mercoledì 8 settembre 2010

The killer inside me

Avevo cominciato a seguire Michael Winterbottom agli esordi della sua carriera con grande attenzione. Avevo trovato alcuni dei suoi primi film particolarmente interessanti, in particolare Jude (che è in assoluto uno dei miei film preferiti), ma anche Butterfly Kiss, Go now and With or without you). Non tutti questi film si potevano dire realmente riusciti, ma certamente fin da allora si intravedeva un che di dirompente nella poetica di questo giovane regista inglese. Alcuni dei tratti che sarebbero diventati tipici della sua filmografia, come il realismo (ai limiti della brutalità) di alcune scene, il carattere disturbante o emotivamente forte delle storie scelte e di alcuni loro passaggi, la vena quasi documentaristica, l'attenzione formale.
Devo dire che negli ultimi anni l'avevo un po' perso di vista, nonostante alcuni dei suoi ultimi film (Welcome to Sarajevo, Wonderland, 24 Hour Party People) siano stati nominati per la Palma d'Oro a Cannes.
Il fatto è che - come altri registi - mi era sembrato che anche Winterbottom avesse perso in parte il suo tocco magico e si fosse un po' incancrenito in un manierismo di se stesso che è sempre fatale.

Ci voleva Bruxelles e un cambio di programmazione al cinema dove mi stavo dirigendo per riportarmi in sala a vedere un suo film, del quale - devo dire la verità - non sapevo quasi nulla.
Si tratta di The killer inside me, tratto da un romanzo del 1952 di Jim Thompson, che racconta la storia di Lou Ford (Casey Affleck), vice-sceriffo di una piccola cittadina del Texas, all'apparenza inappuntabile, ma in realtà psicotico e assassino seriale di grande brutalità e freddezza. Intorno a lui una comunità piccolissima dominata da un magnate del petrolio, Chester Conway (Ned Beatty), e da una serie di personaggi che tratteggiano il profilo di un mondo sereno e pacifico solo in superficie.

Vittime della furia sadica di Lou sono due donne, una prostituta che si innamora di lui (Jessica Alba) e Amy, la brava ragazza che tutti si aspettano che egli sposi (Kate Hudson). Il film non ci risparmia certo sangue e violenza, in una deriva pulp-splatter che in certi momenti diventa difficile da sostenere.
Casey Affleck è straordinario nel ruolo di Lou, con la sua angelica faccia da bambino, la sua parlata quasi cantilenante, ma capace di trasmettere inquietudine in ogni gesto. Questo damerino con le sue camicie immacolate e il suo cappellone da sceriffo che tra un'esplosione di violenza e l'altra ascolta la lirica, legge Freud e la Bibbia e si prepara la moka per il caffè è di per se stesso disturbante.
Il senso di angoscia che il film ci comunica è amplificato da una raffigurazione della provincia americana degli anni Cinquanta che sembra uscire direttamente dai quadri di Edward Hopper (le cadillac, le capigliature cotonate, i vestiti attillati, le casette con il patio) e da una colonna sonora che ironicamente e leggiadramente contrappunta l'orrore che vediamo sullo schermo.

C'è del mestiere dunque in questo film, sebbene esso soffra poi di alcune debolezze di sceneggiatura che rendono certi passaggi narrativi piuttosto confusi e non ci consentono realmente di capire le motivazioni familiari (se ce ne sono) dietro la personalità patologica e disturbata di Lou. Anche i personaggi di contorno sembrano un po' sbucare fuori di volta in volta più o meno all'improvviso e scomparire sostanzialmente nello stesso modo, cosicché è Lou che regge la scena e tiene in piedi il film nel suo insieme. Alcune recensioni sui giornali inglesi e americani propongono un confronto comparativo con il libro dal quale il film è tratto, sottolineando che quest'ultimo si limita a riprodurne la violenza mostrandocela sullo schermo, perdendo però in parte il sottofondo psicologico che consente di dare una lettura morale a tutta questa violenza.

Ovviamente non sono in grado di dire se hanno ragione. Certo è che posso comprendere le polemiche suscitate dal film, in particolare sollevate dalle associazioni femministe per il modo in cui le donne sono ritratte e trattate.
D'altronde, non è forse la cosa in sé a risultare sgradevole (si deve tenere conto dell'epoca e del luogo di ambientazione), quanto la freddezza complessiva che emana dallo schermo e dallo sguardo di Casey Affleck e che ci impedisce di provare pietà per chicchessia, vittime e aggressore.
Forse, l'unico sentimento vero è l'istinto a fuggire, sperando che la violenza resti confinata sul piatto schermo di un cinema.

Voto: 3/5

P.S. Ho dovuto seguire l'intero film dai sottotitoli in francese. Un accento strettissimo da provincia americana rendeva impossibile la comprensione dell'inglese. Ma - vi dirò - nonostante tutto ho apprezzato quella cantilena che non capivo, ma che in qualche modo mi ha fatto meglio entrare nel mood che il film voleva trasmettere.

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