martedì 30 marzo 2010

Io sono l'amore

Devo ammetterlo. Sono andata a vedere il film non esattamente nelle condizioni fisiche migliori. Ero stanca. Stanca morta. E certo questo non deve aver aiutato la sintonia con un film non certo facile.

Devo aver letto che questo è il classico film che non può lasciare indifferenti. O lo si ama o lo si odia. Ebbene, sinceramente non l'ho amato, ma in realtà non l'ho neanche odiato.

Del film di Luca Guadagnino ho apprezzato moltissime cose. Certamente lo stile cinematografico un po' retrò, le citazioni di certa cinematografia anni Sessanta, le atmosfere quasi hitchcockiane, l'uso dei colori, del fuori fuoco, di certi contrasti volutamente un po' schematici. Bellissima la Milano gelida e sospesa nel tempo, in profondissimo rapporto polare con la collina ligure, a sua volta quasi un ritrovato giardino dell'Eden. Straordinaria la ricostruzione estetica ed emotiva di questa famiglia milanese dell'alta borghesia imprenditoriale (i Recchi), con i suoi riti, i suoi pranzi, il rapporto con il personale di servizio, gli arredi e, soprattutto, questa contrazione affettiva e relazionale che nega ed esclude. Notevole Tilda Swinton nei panni di Emma, la madre di famiglia, capace di esprimere una complessità di sentimenti, di pensieri, di emozioni, di decisioni, solo attraverso la sua fisicità e l'espressività del volto, visto che, rappresentando una donna di origine russa, parla un italiano essenziale e comunica con il figlio Edoardo (Flavio Parenti), in fondo il più simile a lei, in russo (non sottotitolato).

Dall'altro lato, ho trovato forse davvero eccessiva - a tratti quasi esasperante - la lentezza del film. E probabilmente non sono riuscita veramente a vibrare in sintonia emotiva con Emma, né con alcuno degli altri protagonisti, veramente troppo lontani da me, dal mio mondo, dalla mia sensibilità personale.

Personalmente, mi hanno sempre fatto un po' paura gli ambienti come quello disegnato da Guadagnino e dai suoi bravi sceneggiatori (onore al merito di Ivan Cotroneo, che riesce ad essere a suo agio con la commedia scoppiettante Mine vaganti e con il dramma di Io sono l'amore), e ancora di più le persone che - volenti o nolenti - sono cresciute in questi ambienti, perché sono degli scrigni incomprensibili e imprevedibili, la cui personalità castrata e la cui emotività mortificata possono manifestarsi nei momenti e nelle maniere più inedite.

Il film è disseminato di elementi di ambiguità visiva ed emotiva: gli abbracci tra Edoardo e Antonio (Edoardo Gabbriellini) appaiono quasi esasperati, l'aria spaurita di Betta (Alba Rohrwacher) alla ricerca di un sé più vero appare a volte spiazzante, l'insensibilità di Tancredi (il marito di Emma, interpretato da Pippo Delbono) è disturbante, l'egoismo liberatorio di Emma che insegue un sogno di primitività rappresentato da Antonio è decisamente naif.

Non so. Forse il mio è sostanzialmente un rifiuto, frutto di un'incomprensione, o forse meglio, la conseguenza di una speranza inconscia che tutto questo non esista effettivamente nella realtà.

O forse ha ragione Guadagnino: l'anima emotiva è un regalo perverso che la natura ci fa e il contesto socio-culturale ci affina o ci soffoca. Ed è difficile stabilire cosa è meglio.

Un'ultima annotazione: la scelta del titolo del film, Io sono l'amore, è a sua volta una citazione, dal film Philadelphia, che Emma sta guardando in televisione mentre è a letto; in particolare, la scena in cui Tom Hanks canta la famosa aria La mamma morta di Andrea Chénier, apice del pathos che caratterizza la parabola tragica del protagonista del film (qui la scena del film). In questa scena, appunto, Tom Hanks canta insieme a Maddalena/Maria Callas "Io sono l'amore". Ed è così ancora più significativo che l'arrivo di Tancredi a letto coincida con uno zapping che da La mamma morta porta indifferentemente e senza soluzione di continuità al Maurizio Costanzo Show e ad altri appiattiti varietà televisivi.

Voto: 3/5

venerdì 26 marzo 2010

The Notwist

Circolo degli artisti. Giovedì 25 marzo. Questa sera suonano The Notwist. Il concerto è sold out. E io che pensavo che non li conoscesse nessuno e invece mi ritrovo letteralmente circondata di studenti universitari, ma anche coppie più avanti negli anni, che cantano a squarciagola alcune delle loro canzoni, anche quelle meno famose.
Ovviamente, il tripudio arriva quando nel secondo bis richiesto dal pubblico intonano Consequence, e così tutti possiamo cantare con loro:

You're the colour,
you're the movement and the spin.
Never
Could it stay with me the whole day long
Fail with consequence, lose with eloquence
and smile.
I'm not in this movie
I'm not in this song.
Never
Leave me paralyzed, love.
Leave me hypnotized, love.

You're the colour,
you're the movement and the spin.
Never
Could it stay with me the whole day long
Fail with consequence, lose with eloquence
and smile.
You're not in this movie
You're not in this song.
Never

Leave me paralyzed, love.
Leave me hypnotized, love.
Leave me paralyzed, love.
Leave me hypnotized, love.


Qui però non mi soffermerò tanto sul contenuto musicale del concerto, ma sull'impressione complessiva che ne ho ricevuto. Avevo visto suonare qui al Circolo musicisti britannici e americani, sempre introdotti da una band o da un cantante apripista, sempre disponibili a chiacchierare con il pubblico, sorridenti a volte al di là delle aspettative, di solito di bell'aspetto e ben vestiti.

Così, inevitabilmente mi colpisce questo gruppo che evidentemente punta alla centralità assoluta della musica e considera tutto il resto semplicemente un orpello in fondo inutile. E in un certo senso - mi dico - si vede proprio che hanno un altro backgroung culturale e appartengono alla genìa dei solidi europei continentali.

E così niente band apripista e, con solo mezz'ora di ritardo sull'orario previsto di inizio del concerto, si parte con una performance musicale di circa un'ora e mezzo, senza praticamente interruzioni. Io sono abbastanza colpita da un po' di cose:
1. questi sei ragazzi sul palco non sono i soliti sbarbatelli che ormai invadono il panorama musicale internazionale;
2. oltre a non essere giovanissimi, non sono nemmeno particolarmente belli, né glamour: piuttosto essenziali e senza tanti fronzoli;
3. non fanno chiacchiere col pubblico, non cercano in questo modo di risultare simpatici e di ingraziarsi il loro favore, ma suonano e cantano a un livello di intensità straordinario;
4. la loro strumentazione, a parte alcuni particolari (i telecomandi della WII usati da uno dei componenti del gruppo non so esattamente a quale scopo - anzi chi lo sa è pregato di dirmelo), appare in qualche modo demodé, con le grandi casse anni Ottanta, la piccola console con i dischi in vinile e così via.

Insomma, oltre a trovare di grande qualità la loro musica, The Notwist mi sono risultati davvero simpatici, perché è uno dei pochi gruppi musicali che non si sforza di piacere ad ogni costo. E questo è certamente un merito.

Voto: 4/5

lunedì 22 marzo 2010

Shutter island

Sarà colpa della primavera appena cominciata, oppure dell'allergia che in questi giorni non mi dà tregua, ovvero di una domenica senza capo né coda, o del fatto di essere stata seduta in seconda fila, o ancora - e più semplicemente - dello stato catatonico che da circa una settimana mi caratterizza, ma sono uscita dalla visione del film di Martin Scorsese completamente stordita.

Se era questo che il regista voleva ottenere, ha perfettamente centrato il risultato, anche se nel mio caso è stato aiutato da una condizione di partenza piuttosto favorevole!

Partirei dalla fine, ossia dalla frase che l'agente federale Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio) dice come ultima battuta del film: "Meglio una vita da mostro o una morte da uomo perbene?". E per l'ultima volta ci scombina le carte in tavola e ci fa pensare che la realtà non è esattamente quella che sembra.

Il gioco della follia che Scorsese mette in scena è notevole e non v'è dubbio che riesca a mettere più volte alla prova i tentativi di razionalizzazione che la mente gli oppone. La verità e la realtà diventano concetti relativi in una mente scossa dal senso di colpa o dalla necessità di difendere se stessa, o forse lo sono a prescindere dalla sanità mentale di ciascuno.

L'atmosfera del film e la costruzione narrativa mi hanno ricordato un po' altri due film: Memento del grande Christopher Nolan e The sixth sense di Night Shyamalan (che purtroppo si è un po' perso negli ultimi film). Il primo perché - seppure in modo diverso - c'è un gioco con lo spettatore in cui si mettono continuamente in discussione le certezze apparentemente acquisite, il secondo perché si punta alla sorpresa finale senza farsi mancare nel frattempo un po' di splatter/horror.

Quello che manca, però, secondo me al film di Scorsese - e che invece i due succitati certamente possedevano - è la misura. Dal mio punto di vista, Shutter Island va troppo spesso sopra la righe, pretende troppo da se stesso, è troppo lungo e non riesce a mantenere l'inverosimile nei confini di una presumibile follia.

Gli attori sono bravi e, del resto, il cast è di tutto rispetto: non c'è solo Leonardo Di Caprio, ma anche l'eccellente Mark Ruffalo (ma quanto mi piace questo attore!), Ben Kingsley e Michelle Williams, tutti capaci di muoversi su una linea di ambiguità, molto difficile da svelare.

E così, alla fine, si esce certamente confusi e, in qualche maniera, disturbati dall'esperienza vissuta su questa davvero inospitale isola, però anche con la sensazione di aver assistito a quello che poteva essere un grande film e invece è un prodotto con troppi difetti per poter risultare davvero credibile.

Comunque, degna conclusione della mia sconclusionatissima domenica!

Voto: 3/5

mercoledì 17 marzo 2010

Chloe

Chloe è il remake del film francese Nathalie, che purtroppo non ho visto, ma che a questo punto potrei anche decidermi a recuperare.

Nonostante questo, capisco perfettamente cosa abbia spinto Atom Egoyan a interessarsi di questa trama. Il regista è infatti particolarmente a suo agio con le atmosfere torbide, le mezze verità e l'angoscia dell'incertezza, come altri suoi film - più o meno riusciti -, ad esempio Il viaggio di Felicia o False verità, dimostrano.

E così, trasferita la storia a Toronto, città che Egoyan conosce molto bene (visto che ci ha studiato) e affidati i ruoli principali a Julianne Moore (la moglie), a Liam Neeson (il marito) e ad Amanda Seyfried (quello di Chloe, la prostituta assoldata per sedurre il marito e farsi raccontare i dettagli degli incontri amorosi), il regista di origine armena mette in scena questo thriller psicologico, in cui la cosa più importante non è svelare l'inganno (che volendo si capisce piuttosto presto), ma seguire dall'interno la parabola psicologica di Catherine (Julianne Moore).

Mezza età, apparentemente glaciale (e lo si mette in chiaro quasi subito quando lei, ginecologa, dice a una sua paziente che un orgasmo è solo una contrazione muscolare, e dunque in esso non c'è niente di magico o misterioso), profondamente insicura di sé e delle sue relazioni (si sente poco desiderata dal marito e ormai rifiutata dal giovane figlio), dunque estremamente vulnerabile, vittima predestinata di una seduzione manipolatrice come è quella che Chloe mette in atto.

Dall'altro lato, Chloe appunto, giovanissima, bellissima, prostituta d'alto bordo, cerca nei rapporti con i suoi clienti qualcosa di bello da trattenere per sé, ma è fondamentalmente chiusa nel suo bozzolo in cui sentimenti e amore sono praticamente assenti.

Intorno a questi due personaggi si costruirà il gioco perverso della seduzione, rispetto al quale tutti gli altri restano figure piuttosto sfocate e inconsistenti. Assistiamo così all'innestarsi del bisogno morboso di "possesso" di Chloe nelle pieghe dell'insicurezza di Catherine, vorremmo gridarle "Lascia perdere, ti succhierà il sangue e ti distruggerà l'esistenza", ma lei prosegue dritta giù lungo la china...

Si accorgerà troppo tardi della spirale in cui è finita, arrivando a mettere in gioco e in pericolo se stessa e la sua vita. Ma fino a che punto la vittima è realmente tale e non invece complice in fondo consapevole? E fino a che punto la carnefice Chloe non è invece a sua volta vittima, irrimediabilmente catturata dal fascino di Catherine e realmente innamorata di lei?

Nella serenità della nostra poltrona e dall'alto della nostra razionalità e del nostro punto di vista esterno pensiamo che tutto ciò è assurdo e che nella vita reale non potrebbe accadere, tanto meno a noi, ma quando usciamo dal cinema un dubbio sottile ci è rimasto in fondo al cuore. Siamo proprio così sicuri di noi stessi?

P.S. Che meraviglia vederlo in lingua originale...

Voto: 3,5/5

lunedì 15 marzo 2010

Mine vaganti

No, no, no... non si può ambientare un film tra Lecce e il Salento e far parlare la maggior parte dei personaggi con l'accento barese. E vabbè che per chiunque al di fuori della Puglia un accento 'strampalato' vale l'altro e, a quel punto, per un regista meglio usarne uno che è in qualche modo più orecchiato e conosciuto, però da pugliese e barese nell'animo faccio un po' fatica a mandarlo giù, perché linguisticamente stiamo parlando di due mondi veramente lontani.

Comunque, a parte questo, con Mine vaganti Ozpetek fa sicuramente centro.

Ci sono tutti i temi a lui cari e tutti i suoi marchi di fabbrica: l'omosessualità, l'ingombrante famiglia, i pregiudizi, la mescolanza tra canzoni degli anni '50 e '60 e melodie dalla sonorità orientale (sebbene questa volta non si affidi per le musiche ad Andrea Guerra, ma a Pasquale Catalano), l'universo femminile, le tavolate come momenti di verità, il cibo - e i dolci in particolare - come espressione del piacere della vita.

Questo potrà far pensare a chi ancora non l'ha visto che non c'è molto di nuovo da scoprire, ma non è così... Perché questa volta Ozpetek sa sorprenderci grazie alla leggerezza con cui affronta queste tematiche, virandole in forma di commedia (anche grazie al suo co-sceneggiatore Ivan Cotroneo) e riuscendo a strappare sorrisi e vere e proprie risate.

Ed effettivamente il trailer crea l'aspettativa di un film brillante e divertente, in cui il giovane Tommaso (Riccardo Scamarcio) torna a casa in Puglia da Roma per raccontare che è gay e che vuole fare lo scrittore e non ereditare il pastificio di famiglia. Ma le cose andranno in modo più imprevedibile di quanto si immagini.
Intorno a Tommaso ruota una serie di personaggi estremamente vividi: il padre Vincenzo (Ennio Fantastichini), la madre Stefania (Lunetta Savino), il fratello Antonio (Alessandro Preziosi), la sorella Elena (Bianca Nappi), la zia Luciana (Elena Sofia Ricci) e soprattutto la nonna (la bravissima Ilaria Occhini, interpretata da giovane da Carolina Crescentini). Entreranno poi in scena anche il compagno di Tommaso, Marco (Carmine Recano), e i suoi gayssimi amici, protagonisti - insieme alla zia Luciana - di alcune tra le scene più divertenti del film.

Eppure, vi dirò la verità, sarà perché l'ambientazione pugliese è per me sempre emotivamente impegnativa, sarà perché trovo piuttosto semplice far ridere attraverso una carrellata un po' macchiettistica come quella che ci viene in qualche misura proposta, ma alla fine mi è piaciuta di più l'altra faccia del film, quella più malinconica e pensosa, quella che forse più profondamente è incarnata dalle donne del film: la nonna che ha convissuto tutta la vita con una scelta di rinuncia che l'ha resa infelice, Alba (la bravissima Nicole Grimaudo), forse segretamente innamorata di Tommaso, ma certo indurita da una vita troppo difficile, la mamma Stefania, resa ambigua da un contesto complicato e in più costretta ad accettare un marito ottuso e fedifrago, la sorella Elena, apparentemente stupida e allineata, in realtà capace di comprendere le verità più profonde senza darlo a vedere, la zia Luciana, condannata a un comportamento borderline da un errore di gioventù.
Insomma, è vero che quello di Ozpetek è un mondo sostanzialmente maschile, ma in fondo sono spesso proprio le donne a dargli consistenza e spessore emotivo.

E poi che dire dell'analisi che il regista fa della famiglia, legame inscindibile e ineliminabile dalle nostre esistenze, ma spesso soffocante della propria natura e delle proprie aspirazioni, focolaio di tante paure e frustrazioni, eppure finale rifugio per tutti?

Certo, qualche predicozzo poteva risparmiarcelo, qualche stereotipo gay e meridionale pure, però alla fine Ozpetek sa toccarci il cuore. Ce ne fossero di registi come lui in questo nostro panorama italiano!

Voto: 4/5

domenica 7 marzo 2010

Il mio amico Eric

Sabato sera. Non ho voglia di bagni di folla, ma di una rilassante seratina in compagnia di me stessa. E così guardo sul Trovacinema cosa c'è in programmazione e scopro con gioia che danno Il mio amico Eric al Politecnico Fandango, cinema/associazione culturale, nato a Roma - insieme a un interessante bistrot - dall'amore per il cinema di Domenico Procacci.

E tra l'altro, ancora più felice, vedo che la proiezione sarà in lingua originale. Eh sì, perché comincio a non sopportare il fatto che in Italia tutto si debba doppiare e tutto si debba tradurre e credo che sarebbe rispettoso per il cinema - nonché di grande utilità per il nostro orecchio - andare a vedere i film in lingua originale. Per non parlare dello scempio nella traduzione dei titoli dei film; in fondo, anche in questo caso trovo la traduzione non del tutto azzeccata. Il titolo originale è, infatti, Looking for Eric e, visto che il protagonista è un depresso Eric (Steve Evets) che immagina di parlare con il suo mito calcistico, Eric Cantona (che interpreta se stesso), il titolo inglese rende di più l'idea che il protagonista Eric, attraverso l'immaginario Cantona, sta in realtà piuttosto cercando quel se stesso che ha perduto nelle pieghe della vita.

Nella bella saletta del Politecnico ci siamo solo io e due ragazze straniere, probabilmente anche loro alla ricerca di film non doppiati in italiano. Insomma, mi sembra un po' di stare nel salotto di casa, e anche gli estranei diventano familiari quando li senti ridere come te alle battute del film.

Certo, è un Ken Loach insolito quello de Il mio amico Eric, e la sua fidata spalla, lo sceneggiatore Paul Laverty, gli sta dietro in questa operazione un po' sui generis per il grande maestro del cinema inglese.

Il film inizia rispettando il consueto linguaggio cinematografico di Loach. Siamo nel bel mezzo della vita a pezzi di un inglese di mezza età, con la faccia segnata dal tempo e dai dolori, Eric appunto, che fa il postino e vive a casa con i due figliastri che la seconda moglie gli ha mollato. Capiamo che la sua vita è andata a rotoli da quando ha lasciato il suo primo e unico amore, la prima moglie Lily (Stephanie Bishop), da cui ha avuto una figlia, Sam, che ora ha una bambina piccola di nome Daisy.

La sua casa è un autentico porcile, dove c'è una televisione in ogni angolo, i figliastri adolescenti fanno il comodo che gli pare e non mancano di cacciarsi in guai seri. Insomma, scene di ordinaria disperazione da periferia inglese alla tipica maniera di Ken Loach.

Ma è da qui in poi che l'approccio cambia. Ci aspetteremmo che Eric cada nel baratro della disperazione senza via d'uscita e... invece..., tra una canna e un'altra, incontra - nella sua mente - Eric Cantona, che gli propina alcune delle sue famose massime (Nella vita ci sono sempre più possibilità di quante crediamo), gli suona la tromba, lo spinge a riscoprire la fiducia nei suoi amici e a credere di più in se stesso.

Ken Loach riesce a farci ridere di cuore: alcuni degli amici con cui Eric trascorre i pomeriggi al pub a vedere le partite, come ad esempio Meatballs, sono davvero spassosi e i dialoghi tra i due Eric ci strappano la risata, e non solo quella.

La critica - o il pubblico - storcono il naso? La favoletta in cui tutto è bene quel che finisce bene, il buonismo dei sentimenti, l'ottimismo della volontà appaiono poco adatti a Loach e lasciano perplessi chi ama il suo realismo duro e senza speranza?

Io lo capisco Loach... Se sei un regista, qualche volta, almeno al cinema, vorresti vedere andare le cose in modo diverso da come realmente vanno, vorresti veder trionfare i buoni sentimenti, vorresti lasciare aperto uno spiraglio alla speranza. Se sei un regista, puoi costruire - almeno sullo schermo - una realtà alternativa, un diverso finale.

E, per una volta, per favore, lasciateglielo fare...

Ok, non siamo ai livelli dei suoi primi film, come ad esempio Terra e libertà, o di alcuni film della maturità, per esempio My name is Joe (il mio preferito di Loach), dentro non c'è la passione politica e civile, la profonda critica sociale, ma solo il potere catartico della passione per il calcio, l'importanza dell'amicizia e la fiducia nella propria umanità. Forse è anche la vecchiaia, quella che a volte ci rende cinici e senza speranza, altre volte ci trasmette una tale disillusione da farci risultare serenamente in pace col mondo. Forse Loach è tutt'e due le cose.

E così, dopo averci dimostrato di saper fare anche i film d'amore (vedi, ad esempio, Un bacio appassionato), il regista inglese dimostra di avere tutte le carte in regola anche per la commedia sociale.
E mi manda a casa con il cuore sollevato, tanto da spingermi ad una tappa da Romoli a mangiare un bel cornetto caldo.

Voto: 3,5/5

sabato 6 marzo 2010

Imogen Heap (+ Back Ted N-Ted)

Roma, Circolo degli Artisti, 5 marzo 2010. Stasera è di scena Imogen Heap. Forse a molti il suo nome non dice granché, ma vi assicuro che alcune delle sue canzoni sono famosissime, per esempio Hide and seek (dall'album Speak for yourself), utilizzata in colonne sonore di film e serie televisive di grande successo, che Imogen ci canta da sola sul palco durante il richiestissimo rientro dopo la conclusione del concerto.

Imogen è fondamentalmente una musicista e una cantautrice, che, quasi per caso, ha pubblicato un disco (Details) in coppia con Guy Sigsworth, con il nome di Frou Frou. Difficile, tra l'altro, classificarla: come c'è scritto sulla sua pagina in Facebook, il suo genere si può definire (o forse non definire) "acoustic/ambient/alternative/does it matter?/electronic/folk/genre spongre/indie/no idea, clear?/rock/vocal/blaaaaa".

Personalmente, ho trovato particolarmente interessante innanzitutto l'allestimento di questo suo tour Ellipse (dal titolo del suo ultimo album), con il bellissimo albero stilizzato di legno che prendeva e dava luce al palco e ai musicisti e che in qualche modo aiutava il pubblico a immergersi in quella atmosfera un po' naturalistica e un po' new age che Imogen contribuisce a costruire con le sue canzoni.

In secondo luogo, ritengo straordinario che Imogen riesca a fare musica con qualunque tipo di oggetto, dai più sofisticati (computer collegati a strumenti musicali che riproducono e moltiplicano la voce) ai più semplici, un tubo di plastica, un portapepe, un carillon, delle campanelle, i cui suoni l'artista amplifica grazie a dei particolari microfoni che porta attaccati ai polsi.

Ancora, non mi aspettavo una persona così socievole, così simpatica e pronta a chiacchierare e a cantare insieme al pubblico. Mi ero fatta l'idea - poi chissà perché - di un'artista rarefatta e distante, che vive in un mondo tutto suo lontano da quello di noi comuni mortali. E invece Imogen ha mostrato forme di dolcezza e di cortesia che mi hanno sinceramente incantato.

Infine, ma certo non si tratta dell'aspetto meno importante, si deve riconoscere a Imogen il merito di circondarsi di artisti di grande valore, che certamente contribuiscono non poco a dare qualità e spessore alle sue performance. Mi è stato praticamente impossibile carpirne i nomi, a parte quello di Back Ted N-Ted, che ha anche aperto il concerto e di cui dirò qualcosa in più, ma è d'obbligo una parola di riconoscimento per la giovane musicista (pare si chiami Emma - grazie Giovanni!) che si alternava tra violino e percussioni e il serissimo, ma bravissimo, violista (li vedete nella foto qui a fianco, alla sinistra di Imogen; anzi se qualcuno ne conosce i nomi, vi prego di segnalarmeli!).

Infine, una nota per Back Ted N-Ted. È salito sul palco presentato dalla stessa Imogen, che ci dice di scegliere sempre con cura gli artisti che aprono i suoi concerti. Ed in effetti questo strano chitarrista, un ragazzotto dai capelli rossi, che con l'aiuto di un computer, riesce da solo a costruire complessi arrangiamenti on the fly, ha davvero conquistato il pubblico, facendo - credo - strage di cuori sia nella platea femminile che maschile.

L'energia che ha messo nella sua performance, il suo particolare modo di muoversi sul palco, l'alternarsi di melodie più intime ed altre più techno, la sua evidente timidezza accompagnata da una sincera sorpresa nel trovare un'affettuosa risposta del pubblico, lo hanno davvero battezzato beniamino della serata. Insomma, teniamo d'occhio Back Ted N-Ted perché magari ci riserverà delle sorprese...


Voto: 4/5

lunedì 1 marzo 2010

Genitori & figli: Agitare bene prima dell'uso

Diciamocelo: andare a vedere questo film per me è stato sostanzialmente un ripiego. Non dico che non l'avrei visto, ma certo ieri non ero uscita di casa per vederlo. E così, complice lo sciopero di diverse sale cinematografiche romane, alla fine mi sono ritrovata in una stracolma sala del Savoy a vedere Genitori & figli: Agitare bene prima dell'uso, di cui tra l'altro avevo sentito parlare la sera prima a Che tempo che fa dal regista Giovanni Veronesi e da una delle protagoniste, la mia adorata Lucianina Littizzetto.

Il film, come ha raccontato il regista, si ispira ai contenuti di una selezione di temi scritti da adolescenti in diverse scuole italiane sul rapporto genitori/figli. E infatti se un merito dobbiamo riconoscere a questo film è certamente la sua freschezza e la sua verità nel rappresentare queste dinamiche, senza scadere in dramma e senza pretendere di proporre modelli, soluzioni e ricette.

Il film strappa frequentemente la risata senza essere stupido, riesce ad essere leggero senza essere necessariamente superficiale. Il cast di attori è di prim'ordine, sebbene devo dire che i più convincenti siano alla fine proprio i ragazzi, la protagonista Nina (Chiara Passarelli), il suo filarino detto Ubaldolay (Vittorio Emanuele Propizio), Gigio (Andrea Fachinetti), il figlio del professore Michele Placido.

Alla fine, però, si ha l'impressione di aver assistito a una puntata di una fiction televisiva, potrebbe essere Un medico in famiglia, o I liceali, o qualunque altra cosa di questo genere. Ci scivola addosso senza lasciare il segno, senza darci nuove prospettive, senza scombinare le carte, senza costringerci a riflettere; non ci dice niente che non sapessimo già e indugia anche in un sostanziale buonismo per cui si esce dal cinema senza essere nemmeno particolarmente preoccupati, perché alla fine tutto in fondo si conclude per il meglio, anche se come dice Nina, in questo caso non conta tanto l'intelligenza, ma è solo questione di c**o.

Gli stessi attori, pur bravi, non tirano fuori approcci inediti e volti nascosti, sono loro, esattamente come li conosciamo, da Silvio Orlando a Margherita Buy a Piera degli Esposti. E Lucianina è al contempo un po' troppo sopra le righe e un po' troppo irregimentata per i suoi standard. Non c'è niente da fare, lei, bisogna lasciarla parlare a ruota libera, questa è la sua forza.

Alla fine, Giovanni Veronesi non solo non riesce a rinunciare al linguaggio e agli stereotipi della commedia all'italiana - e la cosa in sé non avrebbe nulla di male -, ma non riesce a sollevare la farsa, la battuta spiritosa, la colorita espressione romanesca in strumento di un discorso più articolato e approfondito.

Insomma, esco dal cinema, e mi viene un po' di tristezza, perché erano anni che non vedevo una sala così piena di gente e un pubblico così contento di aver visto un film, e penso che forse questo è l'unico livello di comunicazione che oggi sappiamo o vogliamo accogliere perché non ci va affatto di gestire emotivamente una maggiore drammaticità né di dover fare i conti con qualcosa che non sia lineare e rassicurante. Peccato che la vita non è una commedia all'italiana.
O forse sì?

Voto: 2,5/5