Metafisica dei tubi / Amélie Nothomb; trad. di Patrizia Galeone. Parma: Guanda, 2004.
Che Amélie Nothomb sia mezza matta mi sembra di averlo già ipotizzato nella recensione a un altro suo romanzo Sabotaggio d’amore (che pure mi era piaciuto molto!). Che sia un’estremista della scrittura – e non solo – credo risulti evidente a chiunque abbia letto almeno uno dei suoi romanzi. Che eserciti un incredibile fascino su di me con questa sua presunzione di ipersensibilità che apparentemente si porta dietro fin dalla primissima infanzia è un dato di fatto.
Questo romanzo, Metafisica dei tubi, è – come diversi altri della Nothomb - parzialmente autobiografico, in quanto racconta i primissimi anni di vita di questa bimba, figlia di un diplomatico belga che in quel momento sta prestando servizio in Giappone.
La bimba per due anni è praticamente priva di qualunque segnale di vitalità fisica e mentale, ad eccezione delle funzioni corporee necessarie per la sopravvivenza. Un tubo, sostanzialmente. Attraversato da ciò che la circonda senza che questo lasci alcuna traccia.
La nascita vera e propria al mondo esterno e la trasformazione del tubo in essere umano avviene a due anni, quando la nonna belga arriva in Giappone con un pezzetto di cioccolato bianco. È la scoperta del piacere, del peccato, della trasgressione.
Il tubo sviluppa così rapidamente un mondo interiore di grande intensità, che va ben al di là dei suoi due-tre anni di età, e che condensa in pochissimo tempo tutto quel groviglio di sentimenti – positivi e negativi – che normalmente si dipana per poi raggrovigliarsi durante tutto il nostro percorso di vita e che nel piccolo tubo-Amélie si mescola con le ingenuità, le estremizzazioni, i paradossi che l’io narrante infantile consentono.
È così che il tubo conosce e sperimenta in rapida sequenza il contatto con la natura, la paura, l’affezione, il senso di superiorità, i ricatti affettivi, l’odio, il ribrezzo, l’amore, l’abbandono, l’angoscia, commentando felicità e catastrofi umane con un cinismo e un pessimismo senza sconti.
Quello che per lei – come per tutti - è più scioccante è l’acquisizione della consapevolezza che tutto passa e, in particolare, che "quello che ami, lo perderai", che "quanto ti è stato dato, ti verrà ripreso". Da qui, la paura dell’abbandono, la paura della perdita. La ricerca dell’oblio. La ricerca della morte per paura della morte. Da qui anche la sensazione di essere vivi.
Capisco che il tutto può apparire come un delirio senza capo né coda. Ma a me i deliri piacciono. Il bianco e il nero con cui Amélie ama rappresentare la realtà sono i miei colori. Sprofondare negli abissi ossessivi della mente è l’inevitabile percorso per riaffiorare in superficie. Cadere nel laghetto delle carpe, incontrare le proprie paure ed esserne sopraffatti, è la condizione necessaria per metabolizzarle, per riconoscere se stessi e accettare l’inevitabile alternarsi di conquista e perdita che caratterizza la nostra esistenza.
Perché in fondo quello che cerchiamo non è una risposta all’ingiustificata provvisorietà di ogni cosa, ma solo un modo per non esserne schiacciati, la possibilità di non sentirsene vittime, la forza di compensare con l’intensità la sensazione che tutto inevitabilmente scivoli via.
Il fatto è che siamo solo dei tubi. Che però si credono immortali, finché non scoprono di essere solo dei tubi.
Voto: 4/5
P.S. Comincio a pensare che ci sia qualcosa che attiri i belgi verso il Giappone, visto che un'altra belga (ormai romana) - Sigrid, l'autrice del blog Il cavoletto di Bruxelles - sembra avere una spiccata preferenza per la cultura e la cucina giapponese. Toccherà indagare ;-))
domenica 12 settembre 2010
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Bellissima recensione!
RispondiEliminaGrazie mille!
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