacciono. Il bianco e il nero con cui Amélie ama rappresentare la realtà sono i miei colori. Sprofondare negli abissi ossessivi della mente è l’inevitabile percorso per riaffiorare in superficie. Cadere nel laghetto delle carpe, incontrare le proprie paure ed esserne sopraffatti, è la condizione necessaria per metabolizzarle, per riconoscere se stessi e accettare l’inevitabile alternarsi di conquista e perdita che caratterizza la nostra esistenza.
Perché in fondo quello che cerchiamo non è una risposta all’ingiustificata provvisorietà di ogni cosa, ma solo un modo per non esserne schiacciati, la possibilità di non sentirsene vittime, la forza di compensare con l’intensità la sensazione che tutto inevitabilmente scivoli via.
Il fatto è che siamo solo dei tubi. Che però si credono immortali, finché non scoprono di essere solo dei tubi.
Voto: 4/5
P.S. Comincio a pensare che ci sia qualcosa che attiri i belgi verso il Giappone, visto che un'altra belga (ormai romana) - Sigrid, l'autrice del blog Il cavoletto di Bruxelles - sembra avere una spiccata preferenza per la cultura e la cucina giapponese. Toccherà indagare ;-))
sabato 11 settembre 2010
Ondine - Il segreto del mare
Non è che vado a vedere film sconosciuti e di nessun interesse. È semplicemente che, in questo momento, vivo disallineata rispetto alle uscite cinematografiche italiane, in parte in ritardo, in parte in anticipo sui tempi. È una strana sensazione, ma in fondo mi appartiene moltissimo visto che io stessa per molte cose mi sento in ritardo e nella costante necessità di recuperare occasioni ed esperienze in parte perdute, mentre per altre mi sembra di aver già fatto tutto quello che c'era da fare, priva di stimoli e di motivazioni...
Tutto questo semplicemente per dire che Ondine non è esattamente un film sconosciuto. Semplicemente uscirà in Italia tra qualche tempo. Il suo regista è Neil Jourdan, vincitore dell'Oscar per La moglie del soldato, nonché regista di Intervista col vampiro, Michael Collins, Breakfast on Pluto e Il buio nell'anima. Insomma uno che spazia molto, ma che di tanto in tanto ritorna alla sua amata Irlanda, con i suoi straordinari paesaggi verdi, le sue scogliere, le sue brume, il suo mare.
Ebbene, Ondine è un film profondamente irlandese, che racconta la storia di un solitario pescatore con problemi di alcolismo, Syracuse, da tutti chiamato Circus (Colin Farrell), che un giorno, durante la sua uscita quotidiana per la pesca, trova nella sua rete una donna che gli si presenta con il nome di Ondine (Alicja Bachleda).
La donna si comporta in maniera strana e misteriosa, facendo pensare a Syracuse e a sua figlia Annie (Alison Barry) (costretta su una sedia a rotelle in attesa di un trapianto di reni) che si tratti di una creatura del mare, per l'esattezza una selkie, una creatura mitologica della tradizione irlandese e scozzese molto simile a una sirena, che secondo la leggenda può perdere la sua coda e adattarsi a vivere sulla terra.
Una serie di circostanze misteriose (tra cui due episodi di pesca quasi miracolosa grazie al canto di Ondine) e il verificarsi di coincidenze fortunate convincono progressivamente Annie e Syracuse di aver proprio a che fare con una selkie. E le letture dei libri presi in biblioteca rafforzeranno questa convinzione (!).
La scoperta dell'esistenza della ragazza da parte del piccolo paese di pescatori dove Syracuse vive metterà in moto, però, una serie di eventi che riveleranno il mistero. Nel frattempo, qualcosa è magicamente cambiato nella vita del pescatore e di sua figlia.
Ondine è un film raccontato come una favola e che ci ricorda l'importanza di credere nella magia, schiacciati come siamo dalla banalità e dalla tristezza del quotidiano. Un film che trasmette il valore della speranza e la necessità del coraggio per essere felici. Come dice il prete (Stephen Rea) con cui Syracuse si confida, "L'infelicità è più facile, basta semplicemente abbandonarsi ad essa; la felicità richiede impegno e una proiezione verso il futuro".
Buoni 2/3 del film ci fanno davvero vivere in uno stato di magia e di incredulità e la colonna sonora affidata alla straordinaria sonorità dei Sigur Ros fa il resto.
Peccato che alla fine il regista senta il bisogno di spiegarci tutto, di dare un senso ad ogni minimo dettaglio, di portare la storia ad una non del tutto necessaria conclusione.
Avremmo certamente preferito lasciarci cullare dalla storia delle selkies, abbandonarci al loro mondo magico, lasciarci trasportare dalle onde del mare, farci conquistare dal loro canto. Senza aprire gli occhi. Ovvero con quello sguardo tenero, impaurito e infantile con cui Syracuse guarda il mondo intorno a sé improvvisamente colorarsi di nuove sfumature.
E poi, io e il mare... È un po' il mio elemento naturale.
Insomma, la capisco Ondine.
Voto: 3,5/5
Tutto questo semplicemente per dire che Ondine non è esattamente un film sconosciuto. Semplicemente uscirà in Italia tra qualche tempo. Il suo regista è Neil Jourdan, vincitore dell'Oscar per La moglie del soldato, nonché regista di Intervista col vampiro, Michael Collins, Breakfast on Pluto e Il buio nell'anima. Insomma uno che spazia molto, ma che di tanto in tanto ritorna alla sua amata Irlanda, con i suoi straordinari paesaggi verdi, le sue scogliere, le sue brume, il suo mare.
Ebbene, Ondine è un film profondamente irlandese, che racconta la storia di un solitario pescatore con problemi di alcolismo, Syracuse, da tutti chiamato Circus (Colin Farrell), che un giorno, durante la sua uscita quotidiana per la pesca, trova nella sua rete una donna che gli si presenta con il nome di Ondine (Alicja Bachleda).
La donna si comporta in maniera strana e misteriosa, facendo pensare a Syracuse e a sua figlia Annie (Alison Barry) (costretta su una sedia a rotelle in attesa di un trapianto di reni) che si tratti di una creatura del mare, per l'esattezza una selkie, una creatura mitologica della tradizione irlandese e scozzese molto simile a una sirena, che secondo la leggenda può perdere la sua coda e adattarsi a vivere sulla terra.
Una serie di circostanze misteriose (tra cui due episodi di pesca quasi miracolosa grazie al canto di Ondine) e il verificarsi di coincidenze fortunate convincono progressivamente Annie e Syracuse di aver proprio a che fare con una selkie. E le letture dei libri presi in biblioteca rafforzeranno questa convinzione (!).
La scoperta dell'esistenza della ragazza da parte del piccolo paese di pescatori dove Syracuse vive metterà in moto, però, una serie di eventi che riveleranno il mistero. Nel frattempo, qualcosa è magicamente cambiato nella vita del pescatore e di sua figlia.
Ondine è un film raccontato come una favola e che ci ricorda l'importanza di credere nella magia, schiacciati come siamo dalla banalità e dalla tristezza del quotidiano. Un film che trasmette il valore della speranza e la necessità del coraggio per essere felici. Come dice il prete (Stephen Rea) con cui Syracuse si confida, "L'infelicità è più facile, basta semplicemente abbandonarsi ad essa; la felicità richiede impegno e una proiezione verso il futuro".
Buoni 2/3 del film ci fanno davvero vivere in uno stato di magia e di incredulità e la colonna sonora affidata alla straordinaria sonorità dei Sigur Ros fa il resto.
Peccato che alla fine il regista senta il bisogno di spiegarci tutto, di dare un senso ad ogni minimo dettaglio, di portare la storia ad una non del tutto necessaria conclusione.
Avremmo certamente preferito lasciarci cullare dalla storia delle selkies, abbandonarci al loro mondo magico, lasciarci trasportare dalle onde del mare, farci conquistare dal loro canto. Senza aprire gli occhi. Ovvero con quello sguardo tenero, impaurito e infantile con cui Syracuse guarda il mondo intorno a sé improvvisamente colorarsi di nuove sfumature.
E poi, io e il mare... È un po' il mio elemento naturale.
Insomma, la capisco Ondine.
Voto: 3,5/5
giovedì 9 settembre 2010
The romance of the Song Dynasty
Le promesse si mantengono. Dunque, anche se in questa fase avrei sostanzialmente raggiunto i limiti di tolleranza per Cina e cineserie varie (tranne per i materassi cinesi, che sono l'unica cosa che rimpiango), non posso esimermi da una recensione di questo spettacolo che l'organizzazione del SILF2010 ci ha portato a vedere nell'ottica di darci un caloroso benvenuto e di offrirci una prova tangibile della loro ospitalità.
La prima sera ad Hangzhou siamo stati, dunque, trasportati in autobus in un'area periferica rispetto alla città (o almeno così mi è parso) in cui sorge una vera e propria cittadella, un vero e proprio parco a tema dedicato alle rappresentazioni relative alla saga della Song Dynasty, con tanto di enorme teatro da non so quante migliaia di posti, ricostruzione fintissima e scenografica dell'antica Cina, bancarelle con improbabili gadget e miliardi di persone ovunque. Pare che lo spettacolo sia gettonatissimo in Cina - e non solo - (è considerato realmente una performance da non perdere!), al punto tale che è praticamente impossibile andarci senza aver prenotato prima e questo comunque non risparmierà allo spettatore la necessità di andarci con ore di anticipo e di fare lunghe file per l'ingresso.
L'organizzazione della nostra conferenza è andata ben oltre, dal momento che non solo aveva comprato i biglietti per tutti i partecipanti, ma ha anche previsto delle corsie preferenziali che ci hanno praticamente consentito di arrivare all'ultimo minuto, trovandoci di fronte a un'enorme scritta sullo schermo dietro il palcoscenico che ci dava il benvenuto!
Immediatamente abbiamo avuto l'impressione di un'atmosfera surreale, che è poi stata confermata dal seguito. Ma prima di descrivere lo spettacolo e le sue mirabolanti trovate sarà meglio che io accenni brevemente a questa Song Dynasty, perché altrimenti non si capisce (e infatti noi non l'abbiamo subito capito) come mai ad essa è stata dedicata un'intera cittadella "culturale".
La Song Dynasty ha governato la Cina tra il X e il XIII secolo, trasferendo la capitale dell'impero ad Hangzhou nel 1129 e facendone la città più grande (pare che raggiungesse i due milioni di abitanti) e ammirata della Cina, come emerge dalle numerose testimonianze storiche (anche Marco Polo ne parla!). In pratica il periodo Song è quello più glorioso nella storia della città.
Bene, detto ciò, lo spettacolo è realizzato con grande dispiegamento di mezzi, allo scopo di colpire l'immaginazione degli spettatori. Prima dela performance vera e propria, due clown cinesi (una contraddizione in termini!) e uno spettacolo acrobatico intrattengono il pubblico.
Poi la scena - composta da un enorme palco, uno schermo centrale e degli schermi laterali (capaci di trasformarsi in palchi secondari) - si riempie di luci, di colori, di attori dagli abiti sgargianti e - dopo una breve introduzione che scorre in cinese sullo schermo (e un riassunto in inglese) - lo spettacolo ha inizio.
Si tratta di quattro atti: "La danza del banchetto al Palazzo Song", "La battaglia", "Il bellissimo West Lake e le sue fiabe", e, infine, "Il mondo si incontra qui". Non credo di essere in grado di raccontarvi molto di più della storia rappresentata, anche perché non sono esattamente sicura del fatto che ce ne fosse una. E se c'era non era certamente la cosa più importante!
Sì, perché è tutto il resto che fa lo spettacolo, come ad esempio le scenografie costituite in parte di aggeggi meccanici che movimentano e animano la scena (determinando frequentemente lo spostamento automatico delle prime file di spettatori!), in parte di proiezioni sullo schermo centrale e laterale che di solito amplificano la grandiosità delle ambientazioni e la sensazione della folla di persone e vorrebbero trascinare lo spettatore nella magia delle storie raccontate. Per non parlare dei fantasmagorici costumi dei ballerini e dell'ingresso in scena di cavalli in carne e ossa e di veri cannoni, o del lago artificiale che si apre sotto i piedi dei ballerini, delle cascate di acqua vera ricreate sulla scena, della pioggia che investe anche gli spettatori, degli ingressi dei protagonisti in scena da qualunque punto dell'enorme sala, degli effetti di profondità realizzati con i laser… Diciamo che, a un certo punto, non si sapeva più dove guardare (tanto più che il pubblico costituiva uno spettacolo a sé, visto che i cinesi si alzavano per guardare meglio, si producevano in sonori "Ooooohhhhhhhh!" e così via). Una solo vaghissima idea di quello che è potuto accadere in questo teatro ve la danno le foto di cui corredo questo post.
Che dire? Per chi era andato lì, come noi, con il nostro solito atteggiamento occidentale, tra il cinico e il disincantato, e senza sapere assolutamente nulla di quello che ci aspettava, è stata un'esperienza a metà strada tra Gardaland e l'opera musicale popolare 'Tosca amore disperato' di Lucio Dalla (o qualunque altro spettacolo di questo genere). In pratica, il nostro snobismo intellettuale ci ha suscitato, nella migliore delle ipotesi, qualche sorriso di divertita compassione… Ma devo dire che, se ci si lasciava andare allo spirito naive del luogo, ad una meraviglia squisitamente infantile, ad un entusiasmo privo di qualunque considerazione di tipo artistico-culturale, lo spettacolo acquistava quella sua magia tutta esotica e in parte incomprensibile (com'era giusto che fosse) che finiva per conferirgli un significato e una qualche piacevolezza.
Certo, mai avremmo potuto comprendere e condividere l'entusiasmo dei cinesi - poi ritrovato in numerose altre circostanze - per le meraviglie di Hangzhou, paradiso in terra, città benedetta dai favori degli dei, e per la straordinarietà della sua storia passata che il presente riconosce ed esalta (sebbene, dopo aver fatto fuori praticamente tutto, ci si debba accontentare ormai di falsissime ricostruzioni…). Ma questa è la Cina. Che ci volete fare?
Voto: 4/5 (il voto non è per la qualità dello spettacolo in sé, ma per l'irriducibilità che provo di fronte a una cultura e a un mondo con cui realmente sento difficile entrare in sintonia, forse troppo coperta - come sono - dalla polvere che mi si è accumulata addosso nel vecchio Continente)
La prima sera ad Hangzhou siamo stati, dunque, trasportati in autobus in un'area periferica rispetto alla città (o almeno così mi è parso) in cui sorge una vera e propria cittadella, un vero e proprio parco a tema dedicato alle rappresentazioni relative alla saga della Song Dynasty, con tanto di enorme teatro da non so quante migliaia di posti, ricostruzione fintissima e scenografica dell'antica Cina, bancarelle con improbabili gadget e miliardi di persone ovunque. Pare che lo spettacolo sia gettonatissimo in Cina - e non solo - (è considerato realmente una performance da non perdere!), al punto tale che è praticamente impossibile andarci senza aver prenotato prima e questo comunque non risparmierà allo spettatore la necessità di andarci con ore di anticipo e di fare lunghe file per l'ingresso.
L'organizzazione della nostra conferenza è andata ben oltre, dal momento che non solo aveva comprato i biglietti per tutti i partecipanti, ma ha anche previsto delle corsie preferenziali che ci hanno praticamente consentito di arrivare all'ultimo minuto, trovandoci di fronte a un'enorme scritta sullo schermo dietro il palcoscenico che ci dava il benvenuto!
Immediatamente abbiamo avuto l'impressione di un'atmosfera surreale, che è poi stata confermata dal seguito. Ma prima di descrivere lo spettacolo e le sue mirabolanti trovate sarà meglio che io accenni brevemente a questa Song Dynasty, perché altrimenti non si capisce (e infatti noi non l'abbiamo subito capito) come mai ad essa è stata dedicata un'intera cittadella "culturale".
La Song Dynasty ha governato la Cina tra il X e il XIII secolo, trasferendo la capitale dell'impero ad Hangzhou nel 1129 e facendone la città più grande (pare che raggiungesse i due milioni di abitanti) e ammirata della Cina, come emerge dalle numerose testimonianze storiche (anche Marco Polo ne parla!). In pratica il periodo Song è quello più glorioso nella storia della città.
Bene, detto ciò, lo spettacolo è realizzato con grande dispiegamento di mezzi, allo scopo di colpire l'immaginazione degli spettatori. Prima dela performance vera e propria, due clown cinesi (una contraddizione in termini!) e uno spettacolo acrobatico intrattengono il pubblico.
Poi la scena - composta da un enorme palco, uno schermo centrale e degli schermi laterali (capaci di trasformarsi in palchi secondari) - si riempie di luci, di colori, di attori dagli abiti sgargianti e - dopo una breve introduzione che scorre in cinese sullo schermo (e un riassunto in inglese) - lo spettacolo ha inizio.
Si tratta di quattro atti: "La danza del banchetto al Palazzo Song", "La battaglia", "Il bellissimo West Lake e le sue fiabe", e, infine, "Il mondo si incontra qui". Non credo di essere in grado di raccontarvi molto di più della storia rappresentata, anche perché non sono esattamente sicura del fatto che ce ne fosse una. E se c'era non era certamente la cosa più importante!
Sì, perché è tutto il resto che fa lo spettacolo, come ad esempio le scenografie costituite in parte di aggeggi meccanici che movimentano e animano la scena (determinando frequentemente lo spostamento automatico delle prime file di spettatori!), in parte di proiezioni sullo schermo centrale e laterale che di solito amplificano la grandiosità delle ambientazioni e la sensazione della folla di persone e vorrebbero trascinare lo spettatore nella magia delle storie raccontate. Per non parlare dei fantasmagorici costumi dei ballerini e dell'ingresso in scena di cavalli in carne e ossa e di veri cannoni, o del lago artificiale che si apre sotto i piedi dei ballerini, delle cascate di acqua vera ricreate sulla scena, della pioggia che investe anche gli spettatori, degli ingressi dei protagonisti in scena da qualunque punto dell'enorme sala, degli effetti di profondità realizzati con i laser… Diciamo che, a un certo punto, non si sapeva più dove guardare (tanto più che il pubblico costituiva uno spettacolo a sé, visto che i cinesi si alzavano per guardare meglio, si producevano in sonori "Ooooohhhhhhhh!" e così via). Una solo vaghissima idea di quello che è potuto accadere in questo teatro ve la danno le foto di cui corredo questo post.
Che dire? Per chi era andato lì, come noi, con il nostro solito atteggiamento occidentale, tra il cinico e il disincantato, e senza sapere assolutamente nulla di quello che ci aspettava, è stata un'esperienza a metà strada tra Gardaland e l'opera musicale popolare 'Tosca amore disperato' di Lucio Dalla (o qualunque altro spettacolo di questo genere). In pratica, il nostro snobismo intellettuale ci ha suscitato, nella migliore delle ipotesi, qualche sorriso di divertita compassione… Ma devo dire che, se ci si lasciava andare allo spirito naive del luogo, ad una meraviglia squisitamente infantile, ad un entusiasmo privo di qualunque considerazione di tipo artistico-culturale, lo spettacolo acquistava quella sua magia tutta esotica e in parte incomprensibile (com'era giusto che fosse) che finiva per conferirgli un significato e una qualche piacevolezza.
Certo, mai avremmo potuto comprendere e condividere l'entusiasmo dei cinesi - poi ritrovato in numerose altre circostanze - per le meraviglie di Hangzhou, paradiso in terra, città benedetta dai favori degli dei, e per la straordinarietà della sua storia passata che il presente riconosce ed esalta (sebbene, dopo aver fatto fuori praticamente tutto, ci si debba accontentare ormai di falsissime ricostruzioni…). Ma questa è la Cina. Che ci volete fare?
Voto: 4/5 (il voto non è per la qualità dello spettacolo in sé, ma per l'irriducibilità che provo di fronte a una cultura e a un mondo con cui realmente sento difficile entrare in sintonia, forse troppo coperta - come sono - dalla polvere che mi si è accumulata addosso nel vecchio Continente)
mercoledì 8 settembre 2010
The killer inside me
Avevo cominciato a seguire Michael Winterbottom agli esordi della sua carriera con grande attenzione. Avevo trovato alcuni dei suoi primi film particolarmente interessanti, in particolare Jude (che è in assoluto uno dei miei film preferiti), ma anche Butterfly Kiss, Go now and With or without you). Non tutti questi film si potevano dire realmente riusciti, ma certamente fin da allora si intravedeva un che di dirompente nella poetica di questo giovane regista inglese. Alcuni dei tratti che sarebbero diventati tipici della sua filmografia, come il realismo (ai limiti della brutalità) di alcune scene, il carattere disturbante o emotivamente forte delle storie scelte e di alcuni loro passaggi, la vena quasi documentaristica, l'attenzione formale.
Devo dire che negli ultimi anni l'avevo un po' perso di vista, nonostante alcuni dei suoi ultimi film (Welcome to Sarajevo, Wonderland, 24 Hour Party People) siano stati nominati per la Palma d'Oro a Cannes.
Il fatto è che - come altri registi - mi era sembrato che anche Winterbottom avesse perso in parte il suo tocco magico e si fosse un po' incancrenito in un manierismo di se stesso che è sempre fatale.
Ci voleva Bruxelles e un cambio di programmazione al cinema dove mi stavo dirigendo per riportarmi in sala a vedere un suo film, del quale - devo dire la verità - non sapevo quasi nulla.
Si tratta di The killer inside me, tratto da un romanzo del 1952 di Jim Thompson, che racconta la storia di Lou Ford (Casey Affleck), vice-sceriffo di una piccola cittadina del Texas, all'apparenza inappuntabile, ma in realtà psicotico e assassino seriale di grande brutalità e freddezza. Intorno a lui una comunità piccolissima dominata da un magnate del petrolio, Chester Conway (Ned Beatty), e da una serie di personaggi che tratteggiano il profilo di un mondo sereno e pacifico solo in superficie.
Vittime della furia sadica di Lou sono due donne, una prostituta che si innamora di lui (Jessica Alba) e Amy, la brava ragazza che tutti si aspettano che egli sposi (Kate Hudson). Il film non ci risparmia certo sangue e violenza, in una deriva pulp-splatter che in certi momenti diventa difficile da sostenere.
Casey Affleck è straordinario nel ruolo di Lou, con la sua angelica faccia da bambino, la sua parlata quasi cantilenante, ma capace di trasmettere inquietudine in ogni gesto. Questo damerino con le sue camicie immacolate e il suo cappellone da sceriffo che tra un'esplosione di violenza e l'altra ascolta la lirica, legge Freud e la Bibbia e si prepara la moka per il caffè è di per se stesso disturbante.
Il senso di angoscia che il film ci comunica è amplificato da una raffigurazione della provincia americana degli anni Cinquanta che sembra uscire direttamente dai quadri di Edward Hopper (le cadillac, le capigliature cotonate, i vestiti attillati, le casette con il patio) e da una colonna sonora che ironicamente e leggiadramente contrappunta l'orrore che vediamo sullo schermo.
C'è del mestiere dunque in questo film, sebbene esso soffra poi di alcune debolezze di sceneggiatura che rendono certi passaggi narrativi piuttosto confusi e non ci consentono realmente di capire le motivazioni familiari (se ce ne sono) dietro la personalità patologica e disturbata di Lou. Anche i personaggi di contorno sembrano un po' sbucare fuori di volta in volta più o meno all'improvviso e scomparire sostanzialmente nello stesso modo, cosicché è Lou che regge la scena e tiene in piedi il film nel suo insieme. Alcune recensioni sui giornali inglesi e americani propongono un confronto comparativo con il libro dal quale il film è tratto, sottolineando che quest'ultimo si limita a riprodurne la violenza mostrandocela sullo schermo, perdendo però in parte il sottofondo psicologico che consente di dare una lettura morale a tutta questa violenza.
Ovviamente non sono in grado di dire se hanno ragione. Certo è che posso comprendere le polemiche suscitate dal film, in particolare sollevate dalle associazioni femministe per il modo in cui le donne sono ritratte e trattate.
D'altronde, non è forse la cosa in sé a risultare sgradevole (si deve tenere conto dell'epoca e del luogo di ambientazione), quanto la freddezza complessiva che emana dallo schermo e dallo sguardo di Casey Affleck e che ci impedisce di provare pietà per chicchessia, vittime e aggressore.
Forse, l'unico sentimento vero è l'istinto a fuggire, sperando che la violenza resti confinata sul piatto schermo di un cinema.
Voto: 3/5
P.S. Ho dovuto seguire l'intero film dai sottotitoli in francese. Un accento strettissimo da provincia americana rendeva impossibile la comprensione dell'inglese. Ma - vi dirò - nonostante tutto ho apprezzato quella cantilena che non capivo, ma che in qualche modo mi ha fatto meglio entrare nel mood che il film voleva trasmettere.
Devo dire che negli ultimi anni l'avevo un po' perso di vista, nonostante alcuni dei suoi ultimi film (Welcome to Sarajevo, Wonderland, 24 Hour Party People) siano stati nominati per la Palma d'Oro a Cannes.
Il fatto è che - come altri registi - mi era sembrato che anche Winterbottom avesse perso in parte il suo tocco magico e si fosse un po' incancrenito in un manierismo di se stesso che è sempre fatale.
Ci voleva Bruxelles e un cambio di programmazione al cinema dove mi stavo dirigendo per riportarmi in sala a vedere un suo film, del quale - devo dire la verità - non sapevo quasi nulla.
Si tratta di The killer inside me, tratto da un romanzo del 1952 di Jim Thompson, che racconta la storia di Lou Ford (Casey Affleck), vice-sceriffo di una piccola cittadina del Texas, all'apparenza inappuntabile, ma in realtà psicotico e assassino seriale di grande brutalità e freddezza. Intorno a lui una comunità piccolissima dominata da un magnate del petrolio, Chester Conway (Ned Beatty), e da una serie di personaggi che tratteggiano il profilo di un mondo sereno e pacifico solo in superficie.
Vittime della furia sadica di Lou sono due donne, una prostituta che si innamora di lui (Jessica Alba) e Amy, la brava ragazza che tutti si aspettano che egli sposi (Kate Hudson). Il film non ci risparmia certo sangue e violenza, in una deriva pulp-splatter che in certi momenti diventa difficile da sostenere.
Casey Affleck è straordinario nel ruolo di Lou, con la sua angelica faccia da bambino, la sua parlata quasi cantilenante, ma capace di trasmettere inquietudine in ogni gesto. Questo damerino con le sue camicie immacolate e il suo cappellone da sceriffo che tra un'esplosione di violenza e l'altra ascolta la lirica, legge Freud e la Bibbia e si prepara la moka per il caffè è di per se stesso disturbante.
Il senso di angoscia che il film ci comunica è amplificato da una raffigurazione della provincia americana degli anni Cinquanta che sembra uscire direttamente dai quadri di Edward Hopper (le cadillac, le capigliature cotonate, i vestiti attillati, le casette con il patio) e da una colonna sonora che ironicamente e leggiadramente contrappunta l'orrore che vediamo sullo schermo.
C'è del mestiere dunque in questo film, sebbene esso soffra poi di alcune debolezze di sceneggiatura che rendono certi passaggi narrativi piuttosto confusi e non ci consentono realmente di capire le motivazioni familiari (se ce ne sono) dietro la personalità patologica e disturbata di Lou. Anche i personaggi di contorno sembrano un po' sbucare fuori di volta in volta più o meno all'improvviso e scomparire sostanzialmente nello stesso modo, cosicché è Lou che regge la scena e tiene in piedi il film nel suo insieme. Alcune recensioni sui giornali inglesi e americani propongono un confronto comparativo con il libro dal quale il film è tratto, sottolineando che quest'ultimo si limita a riprodurne la violenza mostrandocela sullo schermo, perdendo però in parte il sottofondo psicologico che consente di dare una lettura morale a tutta questa violenza.
Ovviamente non sono in grado di dire se hanno ragione. Certo è che posso comprendere le polemiche suscitate dal film, in particolare sollevate dalle associazioni femministe per il modo in cui le donne sono ritratte e trattate.
D'altronde, non è forse la cosa in sé a risultare sgradevole (si deve tenere conto dell'epoca e del luogo di ambientazione), quanto la freddezza complessiva che emana dallo schermo e dallo sguardo di Casey Affleck e che ci impedisce di provare pietà per chicchessia, vittime e aggressore.
Forse, l'unico sentimento vero è l'istinto a fuggire, sperando che la violenza resti confinata sul piatto schermo di un cinema.
Voto: 3/5
P.S. Ho dovuto seguire l'intero film dai sottotitoli in francese. Un accento strettissimo da provincia americana rendeva impossibile la comprensione dell'inglese. Ma - vi dirò - nonostante tutto ho apprezzato quella cantilena che non capivo, ma che in qualche modo mi ha fatto meglio entrare nel mood che il film voleva trasmettere.
domenica 5 settembre 2010
Da Est a Est, ovvero dal tarallo al raviolo (cinese) – III (e ultima) parte
Sarebbe troppo difficile descrivere a mo’ di racconto i 7 giorni trascorsi tra Shanghai (hanging around) e Hangzhou (totalmente irreggimentati nell’organizzazione perfetta di un convegno che quasi non ci lascia neppure un attimo di libertà) (a proposito, se non avete mai sentito parlare di Hangzhou non siete ignoranti, ma vi impressionerà sapere che è una città - pare - di oltre 7 milioni di abitanti e che pomposamente i cinesi la definiscono Paradise on hearth, si fa per dire!). Perché la Cina, o almeno questa parte della Cina, a descriverla può sembrare quasi un posto normale. Che non è. Per questo ho idea che un racconto non riuscirebbe a trasmetterne tutta la natura paradossale.
E dunque ho deciso che, rispetto alla puntata precedente, procederò per quadretti, sensazioni, impressioni, episodi.
Da pochi minuti per le strade di Shanghai capiamo che è vero quando dicono che questi miliardi di cinesi sono passati senza soluzione di continuità dalle biciclette alle macchine di grossa cilindrata (è chiaro che i tassisti fino a ieri avevano un’idea solo molto vaga di cosa fosse un’automobile!) e chi non è potuto passare alla macchina ha invaso le strade con motorini elettrici più simili ai Ciao che guidavamo a 15 anni (ma molto più silenziosi) che agli scooter di cui sono piene le nostre città. Qualunque mezzo di trasporto guidino, i cinesi si comportano come se avessero sotto il sedere una bicicletta. Ossia non rispettano le indicazioni dei semafori (come giustamente ha detto un amico che vive a Shanghai i semafori sono più che altro un suggerimento!), si infilano in qualunque spazio libero anche se questo comporta un cambiamento di corsa a destra o a sinistra del veicolo che gli sta davanti, strombazzano a tutto spiano quando qualunque cosa abbiano davanti non si sposta e loro non riescono a zigzagare sulla strada, non cambiano marcia neppure con le cannonate, perché bici e motorini elettrici non lo richiedono e non capiscono perché dovrebbero farlo con le automobili!
Questi assurdi motorini elettrici, oltre ad essere attrezzati per qualunque condizione atmosferica (ad Hangzhou ci sono addirittura dei tendoni sulle corsie dei motorini vicino agli stop per permettergli di ripararsi dal sole e dalla pioggia), silenziosamente te li ritrovi in testa o tra le gambe in men che non si dica, anche quando cammini tranquillamente su un marciapiede o quando stai attraversando con il semaforo verde sulle strisce pedonali. E se non ti sposti ti suonano dei clacson assurdi, che tutto sembrano fuorché clacson.
L’impressione è che chi fa la segnaletica stradale lo sappia perfettamente e dove ha potuto abbia segnato tutto il possibile, anche cose che per noi potrebbero essere superflue, come ad esempio dove deve fermarsi all’incrocio la macchina che deve svoltare a sinistra per consentire a chi viene di fronte di passare. Certo, perché questi cinesi altrimenti si infilerebbero ovunque… Esattamente come fanno nelle code; certo parlare di code è eccessivo. I cinesi sono peggio degli italiani. Non sanno cosa voglia dire “coda”. Mai lasciare tra te e chi ti sta davanti in coda un centimetro quadro, perché almeno un paio di persone si infileranno nel mezzo, considerandolo la cosa più normale del mondo. Preparatevi dunque a fare a spintoni, senza sentirvi assolutamente maleducati.
In conclusione, non sarà un caso che un cittadino straniero in Cina non può prendere una macchina a noleggio né può ottenere la patente. Lo sanno anche loro che rimarrebbe ucciso dopo due giorni per aver rispettato le regole della strada!
Nonostante tutto, le biciclette sono usatissime in una città che conta 19 milioni di abitanti (170 milioni nell'area metropolitana!) come Shanghai e vengono utilizzate per trasportare l'intrasportabile: non avete un'idea di cosa riescano a caricarci sopra con sistemi di imballaggio assolutamente unici! Doveva esserci qualcosa di veramente straordinario nel loro expertise più antico; peccato che si stiano convertendo alla modernità!
Ma se vi rimane tempo per guardare le persone per strada (mentre scansate macchine e motorini!), lo spettacolo risulterà ancora più buffo! A parte gli ombrelli onnipresenti che servono per il sole e per la pioggia (e in un clima come quello che si ritrovano è assolutamente essenziale!) – ma in questo hanno ragione loro, l’ombrello contro il sole è una salvezza assoluta e fa un’enorme differenza -, moltissimi vanno in giro per strada con le magliette sollevate per lasciare la pancia scoperta (ovviamente uomini!), perché la cosa – pur orribile a vedersi – fa stare più freschi; non vi meravigliate se passeggiando per strada sentirete qualcuno che rumorosamente raccoglie tutto il catarro che ha in gola per poi prodursi in uno sputo da campionato del mondo: è assolutamente normale e non è considerato maleducato (ci dicono che le secrezioni del corpo devono essere espulse in ogni caso secondo loro e dunque è legittimo sputare in pubblico, e non oso immaginare cos’altro!).
Non pensiate inoltre che se incontrate qualcuno con un cellulare posizionato davanti alla bocca è qualcuno che non ha capito come si usa l’aggeggio; moltissimi cinesi parlano al telefono così, tenendo l’audio altissimo in modo da poter sentire la voce di chi gli parla, e - vi assicuro - non si tratta solo di persone anziane.
Non vi meravigliate se in un qualunque posto pubblico, un hotel, un ascensore, un negozio o qualsiasi altra cosa, nessuno vi saluta o vi accenna un sorriso. A meno che non sia un venditore debitamente istruito per questo, la cosa è assolutamente normale. I cinesi hanno facce prevalentemente inespressive da cui non trapela nulla, anzi di solito una certa ostilità. Solo i bambini riescono ad essere ancora realmente spontanei, prima di capire che invece forse è meglio adattarsi – per il loro stesso bene – al comportamento imperante. Del resto, non può che essere un portato socio-politico-culturale, perché non posso credere che un’intera popolazione possa essere fatta così e, del resto, quelli di loro che hanno avuto la possibilità di uscire dalla cappa in cui vivono mostrano di poter essere allegri, divertiti e affabili.
Per non parlare dei cinesi a tavola! Da loro – come saprete se avete frequentato ristoranti cinesi in Italia o in qualunque parte del mondo – non esiste realmente una distinzione tra antipasti, piatti principali e dolci. Tutto viene posizionato al centro della tavola su un piatto ruotante che consente a tutti di condividere tutto e di mescolare i sapori… Il che può essere anche carino!
Trovandoci a tavola con tutti cinesi, abbiamo anche capito che esistono delle regole di comportamento su cui probabilmente abbiamo fatto delle gaffes. Tipo, la persona più anziana a tavola comanda decidendo quando si può cominciare a bere, quando si può girare il centro tavola ruotante e così via; è sempre la stessa persona che controlla che a tavola ci sia sempre tutto e si preoccupa che gli ospiti siano sempre ben serviti. Fin qui tutto bene.
Salvo che poi i cinesi hanno un modo di mangiare che per noi è un po’ imbarazzante. Innanzitutto continuo a non capire perché – essendo state inventate forchetta e coltello (che pure sanno tranquillamente utilizzare) – continuino a mangiare con quelle cavolo di bacchette, che – diciamolo – sono divertenti, ma giusto per un po’… Mi spiegate come si fa a non mangiare con la testa nel piatto o sollevando il piatto verso la faccia con le bacchette? E come si fa a dividere un milk bun (una specie di pane cotto al vapore che è più elastico di un marshmallow) senza coltello? Il fatto è che loro non si fanno nessun problema a mangiare con la faccia nel piatto, a mettere in bocca bocconi che non riescono a gestire, a succhiare le zuppe e a risputare nel piatto qualunque cosa non debbano deglutire. Eh sì, perché il cibo non va assolutamente toccato con le mani, ma è consentito riconsegnare al piatto quello che non si può buttar giù!
Poi, dunque, la cucina cinese – quando è di livello elevato è buonissima ed anche molto digeribile. Abbiamo provato piatti del Sichuan, ravioli cinesi (che poi sono di migliaia di specie diverse) fatti a mano, verdure al vapore, riso, carni e quant’altro molto buoni. Ma, scusate, sarà che anche noi che mangiamo europeo poi avremo nell’alito e sulla pelle un odore di non so che (aglio? cipolla? olio?), ma quando mangi cinese da tre giorni mattina, pranzo e cena faccio fatica a descrivervi che odore si acquisisce… E poi dopo un po’ – sarà una sensazione – ma tutto sa della stessa cosa: salsa di soja? Spezie cinesi? O boh?
Scordatevi una colazione normale: i cinesi a colazione non bevono né caffè, né latte (il latte praticamente non lo usano proprio perché a loro modo di vedere immagino sia un escremento), né il the (sì, neppure il the, che bevono praticamente solo tra un pasto e l’altro). Prendono una zuppa glutinosa assurda, in cui intingono verdure. Il tutto accompagnato dagli stessi piatti che mangiano per pranzo e cena: carni, gamberetti, riso fritto, noodles saltati e così via… Per disperazione siamo finite un paio di volte da Starbucks e in un caffè italiano molto carino, dove finalmente abbiamo potuto azzannare un muffin e bere un caffè. In realtà, alla fine, negli alberghi hanno un po’ tutto anche per colazione, e devo dire che anche qualche piatto cinese appena svegli ci sta pure bene, ma non so se a vita ce la farei.
In ogni caso, vi consiglio – a meno che non andiate in ristoranti chic che di solito hanno le cucine a vista (con cuochi con guanti e mascherine) – di non guardare nelle cucine dei ristoranti cinesi neppure in patria. E di non chiedervi se quella verdura che vedete nelle ceste per strada o a sciacquare nei bidoni tra i vicoli maleodoranti della baraccopoli che si estende per diverse vie nel centro di Shanghai sarà quella che poi troverete nei piatti. Del resto si dice che i cinesi mangino praticamente tutto. Non mi sembra molto lontano dal vero. E il tutto riesce alla fine anche ad essere buono.
Per passare alla dimensione socio-economica, non vi aspettate una società industriosa, efficiente ed iper-tecnologica. I cinesi stanno probabilmente conquistando il mondo perché sono un numero esagerato e perché costano ancora pochissimo come manodopera. Ma certo non danno l’impressione di essere particolarmente svegli né organizzati. Di fronte a un qualunque minimo problema di solito si mobilitano in dieci, riuscendo normalmente a complicare le cose anziché risolverle.
E non sorprenderà sapere che praticamente non esiste alcuna forma di raccolta differenziata. Credo che sarebbe assolutamente impossibile convincere 2 miliardi di cinesi - del resto lo è anche con 50 milioni di italiani - a seguire delle regole, tanto più se queste regole riguardano la gestione dell'immondizia, o forse non c'è alcun interesse a farlo - visto che su altre cose ci si riesce perfettamente -, perché probabilmente è più conveniente e socialmente più utile avere un consistente numero di persone che va in giro per strada a recuperare dai bidoni e dai cestini tutte le bottiglie di plastica e a strapparle praticamente dalle mani delle persone per realizzare una vera raccolta differenziata ex post!
Complessivamente i cinesi non hanno sguardi particolarmente felici o svegli, ma questo è probabilmente dovuto al fatto che sono tenuti socialmente e politicamente in una condizione di acriticità che certo non li rende particolarmente attenti a cogliere quello che accade nel mondo circostante. Probabilmente, l’esperienza gli dice che è meglio essere tutto sommato distratti e non aver visto né sentito nulla. Ai soldi sì, sono attenti, e possono essere anche particolarmente fastidiosi quando ritengono di non stare ottenendo quello che gli è dovuto.
Capisco che si tratti di una società caratterizzata da enormi disuguaglianze sociali, in cui a una massa enorme di popolazione tenuta in una condizione di sopravvivenza (non gli si fa mancare sostanzialmente nulla, ma senza mai farli sollevare al di sopra di un soglia che arriva a malapena alla dignità) corrisponde un numero ridottissimo di persone ricchissime che governano le sorti di un’intera nazione. Nel mezzo questi occidentali mal tollerati che portano soldi, ma che certo vivono come nababbi al loro confronto, visto che con uno stipendio occidentale in Cina si vive ad un livello che in Europa sarebbe inimmaginabile.
La tecnologia, i grattacieli, le luci sfavillanti sono solo il biglietto da visita di un paese che dietro nasconde ingiustizie e disuguaglianze. Per di più, la Cina non è il Giappone, non è la Corea del Sud, non è nemmeno l’appena recuperata Hong Kong; lo scintillio tecnologico della modernità non è del tutto reale. È un’imitazione, come tutto del resto in questo paese, dove qualunque cosa gli metti davanti sono in grado di rifartelo uguale, ma un po’ più rottino, un po’meno bello, un po’ meno funzionante, ma sostanzialmente nel suo insieme una copia perfetta. A Shanghai credo ci sia il più grande mercato del falso del mondo, e direi che non è un caso.
Mentre ero lì più volte ho pensato che la Cina è un luogo paradossale. La popolazione ti ricorda certe forme di ingenuità dell’Italia degli anni ’50 (a dirla tutta, anche l’arredamento sembra un po’ risalire a quegli anni nella sua austerità e nel suo essere complessivamente un po’ kitsch); basti guardare il modo in cui si divertono, il modo in cui vestono, il tipo di spettacoli e di posti che gli piacciono, l’entusiasmo un po’ infantile che mostrano per quelli che ancora vedono come prodigi o per eventi che considerano eccezionali (vedi i cinesi all’Expo che mi hanno ricordato io e la mia famiglia alla Fiera del Levante 30 anni fa!), il loro complessivo atteggiamento un po’ naive (in una prossima puntata vi parlerò di uno spettacolo che siamo andate a vedere, The romance of the Song Dinasty, per farvi capire meglio). Dall’altro lato, però, sono un paese dotato di straordinarie risorse, in piena espansione economica e tecnologica, con selettivi processi di occidentalizzazione in corso e un futuro certo (anzi direi un presente) di potenza mondiale.
La cosa – devo ammetterlo – mi fa paura. Un popolo il cui passato è stato completamente raso al suolo, la cui memoria collettiva è stata cancellata, che marcia a passi spediti verso una ricchezza economica senza una corrispondente ricchezza nella capacità critica e culturale, mi fa venire le vertigini. Nel mondo occidentale, con le sue società frammentate, le sue divisioni intestine, il cinismo dilagante, la competizione più spinta, nel bene e nel male non credo che realmente si possa avere la capacità di far muovere le masse in maniera compatta, perché nessuno crede fino in fondo a niente. In Cina forse ancora sì. E questo è a dir poco inquietante.
Insomma, tra un Occidente in piena decadenza socio-economica e culturale e un Estremo Oriente proiettato verso un capitalismo sfrenato e senza basi socio-culturali e coscienza collettiva sinceramente non so bene che futuro immaginarmi e augurarmi.
Mi pare di aver sicuramente dimenticato qualcosa di fondamentale (per esempio, i ponti e gli edifici con le illuminazioni psichedeliche tipo quelle degli orribili oggetti cinesi che vogliono venderci in Italia quando siamo tranquilli a mangiare al ristorante; il tempio buddista come isola di pace; la città storica di Shanghai ricostruita come un parco a tema; i militari sempre intorno)! Ma – direi – per tutto il resto, andate in Cina. Niente sarà come l’esperienza diretta!
Per chi è arrivato fin qui, scusate l'inusitata lunghezza!
P.S. Ho visitato anche delle biblioteche (oltre ad aver partecipato a una conferenza dal tema City life and library services ad Hangzhou), ma di questo parlerò in una rivista professionale per non annoiare tutti gli altri.
E dunque ho deciso che, rispetto alla puntata precedente, procederò per quadretti, sensazioni, impressioni, episodi.
Da pochi minuti per le strade di Shanghai capiamo che è vero quando dicono che questi miliardi di cinesi sono passati senza soluzione di continuità dalle biciclette alle macchine di grossa cilindrata (è chiaro che i tassisti fino a ieri avevano un’idea solo molto vaga di cosa fosse un’automobile!) e chi non è potuto passare alla macchina ha invaso le strade con motorini elettrici più simili ai Ciao che guidavamo a 15 anni (ma molto più silenziosi) che agli scooter di cui sono piene le nostre città. Qualunque mezzo di trasporto guidino, i cinesi si comportano come se avessero sotto il sedere una bicicletta. Ossia non rispettano le indicazioni dei semafori (come giustamente ha detto un amico che vive a Shanghai i semafori sono più che altro un suggerimento!), si infilano in qualunque spazio libero anche se questo comporta un cambiamento di corsa a destra o a sinistra del veicolo che gli sta davanti, strombazzano a tutto spiano quando qualunque cosa abbiano davanti non si sposta e loro non riescono a zigzagare sulla strada, non cambiano marcia neppure con le cannonate, perché bici e motorini elettrici non lo richiedono e non capiscono perché dovrebbero farlo con le automobili!
Questi assurdi motorini elettrici, oltre ad essere attrezzati per qualunque condizione atmosferica (ad Hangzhou ci sono addirittura dei tendoni sulle corsie dei motorini vicino agli stop per permettergli di ripararsi dal sole e dalla pioggia), silenziosamente te li ritrovi in testa o tra le gambe in men che non si dica, anche quando cammini tranquillamente su un marciapiede o quando stai attraversando con il semaforo verde sulle strisce pedonali. E se non ti sposti ti suonano dei clacson assurdi, che tutto sembrano fuorché clacson.
L’impressione è che chi fa la segnaletica stradale lo sappia perfettamente e dove ha potuto abbia segnato tutto il possibile, anche cose che per noi potrebbero essere superflue, come ad esempio dove deve fermarsi all’incrocio la macchina che deve svoltare a sinistra per consentire a chi viene di fronte di passare. Certo, perché questi cinesi altrimenti si infilerebbero ovunque… Esattamente come fanno nelle code; certo parlare di code è eccessivo. I cinesi sono peggio degli italiani. Non sanno cosa voglia dire “coda”. Mai lasciare tra te e chi ti sta davanti in coda un centimetro quadro, perché almeno un paio di persone si infileranno nel mezzo, considerandolo la cosa più normale del mondo. Preparatevi dunque a fare a spintoni, senza sentirvi assolutamente maleducati.
In conclusione, non sarà un caso che un cittadino straniero in Cina non può prendere una macchina a noleggio né può ottenere la patente. Lo sanno anche loro che rimarrebbe ucciso dopo due giorni per aver rispettato le regole della strada!
Nonostante tutto, le biciclette sono usatissime in una città che conta 19 milioni di abitanti (170 milioni nell'area metropolitana!) come Shanghai e vengono utilizzate per trasportare l'intrasportabile: non avete un'idea di cosa riescano a caricarci sopra con sistemi di imballaggio assolutamente unici! Doveva esserci qualcosa di veramente straordinario nel loro expertise più antico; peccato che si stiano convertendo alla modernità!
Ma se vi rimane tempo per guardare le persone per strada (mentre scansate macchine e motorini!), lo spettacolo risulterà ancora più buffo! A parte gli ombrelli onnipresenti che servono per il sole e per la pioggia (e in un clima come quello che si ritrovano è assolutamente essenziale!) – ma in questo hanno ragione loro, l’ombrello contro il sole è una salvezza assoluta e fa un’enorme differenza -, moltissimi vanno in giro per strada con le magliette sollevate per lasciare la pancia scoperta (ovviamente uomini!), perché la cosa – pur orribile a vedersi – fa stare più freschi; non vi meravigliate se passeggiando per strada sentirete qualcuno che rumorosamente raccoglie tutto il catarro che ha in gola per poi prodursi in uno sputo da campionato del mondo: è assolutamente normale e non è considerato maleducato (ci dicono che le secrezioni del corpo devono essere espulse in ogni caso secondo loro e dunque è legittimo sputare in pubblico, e non oso immaginare cos’altro!).
Non pensiate inoltre che se incontrate qualcuno con un cellulare posizionato davanti alla bocca è qualcuno che non ha capito come si usa l’aggeggio; moltissimi cinesi parlano al telefono così, tenendo l’audio altissimo in modo da poter sentire la voce di chi gli parla, e - vi assicuro - non si tratta solo di persone anziane.
Non vi meravigliate se in un qualunque posto pubblico, un hotel, un ascensore, un negozio o qualsiasi altra cosa, nessuno vi saluta o vi accenna un sorriso. A meno che non sia un venditore debitamente istruito per questo, la cosa è assolutamente normale. I cinesi hanno facce prevalentemente inespressive da cui non trapela nulla, anzi di solito una certa ostilità. Solo i bambini riescono ad essere ancora realmente spontanei, prima di capire che invece forse è meglio adattarsi – per il loro stesso bene – al comportamento imperante. Del resto, non può che essere un portato socio-politico-culturale, perché non posso credere che un’intera popolazione possa essere fatta così e, del resto, quelli di loro che hanno avuto la possibilità di uscire dalla cappa in cui vivono mostrano di poter essere allegri, divertiti e affabili.
Per non parlare dei cinesi a tavola! Da loro – come saprete se avete frequentato ristoranti cinesi in Italia o in qualunque parte del mondo – non esiste realmente una distinzione tra antipasti, piatti principali e dolci. Tutto viene posizionato al centro della tavola su un piatto ruotante che consente a tutti di condividere tutto e di mescolare i sapori… Il che può essere anche carino!
Trovandoci a tavola con tutti cinesi, abbiamo anche capito che esistono delle regole di comportamento su cui probabilmente abbiamo fatto delle gaffes. Tipo, la persona più anziana a tavola comanda decidendo quando si può cominciare a bere, quando si può girare il centro tavola ruotante e così via; è sempre la stessa persona che controlla che a tavola ci sia sempre tutto e si preoccupa che gli ospiti siano sempre ben serviti. Fin qui tutto bene.
Salvo che poi i cinesi hanno un modo di mangiare che per noi è un po’ imbarazzante. Innanzitutto continuo a non capire perché – essendo state inventate forchetta e coltello (che pure sanno tranquillamente utilizzare) – continuino a mangiare con quelle cavolo di bacchette, che – diciamolo – sono divertenti, ma giusto per un po’… Mi spiegate come si fa a non mangiare con la testa nel piatto o sollevando il piatto verso la faccia con le bacchette? E come si fa a dividere un milk bun (una specie di pane cotto al vapore che è più elastico di un marshmallow) senza coltello? Il fatto è che loro non si fanno nessun problema a mangiare con la faccia nel piatto, a mettere in bocca bocconi che non riescono a gestire, a succhiare le zuppe e a risputare nel piatto qualunque cosa non debbano deglutire. Eh sì, perché il cibo non va assolutamente toccato con le mani, ma è consentito riconsegnare al piatto quello che non si può buttar giù!
Poi, dunque, la cucina cinese – quando è di livello elevato è buonissima ed anche molto digeribile. Abbiamo provato piatti del Sichuan, ravioli cinesi (che poi sono di migliaia di specie diverse) fatti a mano, verdure al vapore, riso, carni e quant’altro molto buoni. Ma, scusate, sarà che anche noi che mangiamo europeo poi avremo nell’alito e sulla pelle un odore di non so che (aglio? cipolla? olio?), ma quando mangi cinese da tre giorni mattina, pranzo e cena faccio fatica a descrivervi che odore si acquisisce… E poi dopo un po’ – sarà una sensazione – ma tutto sa della stessa cosa: salsa di soja? Spezie cinesi? O boh?
Scordatevi una colazione normale: i cinesi a colazione non bevono né caffè, né latte (il latte praticamente non lo usano proprio perché a loro modo di vedere immagino sia un escremento), né il the (sì, neppure il the, che bevono praticamente solo tra un pasto e l’altro). Prendono una zuppa glutinosa assurda, in cui intingono verdure. Il tutto accompagnato dagli stessi piatti che mangiano per pranzo e cena: carni, gamberetti, riso fritto, noodles saltati e così via… Per disperazione siamo finite un paio di volte da Starbucks e in un caffè italiano molto carino, dove finalmente abbiamo potuto azzannare un muffin e bere un caffè. In realtà, alla fine, negli alberghi hanno un po’ tutto anche per colazione, e devo dire che anche qualche piatto cinese appena svegli ci sta pure bene, ma non so se a vita ce la farei.
In ogni caso, vi consiglio – a meno che non andiate in ristoranti chic che di solito hanno le cucine a vista (con cuochi con guanti e mascherine) – di non guardare nelle cucine dei ristoranti cinesi neppure in patria. E di non chiedervi se quella verdura che vedete nelle ceste per strada o a sciacquare nei bidoni tra i vicoli maleodoranti della baraccopoli che si estende per diverse vie nel centro di Shanghai sarà quella che poi troverete nei piatti. Del resto si dice che i cinesi mangino praticamente tutto. Non mi sembra molto lontano dal vero. E il tutto riesce alla fine anche ad essere buono.
Per passare alla dimensione socio-economica, non vi aspettate una società industriosa, efficiente ed iper-tecnologica. I cinesi stanno probabilmente conquistando il mondo perché sono un numero esagerato e perché costano ancora pochissimo come manodopera. Ma certo non danno l’impressione di essere particolarmente svegli né organizzati. Di fronte a un qualunque minimo problema di solito si mobilitano in dieci, riuscendo normalmente a complicare le cose anziché risolverle.
E non sorprenderà sapere che praticamente non esiste alcuna forma di raccolta differenziata. Credo che sarebbe assolutamente impossibile convincere 2 miliardi di cinesi - del resto lo è anche con 50 milioni di italiani - a seguire delle regole, tanto più se queste regole riguardano la gestione dell'immondizia, o forse non c'è alcun interesse a farlo - visto che su altre cose ci si riesce perfettamente -, perché probabilmente è più conveniente e socialmente più utile avere un consistente numero di persone che va in giro per strada a recuperare dai bidoni e dai cestini tutte le bottiglie di plastica e a strapparle praticamente dalle mani delle persone per realizzare una vera raccolta differenziata ex post!
Complessivamente i cinesi non hanno sguardi particolarmente felici o svegli, ma questo è probabilmente dovuto al fatto che sono tenuti socialmente e politicamente in una condizione di acriticità che certo non li rende particolarmente attenti a cogliere quello che accade nel mondo circostante. Probabilmente, l’esperienza gli dice che è meglio essere tutto sommato distratti e non aver visto né sentito nulla. Ai soldi sì, sono attenti, e possono essere anche particolarmente fastidiosi quando ritengono di non stare ottenendo quello che gli è dovuto.
Capisco che si tratti di una società caratterizzata da enormi disuguaglianze sociali, in cui a una massa enorme di popolazione tenuta in una condizione di sopravvivenza (non gli si fa mancare sostanzialmente nulla, ma senza mai farli sollevare al di sopra di un soglia che arriva a malapena alla dignità) corrisponde un numero ridottissimo di persone ricchissime che governano le sorti di un’intera nazione. Nel mezzo questi occidentali mal tollerati che portano soldi, ma che certo vivono come nababbi al loro confronto, visto che con uno stipendio occidentale in Cina si vive ad un livello che in Europa sarebbe inimmaginabile.
La tecnologia, i grattacieli, le luci sfavillanti sono solo il biglietto da visita di un paese che dietro nasconde ingiustizie e disuguaglianze. Per di più, la Cina non è il Giappone, non è la Corea del Sud, non è nemmeno l’appena recuperata Hong Kong; lo scintillio tecnologico della modernità non è del tutto reale. È un’imitazione, come tutto del resto in questo paese, dove qualunque cosa gli metti davanti sono in grado di rifartelo uguale, ma un po’ più rottino, un po’meno bello, un po’ meno funzionante, ma sostanzialmente nel suo insieme una copia perfetta. A Shanghai credo ci sia il più grande mercato del falso del mondo, e direi che non è un caso.
Mentre ero lì più volte ho pensato che la Cina è un luogo paradossale. La popolazione ti ricorda certe forme di ingenuità dell’Italia degli anni ’50 (a dirla tutta, anche l’arredamento sembra un po’ risalire a quegli anni nella sua austerità e nel suo essere complessivamente un po’ kitsch); basti guardare il modo in cui si divertono, il modo in cui vestono, il tipo di spettacoli e di posti che gli piacciono, l’entusiasmo un po’ infantile che mostrano per quelli che ancora vedono come prodigi o per eventi che considerano eccezionali (vedi i cinesi all’Expo che mi hanno ricordato io e la mia famiglia alla Fiera del Levante 30 anni fa!), il loro complessivo atteggiamento un po’ naive (in una prossima puntata vi parlerò di uno spettacolo che siamo andate a vedere, The romance of the Song Dinasty, per farvi capire meglio). Dall’altro lato, però, sono un paese dotato di straordinarie risorse, in piena espansione economica e tecnologica, con selettivi processi di occidentalizzazione in corso e un futuro certo (anzi direi un presente) di potenza mondiale.
La cosa – devo ammetterlo – mi fa paura. Un popolo il cui passato è stato completamente raso al suolo, la cui memoria collettiva è stata cancellata, che marcia a passi spediti verso una ricchezza economica senza una corrispondente ricchezza nella capacità critica e culturale, mi fa venire le vertigini. Nel mondo occidentale, con le sue società frammentate, le sue divisioni intestine, il cinismo dilagante, la competizione più spinta, nel bene e nel male non credo che realmente si possa avere la capacità di far muovere le masse in maniera compatta, perché nessuno crede fino in fondo a niente. In Cina forse ancora sì. E questo è a dir poco inquietante.
Insomma, tra un Occidente in piena decadenza socio-economica e culturale e un Estremo Oriente proiettato verso un capitalismo sfrenato e senza basi socio-culturali e coscienza collettiva sinceramente non so bene che futuro immaginarmi e augurarmi.
Mi pare di aver sicuramente dimenticato qualcosa di fondamentale (per esempio, i ponti e gli edifici con le illuminazioni psichedeliche tipo quelle degli orribili oggetti cinesi che vogliono venderci in Italia quando siamo tranquilli a mangiare al ristorante; il tempio buddista come isola di pace; la città storica di Shanghai ricostruita come un parco a tema; i militari sempre intorno)! Ma – direi – per tutto il resto, andate in Cina. Niente sarà come l’esperienza diretta!
Per chi è arrivato fin qui, scusate l'inusitata lunghezza!
P.S. Ho visitato anche delle biblioteche (oltre ad aver partecipato a una conferenza dal tema City life and library services ad Hangzhou), ma di questo parlerò in una rivista professionale per non annoiare tutti gli altri.
sabato 4 settembre 2010
Da Est a Est, ovvero dal tarallo al raviolo (cinese) - II parte
Archiviato (almeno e solo per il momento) il Salento, si parte per la seconda tappa in direzione Est, Far East questa volta: la Cina. Curiosamente, però, per andare ancora più a Est dobbiamo di nuovo fare rotta a Nord tornando parzialmente sui nostri passi. Forse stiamo giocando a uno strano gioco dell’oca e abbiamo sbagliato il tiro dei dadi proprio all’ultimo, quando il traguardo era vicino, così inevitabilmente ci tocca arretrare e ritentare.
Armate di buona volontà, ma senza essere comunque in grado di svegliarci prima delle nove, attraversiamo la lunghissima Puglia (con breve sosta per un pranzo “leggero” a base di melanzane ripiene a casa dei genitori) e ci troviamo immerse in quell’universo parallelo che è l’autostrada in agosto, con le sue stazioni di servizio strapiene, le radio ad alto volume, i camionisti lanciati in sorpassi azzardati per non annoiarsi, le code ossessive e snervanti, le pause pipì, i percorsi tortuosi tra ogni genere di prodotto concepibile per l’automobilista che la logistica degli autogrill impone, le cifre assurde sborsate per un pasto appena decente con vista sulle auto che sfrecciano o che si allineano in code interminabili.
Arriviamo all’una di notte in un albergo che certo non esisterebbe se lì a due passi non fosse nato quell’assurdo aeroporto che è Malpensa e che, proprio per questo, punta tutto sui servizi di parcheggio e navetta da e per l’aeroporto.
Una breve dormita ed eccoci nell’area check-in del Terminal 1 dove dobbiamo pedinare un tot di persone dall’aspetto orientale nonché un certo numero di membri del personale di terra prima di capire dove fare il check-in per il nostro volo, un finto Alitalia che in realtà usa vettori Air China.
E lì a chiederci: qual era la compagnia cinese di cui ci avevano parlato male? Air China, China Airlines, China Southern? Qualunque dubbio è stato sciolto dalla vista dell’aereo: un airbus 340 per un volo intercontinentale di 12 ore circa.
L’ulteriore conferma è arrivata a bordo, quando abbiamo scoperto che i sedili erano fatti a misura di cinese: poggiatesta all’altezza del collo e sedile in discesa per consentire forse ai loro utenti di poggiare i piedi per terra (visto che di poggiapiedi manco l’ombra!). Praticamente impossibile stare seduti in modo rilassato: solo un lavoro di alta ingegneria con cuscini strategicamente posizionati in ogni dove ci ha consentito ogni tanto di schiacciare un pisolino…
Personale di bordo non certo sorridente, tanto che abbiamo pensato di essere state particolarmente sfortunate, salvo poi capire che la compagnia Air China è lo specchio fedele della Cina e dei suoi abitanti.
Alle 5 del mattino gettiamo uno sguardo dal finestrino dell’aereo e sotto di noi ci appare un enorme gioco del Monopoli in cui si alternano grattacieli tutti uguali (Parco della Vittoria) e case e fabbriche dai tetti azzurri, rossi e verdi (Vicolo stretto e Vicolo corto). È Shanghai.
Scesi a terra ci forniamo di RMB (Renminbi, la moneta del popolo, che vale circa 9-10 volte di meno dell’Euro), e prendiamo il velocissimo Maglev (treno a levitazione magnetica) verso il centro della città. Quindi taxi per l’ultimo tratto di strada fino all’albergo. Il tassista (uno dei tantissimi e assurdi tassisti di Shanghai) riesce a spillarci (non so bene come visto che c’era il tassametro e apparentemente non sembrava manomesso) 200 RMB, praticamente il suo stipendio di un mese! Ma lo scopriamo solo più tardi quando ci rendiamo conto che una corsa media a Shanghai costa 16-18 RMB e il costo totale dall’albergo all’aeroporto (e non alla fermata del Maglev) è di circa 160 RMB. Eccoci in Cina!!!
Per non parlare dell’albergo. Non una catena internazionale, proprio un albergo cinese (non ci siamo fatte mancare nulla!), ristrutturato di recente, con un odore cinese fortissimo (non chiedetemi cos’è ma sono sicura che il giorno che andrete in Cina lo saprete perfettamente), nella parte ovest - più tranquilla - della Huaihai Road (la stessa della Shanghai Library). Scopriamo che è un albergo a parziale finanziamento statale e capiamo perché il personale assomiglia moltissimo ad alcune categorie di impiegati dei nostri ministeri e il primo giorno, poiché scendiamo a colazione alle 9,15 (la colazione viene servita fino alle 9,30), i camerieri a malapena ci fanno sedere togliendoci piatti e portate da sotto il naso…
I primi due giorni sono dedicati all’esplorazione della città, senza mete precise e senza particolari aspettative. E il mondo che osserviamo è assolutamente incredibile, non tanto per quello che le guide suggeriscono, ma per la sensazione di trovarsi realmente all’altro capo del mondo, di non capire e non essere capiti (e non solo perché quasi nessuno parla inglese), di essere caduti – come Alice - in un onirico mondo sotterraneo fatto di paradossi, di assurdità e di nonsensi.
Ma, poiché ho deciso di non essere sintetica, per questo dovrete aspettare la terza puntata!!!
Armate di buona volontà, ma senza essere comunque in grado di svegliarci prima delle nove, attraversiamo la lunghissima Puglia (con breve sosta per un pranzo “leggero” a base di melanzane ripiene a casa dei genitori) e ci troviamo immerse in quell’universo parallelo che è l’autostrada in agosto, con le sue stazioni di servizio strapiene, le radio ad alto volume, i camionisti lanciati in sorpassi azzardati per non annoiarsi, le code ossessive e snervanti, le pause pipì, i percorsi tortuosi tra ogni genere di prodotto concepibile per l’automobilista che la logistica degli autogrill impone, le cifre assurde sborsate per un pasto appena decente con vista sulle auto che sfrecciano o che si allineano in code interminabili.
Arriviamo all’una di notte in un albergo che certo non esisterebbe se lì a due passi non fosse nato quell’assurdo aeroporto che è Malpensa e che, proprio per questo, punta tutto sui servizi di parcheggio e navetta da e per l’aeroporto.
Una breve dormita ed eccoci nell’area check-in del Terminal 1 dove dobbiamo pedinare un tot di persone dall’aspetto orientale nonché un certo numero di membri del personale di terra prima di capire dove fare il check-in per il nostro volo, un finto Alitalia che in realtà usa vettori Air China.
E lì a chiederci: qual era la compagnia cinese di cui ci avevano parlato male? Air China, China Airlines, China Southern? Qualunque dubbio è stato sciolto dalla vista dell’aereo: un airbus 340 per un volo intercontinentale di 12 ore circa.
L’ulteriore conferma è arrivata a bordo, quando abbiamo scoperto che i sedili erano fatti a misura di cinese: poggiatesta all’altezza del collo e sedile in discesa per consentire forse ai loro utenti di poggiare i piedi per terra (visto che di poggiapiedi manco l’ombra!). Praticamente impossibile stare seduti in modo rilassato: solo un lavoro di alta ingegneria con cuscini strategicamente posizionati in ogni dove ci ha consentito ogni tanto di schiacciare un pisolino…
Personale di bordo non certo sorridente, tanto che abbiamo pensato di essere state particolarmente sfortunate, salvo poi capire che la compagnia Air China è lo specchio fedele della Cina e dei suoi abitanti.
Alle 5 del mattino gettiamo uno sguardo dal finestrino dell’aereo e sotto di noi ci appare un enorme gioco del Monopoli in cui si alternano grattacieli tutti uguali (Parco della Vittoria) e case e fabbriche dai tetti azzurri, rossi e verdi (Vicolo stretto e Vicolo corto). È Shanghai.
Scesi a terra ci forniamo di RMB (Renminbi, la moneta del popolo, che vale circa 9-10 volte di meno dell’Euro), e prendiamo il velocissimo Maglev (treno a levitazione magnetica) verso il centro della città. Quindi taxi per l’ultimo tratto di strada fino all’albergo. Il tassista (uno dei tantissimi e assurdi tassisti di Shanghai) riesce a spillarci (non so bene come visto che c’era il tassametro e apparentemente non sembrava manomesso) 200 RMB, praticamente il suo stipendio di un mese! Ma lo scopriamo solo più tardi quando ci rendiamo conto che una corsa media a Shanghai costa 16-18 RMB e il costo totale dall’albergo all’aeroporto (e non alla fermata del Maglev) è di circa 160 RMB. Eccoci in Cina!!!
Per non parlare dell’albergo. Non una catena internazionale, proprio un albergo cinese (non ci siamo fatte mancare nulla!), ristrutturato di recente, con un odore cinese fortissimo (non chiedetemi cos’è ma sono sicura che il giorno che andrete in Cina lo saprete perfettamente), nella parte ovest - più tranquilla - della Huaihai Road (la stessa della Shanghai Library). Scopriamo che è un albergo a parziale finanziamento statale e capiamo perché il personale assomiglia moltissimo ad alcune categorie di impiegati dei nostri ministeri e il primo giorno, poiché scendiamo a colazione alle 9,15 (la colazione viene servita fino alle 9,30), i camerieri a malapena ci fanno sedere togliendoci piatti e portate da sotto il naso…
I primi due giorni sono dedicati all’esplorazione della città, senza mete precise e senza particolari aspettative. E il mondo che osserviamo è assolutamente incredibile, non tanto per quello che le guide suggeriscono, ma per la sensazione di trovarsi realmente all’altro capo del mondo, di non capire e non essere capiti (e non solo perché quasi nessuno parla inglese), di essere caduti – come Alice - in un onirico mondo sotterraneo fatto di paradossi, di assurdità e di nonsensi.
Ma, poiché ho deciso di non essere sintetica, per questo dovrete aspettare la terza puntata!!!
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