Ed eccomi alla ripartenza della stagione cinematografica dopo la pausa estiva. Ammetto che avevo qualche perplessità nell’andare a vedere questo film, ma l’esperienza positiva con i film precedenti di Leonardo Di Costanzo, L’intervallo prima e Ariaferma poi, mi convincono a provarci.
Alla fine Elisa non mi è piaciuto, e aggiungo purtroppo, perché mi dispiace sempre quando autori e registri che apprezzo fanno, secondo me, dei passi falsi.
Andiamo per ordine. Il film, ispirato a una storia vera, racconta la vicenda di Elisa Zanetti (Barbara Ronchi) che, dopo aver ucciso sua sorella, è detenuta in un carcere svizzero molto moderno, in cui le detenute si possono muovere liberamente nell’ampia area di pertinenza del carcere, vivono in piccole abitazioni e non in cella, lavorano nei servizi offerti dal carcere e condividono degli spazi comuni.
La vicenda prende le mosse dal momento in cui in questa struttura arriva un professore di criminologia (Roschdy Zem) che, nell’università interna al carcere, tiene una lezione sulla necessità di capire il meccanismo che muove i colpevoli e annuncia la possibilità per chi è detenuto di partecipare a una sua ricerca andando a degli incontri con lui.
Elisa, che sembra essere vittima di un’amnesia su quello che ha commesso, decide di partecipare a questi incontri, e a poco a poco, nel confronto con il professore, tutta la verità della sua storia viene a galla, mettendo la donna di fronte all’orrore che si porta dentro.
Il film di Di Costanzo, anche grazie al confronto con alcuni personaggi secondari, ma importanti, come quello interpretato da Valeria Golino, vuole indagare sul tema della colpa, concentrandosi sul punto di vista dei carnefici, ma anche sollevando la questione delle vittime, che in quanto tali non hanno voce, se non indirettamente. In un certo senso, il regista rimane sui temi a lui cari, ma ampliando il punto di vista e affrontando aspetti di ulteriore e maggiore complessità.
Sicuramente il film è ambizioso sul piano dei contenuti e della fattura – con quest’ambientazione svizzera, forse necessaria a fini di produzione, che fa sì che il film sia recitato in parte in francese (e in alcuni punti mi pare ridoppiato in italiano) – ma secondo me finisce per risultare un po' pretenzioso e non riesce davvero a stimolare riflessioni nuove sui temi che affronta. Personalmente ho trovato poco convincenti anche gli attori, eppure Barbara Ronchi e Roschdy Zem sono attori che ho apprezzato in diversi altri film.
Per me un vero peccato, anche se guardando altre recensioni mi rendo conto di essere decisamente in minoranza.
Ed eccoci alla nuova edizione del Rendez-vous, il festival del nuovo cinema francese che nasce dall’iniziativa dell’Ambasciata di Francia in Italia, è realizzato dall’Institut français Italia, co-organizzato con Unifrance, e ospitato da anni dal Cinema Nuovo Sacher. Peccato che quest’anno Nanni Moretti non possa essere presente, essendo purtroppo ricoverato in ospedale, ma in più occasioni alla presenza dei registi e degli attori manda un saluto telefonicamente.
Non so se in questa edizione del festival sia stata fatta una specifica scelta, o caso ha voluto che io abbia fatto praticamente una selezione a tema, ma tutti i film che ho visto ruotavano intorno al tema del rapporto genitori-figli, affrontando questa relazione nei contesti e nelle maniere più varie. Interessante anche che alcuni dei film in programma fossero ambientati in luoghi diversi dalla Francia, pur avendo protagonisti francesi, ma inseriti in contesti altri rispetto a quello di origine.
Il regista francese, particolarmente prolifico negli ultimi anni, prende spunto da un episodio della sua infanzia (o almeno questo ci riferisce il distributore italiano) per un racconto familiare che vira verso il noir.
Siamo in un paesino rurale della Borgogna: in una bella casa con un grande giardino abita Michelle (Hélène Vincent), una ex prostituta che trascorre le sue giornate dividendosi tra le funzioni religiose, la cura del giardino, la raccolta dei funghi e le chiacchiere con l’amica ed ex prostituta Marie-Claude (Josiane Balasko).
Michelle ha una figlia Valérie (Ludivine Sagnier, ospite al festival) che vive a Parigi con il figlioletto Lucas e si sta separando dal marito; Marie-Claude ha un figlio, Vincent (Pierre Lottin), che è appena uscito dal carcere.
Un’intossicazione da funghi di Valérie durante una visita dalla madre innesca una serie di eventi, non necessariamente concatenati in maniera causale, visto che Ozon sceglie di lasciare dei buchi nella narrazione per affidare allo spettatore il compito di riempirli secondo la propria sensibilità e punto di vista.
Dentro il film di Ozon – in cui non manca nemmeno l’elemento onirico – ci sono molte tematiche diverse, ma tutte ruotano intorno a due temi principali: le dinamiche tipiche delle piccole comunità rurali che accolgono e stigmatizzano al contempo, e la complessità delle relazioni familiari che spesso vanno al di là dei legami propriamente di sangue.
Come altri hanno fatto notare, alcune atmosfere e ambiguità del film di Ozon richiamano il recente L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie, anche nell’uso del registro noir e per l’attenzione alle dinamiche familiari in un contesto piccolo e rurale, ma ciascun regista ci mette del proprio e fa virare la narrazione nelle direzioni più congeniali alla propria sensibilità. Voto: 3/5
************************* Le royaume
Il regista Julienne Colonna, ospite al festival, decide di ambientare il suo film Le royaume in Corsica, una terra che è a suo modo estranea alla Francia per storia, tradizioni e lingua. Al centro del racconto, che si svolge a metà anni Novanta, il rapporto tra una figlia, Lesia (Ghjuvanna Benedetti) e suo padre, Pierre Paul (Saveriu Santucci). Nella classica estate del passaggio dall’infanzia all’età adulta, Lesia, che vive con gli zii, partecipa ai lavori in campagna, alla cura degli animali e alla caccia, mentre vive i suoi primi amori. Un giorno viene prelevata da casa degli zii e portata nel luogo dove suo padre è latitante, circondato dai suoi uomini. Da questo momento, Lesia si troverà da un lato a condividere del tempo con suo padre e ad avere la possibilità di conoscerlo e rafforzare il legame con lui, dall’altro a essere coinvolta nella brutale guerra di mafia che metterà l’uno contro l’altro i clan mafiosi dell’isola.
Il film di Colonna, pur mescolando generi diversi, riserva un’attenzione particolare alla componente intima del racconto, e dunque all’aspetto della relazione padre-figlia e anche alle dinamiche proprie del romanzo di formazione in cui Lesia è completamente immersa. Come ci dice il regista, il film prende spunto da una memoria individuale – una vacanza passata con suo padre in un camping in Corsica per poi scoprire che in quel momento il padre era latitante – per diventare una narrazione che va al di là dello spazio e del tempo.
Il film è molto ben scritto (come molti film francesi), ottimamente interpretato da attori non professionisti e corsi doc, e tiene alta la tensione fino all’ultima scena.
Voto: 3,5/5
************************* Hiver à Sokcho
A Sokcho, una piccola cittadina portuale della Corea del Sud, quasi al confine con la Corea del Nord, vive con la madre la giovane Soo-Ha (Bella Kim), franco-coreana, ma che non è mai stata in Europa e non ha mai conosciuto suo padre. Lavorando in una piccola pensione della città, la ragazza conosce un misterioso disegnatore di fumetti (Roschdy Zem) arrivato dalla Normandia in Corea alla ricerca di ispirazione per il suo lavoro. Questo incontro attiva nella ragazza una serie di sentimenti rimossi che la spingono da un lato a ricercare la verità su suo padre, dall’altro a rimettere in discussione le sue scelte di vita e le prospettive per il futuro. Anche in questo caso siamo di fronte alle dinamiche scatenate dall’assenza di un rapporto padre-figlia, che si riversano sull’interazione tra il fumettista, completamente concentrato su sé stesso e sui propri obiettivi, e la ragazza che deve a un certo punto lasciar andare il passato per guardare avanti.
Il film di Koya Kamura è ispirato all’omonimo romanzo di Elisa Shua Dusapin, a sua volta in parte autobiografico, ed è impreziosito da alcune sequenze animate realizzate da Agnès Patron. Dentro il film molti altri elementi: la difficoltà di essere meticci in una società come quella coreana, il rapporto con il proprio corpo, la dinamica tra città e provincia, la storia passata della Corea del Sud, il rapporto con l’Occidente e con la Corea del Nord. Non sono sicura che tutti questi elementi si amalgamino bene, ma certamente Hivér à Sokcho è un interessante occasione per gettare lo sguardo su un mondo che conosciamo poco o che conosciamo solo nelle sue manifestazioni più evidenti ed esportate.
Voto: 3/5
************************* Une part manquante = Ritrovarsi a Tokyo
Il festival del nuovo cinema francese si chiude con questo film di Guillaume Senez (presente in sala), che racconta ancora una volta la storia di un padre e di una figlia. In questo caso siamo in Giappone, dove Jay (Romain Duris) vive da molti anni e fa il tassista, sperando da ormai nove anni di poter incontrare la figlia Lily (Mei Cirne-Masuki) di cui dopo la separazione dalla moglie giapponese ha perso le tracce. Un giorno, inaspettatamente, sale sul suo taxi una ragazzina con le stampelle che Jay riconosce come sua figlia. Da qui in poi il suo tentativo di aprire un canale di dialogo con la figlia e creare le condizioni per un rapporto duraturo. Il film di Senez parla ancora di figli meticci, con genitori provenienti da mondi e culture differenti, ma soprattutto parla di una società giapponese che non prevede l’affido condiviso dei figli nel caso di divorzio dei genitori, con l’inevitabile innescarsi di guerre che spesso allontanano un genitore dal figlio fino alla maggiore età e trasformano la vita di queste persone in un incubo, con conseguenze sulla salute mentale e sulla situazione economica. Questa condizione può ovviamente riguardare anche genitori entrambi giapponesi, ma assume risvolti ancora più drammatici nel caso in cui uno dei genitori non sia giapponese, come nel caso di Jay. Tra l’altro, nel film il personaggio di Jessica (Judith Chemla) fa da specchio del protagonista, in quanto pur trovandosi nella stessa situazione rispetto al proprio figlio, non intende rassegnarsi in alcun modo alla situazione né assecondare i modi imposti dalla società giapponese, come Jay che invece è più giapponese dei giapponesi, eppure resta uno straniero emarginato e non integrato veramente.
Il film di Senez, magnificamente interpretato da Romain Duris che dimostra anche di saper parlare un perfetto giapponese, si focalizza sul rapporto tra padre e figlia, su quanto sia necessario per entrambi e impossibile da rimuovere forzatamente, ma parla anche dell’essere stranieri anche quando si accettano completamente le regole del paese che ci ospita e porta all’evidenza un tratto davvero disumano della società giapponese che personalmente non conoscevo. Anche grazie a una colonna sonora di grande impatto, il film riesce a far leva sulle emozioni dello spettatore, senza essere mai melodrammatico.
Bibliotecaria di professione, mescolo la passione per le biblioteche con mille altri interessi (cinema, musica, teatro, fotografia, letteratura, viaggi), cui cerco di dare spazio e sfogo in questo blog.
Per il nome di questo blog devo ringraziare le suggestioni del grande maestro Zygmunt Bauman e, in particolare, il suo libro "Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi", sebbene a me lo sciame inquieto suggerisce anche qualcos'altro di più personale.