Ed eccomi al film che ha suscitato scalpore e polemica al Festival del cinema di Venezia, dove per moltissimi avrebbe dovuto vincere il Leone d’oro al posto di quello di Jim Jarmusch; e qualcuno dice che anche all’interno della giuria ci sia stata molta conflittualità in proposito.
Per come la vedo io, i film si possono analizzare e valutare da due punti di vista: uno è quello più strettamente tecnico e cinematografico, l’altro è quello della forza narrativa e del significato. Secondo me, di solito accade che quando queste due cose sono entrambe riuscite e dialogano armonicamente tra di loro, siamo di fronte a un gran film, e – rare volte – a un capolavoro (parola ormai fortemente abusata).
Ci sono poi dei film che vengono realizzati in momenti storici particolari, nei quali il messaggio e la testimonianza del film assumono un significato prevalente, e in questi casi diventa difficile – soprattutto in questi tempi di polarizzazione spinta – esprimere un punto di vista più complessivo e che in parte prescinda dal significato del film. The voice of Hind Rajab si colloca esattamente in questa categoria.
Il film di Kaouther Ben Hania – che ha vinto comunque il Leone d’argento a Venezia – è un prodotto cinematografico che si colloca a metà strada tra un documentario e un film di finzione. Il film ricostruisce quanto avvenuto nella sala di controllo della Mezzaluna rossa (in pratica la Croce rossa palestinese) il 29 gennaio 2024, utilizzando le registrazioni originali degli audio. Prima arriva la telefonata di Liyan Hamada, una quindicenne di Gaza la quale è in macchina con la sua famiglia e la cugina di cinque anni Hind Rajab nel tentativo di spostarsi in un’altra zona della Striscia a seguito dell’ordine israeliano di evacuazione. L’auto subisce l’attacco di un carro armato israeliano che uccide Liyan dopo la prima telefonata; a quel punto è Hind Rajab a rimanere in contatto con gli operatori della Mezzaluna rossa per le successive tre ore, nel difficile tentativo – a causa dei vincoli e delle limitazioni imposti ai movimenti proprio da Israele e dalla conseguente, complessa burocrazia in cui si muovonp soggetti internazionali che operano nella zona - di far arrivare un’ambulanza in prossimità della macchina. Alla fine, sotto il fuoco dell’esercito israeliano non si salveranno né la bambina, né gli operatori dell’ambulanza nel frattempo arrivati sul luogo.
The voice of Hind Rajab, un po’ come il film No other land, è uno straziante documento storico, che rimane a testimonianza imperitura di quello che accade nella Striscia di Gaza, della disumanità e delle atrocità che vi avvengono quotidianamente da tempo, e non solo in questi ultimi mesi. È anche un film a suo modo equilibrato, che non cerca martiri ed eroi a tutti i costi, bensì è attento alla complessità dell’umano.
In questo senso, resta un film importante che tutti dovrebbero vedere, anche se – come già gli eventi hanno dimostrato – in un’epoca come la nostra, chi vuole interpretare questo film in maniera diversa e ricondurlo, in buona o in cattiva fede, alla propria visione del mondo, ci riesce in ogni caso.
Dall’altro punto di vista citato in principio di questa recensione, ossia quello strettamente cinematografico, non posso dire però che il film mi abbia colpito particolarmente. È un ottimo film, ben fatto e ben girato, che fa bene il suo lavoro, e che tiene molto ben in equilibrio documenti e finzione, ma in un modo che per me non è risultato del tutto sorprendente. Da questo punto di vista, avevo trovato No other land molto più dirompente, forse anche e proprio per la sua disomogeneità interna, per la varietà del ritmo e dell’approccio. Si tratta evidentemente di film completamente diversi, tra i quali non ha senso fare confronti. La mia è dunque in questo caso solo una preferenza cinematografica del tutto personale.
Voto: 3,5/5
sabato 4 ottobre 2025
mercoledì 1 ottobre 2025
Da Venezia a Roma. Parte 2: A house of dynamite; Father, mother, sister, brother; A pied d’oeuvre;
Per la prima parte delle recensioni vedi qui.
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A house of dynamite
Kathryn Bigelow mancava all’appuntamento con il cinema da diversi anni e, almeno per quanto mi riguarda, Detroit mi era passato praticamente inosservato, mentre avevo visto e apprezzato The hurt locker e Zero Dark Thirty.
Con A house of dynamite la regista statunitense torna alle atmosfere proprio di quei film, raccontando con grandissima perizia registica e appoggiandosi a una sceneggiatura di tutto rispetto, un inizio di giornata nel quale gli Stati Uniti si accorgono che un missile – forse nucleare – partito dal Pacifico sta sorvolando il territorio statunitense e la sua traiettoria punta su Chicago.
Il pochissimo tempo che passa tra i minuti prima di questa scoperta e la durata del volo del missile è raccontato più volte, in una struttura narrativa ciclica e ricorsiva, dal punto di vista di diversi protagonisti che ruotano intorno alla Casa Bianca e agli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.
Il ritmo è adrenalinico, sia nel tentativo di abbattere il missile mediante altri missili inviati da terra, sia nel processo decisionale che si muove intorno a questo evento e che coinvolge numerose persone, ma che alla fine converge su colui a cui spetta l’ultima parola, il Presidente, investito della scelta di contrattaccare senza avere la certezza che effettivamente l’evento sia un attacco né chi lo stia sferrando, o di attendere esponendosi all’opinione pubblica e alle conseguenze a livello globale dopo il disastro dell’impatto.
Non è la fine della storia che interessa alla Bigelow, ma – come le poche scritte all’inizio del film ci ricordano – la situazione di incertezza mondiale in cui il mondo intero è ricaduto quando la scelta di abbandonare i programmi atomici per un mondo più sicuro è stata messa da parte e il mondo è tornato a essere una “casa piena di dinamite”, pronta a esplodere in qualunque momento e non necessariamente per ragioni sensate.
Si esce col fiato corto dal film della Bigelow, con la testa piena di domande e il cuore pieno di paure, soprattutto perché sappiamo che in questo momento in molte parti del mondo molti dei leader che devono prendere le decisioni di fronte a situazioni di potenziale pericolo sono persone irresponsabili e prive di quella statura umana e morale che, tanto più in un momento delicato come questo, sarebbe necessaria.
Un film intrinsecamente e profondamente americano, che non piacerà a chi non ama questo stile, ma che dal mio punto di vista coglie nel segno, anche nella scelta del linguaggio.
Voto: 3,5/5
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Father, mother, sister, brother
Tre luoghi: il New Jersey, Dublino e Parigi. Tre famiglie: due figli (Adam Driver e Mayim Bialik) che vanno a trovare il padre (Tom Waits) il quale abita in una casa isolata che si affaccia su un laghetto tra i boschi; due figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps) che si ritrovano una volta all’anno per il te pomeridiano alla casa della madre (Charlotte Rampling); una sorella e un fratello gemelli (Indya Moore e Luka Sabbat) che, dopo la morte dei genitori, tornano insieme nella casa che avevano abitato insieme a loro e che nel frattempo è stata svuotata.
L’ultimo film di Jim Jarmusch, che ha vinto il Leone d’oro all’ultimo festival del cinema di Venezia, è strutturato dunque in tre episodi, in cui ci sono alcuni elementi che ricorrono (uno su tutti, la presenza di skaters che a un certo punto attraversano le strade percorse dai protagonisti, ma anche i brindisi con l’acqua, i colori degli abiti e altri dettagli), ma che sono narrativamente indipendenti l’uno dall’altro, sebbene con un tema di fondo comune: la famiglia, o – per essere più precisi – la negazione del luogo comune che i tuoi familiari sono quelli che ti conoscono meglio di tutti.
Perché la verità – sembra dirci Jarmusch, e io sono d’accordo con lui – è che in nessun contesto più che nella famiglia i rapporti tra le persone sono falsati dalle aspettative, dal pregiudizio, dall’immagine che ciascuno si è costruito dell’altro e che è difficile smontare senza mettere in discussione equilibri già fragili.
E tutto questo Jarmusch ce lo racconta con pennellate leggere, com’è nel suo stile, attraverso dialoghi il cui obiettivo non è quello di farci conoscere i dettagli, di spiegare, bensì solo di farci intuire, pensare, sorridere, sviluppare una forma di empatia.
Un film in sordina, dunque, che non so se è all’altezza del Leone d’oro, ma che merita di essere visto.
Voto: 3,5/5
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A pied d’oeuvre
Tratto dall’omonimo romanzo di Franck Courtès, il nuovo film di Valérie Donzelli, regista francese che ha già molti film all’attivo anche se personalmente non ne ho visti tanti, racconta la storia di Paul (il bravissimo Bastien Bouillon), ex fotografo di successo, con ex moglie e due figli, che ha deciso di abbandonare la professione di fotografo per fare lo scrittore e ha già pubblicato alcuni libri.
Pur ben accolti dalla critica, i libri però non gli garantiscono un introito sufficiente per una vita dignitosa; così Paul si iscrive su una piattaforma in cui domanda di lavoro e offerta si incontrano sul principio di chi offre di meno per svolgere il medesimo compito.
Paul si ritrova così a fare tanti lavoretti (smontare un soppalco, fare giardinaggio, svuotare una cantina, accompagnare in macchina qualcuno all’aeroporto), spesso faticosi fisicamente, ma che comunque non gli danno il sostentamento sufficiente e lo conducono sulla china della povertà, circondato da parenti e amici che non capiscono le sue scelte e non le condividono.
Nonostante tutto, e forse dopo aver toccato il fondo, riuscirà a scrivere un nuovo romanzo, A pied d’oeuvre appunto, che lo riporterà alla ribalta, ma nella consapevolezza ormai acquisita che nel mondo odierno non si vive di scrittura e forse non si vive nemmeno dei lavoretti che la società postcapitalista lascia cadere come briciole dalla sua tavola a vantaggio di un branco di cani affamati.
C’è una componente parzialmente consolatoria nella parte finale del film, che è quella che mi ha fatto scendere anche una lacrimuccia ma che forse ho anche trovato la parte meno appropriata.
Nondimeno il film di Valérie Donzelli (e il libro da cui è tratto) affronta con precisione e grazia il tema del lavoro nella società contemporanea, le storture di un sistema in cui – come dice il protagonista – il padrone non deve più preoccuparsi degli operai, perché ci sono molti altri meccanismi, ben più anonimi, che tengono questi ultimi in posizione di minorità e inferiorità. E così, il lavoro creativo torna a essere un lusso che, come in altre epoche storiche, solo pochissimi possono permettersi, a meno di non essere disponibili a un calvario come quello del protagonista di questo film.
Bravi i francesi che sanno ancora raccontare la nostra società in questo modo così brillante e chirurgico al contempo.
Voto: 3,5/5
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No other choice
Non sono una cultrice di Park Chan-Wook fin dalle origini, e ho perso alcuni dei suoi capolavori, quelli che hanno segnato un’epoca e l’inizio di un vero e proprio genere.
Da quando, dunque, lo seguo, mi sono trovata di fronte a versioni del suo cinema molto diverse le une dalle altre, da Mademoiselle a Decision to leave (quest’ultimo per me molto bello), e ora a questo No other choice, con cui si torna ai canoni del suo cinema più proprio.
Man-su (Byung-Hun Lee), il protagonista di questo racconto, ha una bella casa (la sua d’infanzia che ha riacquistato e ristrutturato), una moglie bella e fedele, un figliastro adolescente, una figlia più piccola con un talento per il violoncello, due labrador, e soprattutto un lavoro di caporeparto in un’azienda che produce carta, lavoro che ama molto e in cui ha raggiunto livelli di specializzazione elevati.
Tutto questo crolla in un sol colpo quando Man-su viene licenziato e la ricerca di un nuovo lavoro che possa valorizzare la sua specializzazione si rivela ben più difficile di quello che immagina.
Di fronte al rischio di vendere la casa e di perdere i suoi affetti, Man-su decide di giocarsi il tutto per tutto, eliminando a uno a uno i suoi più diretti concorrenti nella competizione per il nuovo lavoro.
No other choice è tratto dal libro The ax di Donald E. Westlake del 1997, quindi un romanzo che – soprattutto in riferimento al mondo del lavoro che è quello su cui si focalizza – si potrebbe considerare ormai datato e che però Park Chan-Wook riesce a mantenere in bilico tra temi universali e senza tempo e affondi nel presente della società sudcoreana e più in generale del mondo occidentale.
Ovviamente lo fa a suo modo, scegliendo il linguaggio del grottesco, del pulp, dell’ironia, del nonsense, dell’accumulazione, il che produce un film a tratti strabordante, che ci rimanda indietro un mondo che in parte ci appare un po’ estraneo, ma che per altri versi ci restituisce – sebbene esasperati – i tratti della nostra realtà e della nostra contemporaneità.
Non esattamente il mio genere di film, ma un film che non passa e non passerà inosservato.
Voto: 3,5/5
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Kathryn Bigelow mancava all’appuntamento con il cinema da diversi anni e, almeno per quanto mi riguarda, Detroit mi era passato praticamente inosservato, mentre avevo visto e apprezzato The hurt locker e Zero Dark Thirty.
Con A house of dynamite la regista statunitense torna alle atmosfere proprio di quei film, raccontando con grandissima perizia registica e appoggiandosi a una sceneggiatura di tutto rispetto, un inizio di giornata nel quale gli Stati Uniti si accorgono che un missile – forse nucleare – partito dal Pacifico sta sorvolando il territorio statunitense e la sua traiettoria punta su Chicago.
Il pochissimo tempo che passa tra i minuti prima di questa scoperta e la durata del volo del missile è raccontato più volte, in una struttura narrativa ciclica e ricorsiva, dal punto di vista di diversi protagonisti che ruotano intorno alla Casa Bianca e agli apparati di sicurezza degli Stati Uniti.
Il ritmo è adrenalinico, sia nel tentativo di abbattere il missile mediante altri missili inviati da terra, sia nel processo decisionale che si muove intorno a questo evento e che coinvolge numerose persone, ma che alla fine converge su colui a cui spetta l’ultima parola, il Presidente, investito della scelta di contrattaccare senza avere la certezza che effettivamente l’evento sia un attacco né chi lo stia sferrando, o di attendere esponendosi all’opinione pubblica e alle conseguenze a livello globale dopo il disastro dell’impatto.
Non è la fine della storia che interessa alla Bigelow, ma – come le poche scritte all’inizio del film ci ricordano – la situazione di incertezza mondiale in cui il mondo intero è ricaduto quando la scelta di abbandonare i programmi atomici per un mondo più sicuro è stata messa da parte e il mondo è tornato a essere una “casa piena di dinamite”, pronta a esplodere in qualunque momento e non necessariamente per ragioni sensate.
Si esce col fiato corto dal film della Bigelow, con la testa piena di domande e il cuore pieno di paure, soprattutto perché sappiamo che in questo momento in molte parti del mondo molti dei leader che devono prendere le decisioni di fronte a situazioni di potenziale pericolo sono persone irresponsabili e prive di quella statura umana e morale che, tanto più in un momento delicato come questo, sarebbe necessaria.
Un film intrinsecamente e profondamente americano, che non piacerà a chi non ama questo stile, ma che dal mio punto di vista coglie nel segno, anche nella scelta del linguaggio.
Voto: 3,5/5
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Tre luoghi: il New Jersey, Dublino e Parigi. Tre famiglie: due figli (Adam Driver e Mayim Bialik) che vanno a trovare il padre (Tom Waits) il quale abita in una casa isolata che si affaccia su un laghetto tra i boschi; due figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps) che si ritrovano una volta all’anno per il te pomeridiano alla casa della madre (Charlotte Rampling); una sorella e un fratello gemelli (Indya Moore e Luka Sabbat) che, dopo la morte dei genitori, tornano insieme nella casa che avevano abitato insieme a loro e che nel frattempo è stata svuotata.
L’ultimo film di Jim Jarmusch, che ha vinto il Leone d’oro all’ultimo festival del cinema di Venezia, è strutturato dunque in tre episodi, in cui ci sono alcuni elementi che ricorrono (uno su tutti, la presenza di skaters che a un certo punto attraversano le strade percorse dai protagonisti, ma anche i brindisi con l’acqua, i colori degli abiti e altri dettagli), ma che sono narrativamente indipendenti l’uno dall’altro, sebbene con un tema di fondo comune: la famiglia, o – per essere più precisi – la negazione del luogo comune che i tuoi familiari sono quelli che ti conoscono meglio di tutti.
Perché la verità – sembra dirci Jarmusch, e io sono d’accordo con lui – è che in nessun contesto più che nella famiglia i rapporti tra le persone sono falsati dalle aspettative, dal pregiudizio, dall’immagine che ciascuno si è costruito dell’altro e che è difficile smontare senza mettere in discussione equilibri già fragili.
E tutto questo Jarmusch ce lo racconta con pennellate leggere, com’è nel suo stile, attraverso dialoghi il cui obiettivo non è quello di farci conoscere i dettagli, di spiegare, bensì solo di farci intuire, pensare, sorridere, sviluppare una forma di empatia.
Un film in sordina, dunque, che non so se è all’altezza del Leone d’oro, ma che merita di essere visto.
Voto: 3,5/5
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Tratto dall’omonimo romanzo di Franck Courtès, il nuovo film di Valérie Donzelli, regista francese che ha già molti film all’attivo anche se personalmente non ne ho visti tanti, racconta la storia di Paul (il bravissimo Bastien Bouillon), ex fotografo di successo, con ex moglie e due figli, che ha deciso di abbandonare la professione di fotografo per fare lo scrittore e ha già pubblicato alcuni libri.
Pur ben accolti dalla critica, i libri però non gli garantiscono un introito sufficiente per una vita dignitosa; così Paul si iscrive su una piattaforma in cui domanda di lavoro e offerta si incontrano sul principio di chi offre di meno per svolgere il medesimo compito.
Paul si ritrova così a fare tanti lavoretti (smontare un soppalco, fare giardinaggio, svuotare una cantina, accompagnare in macchina qualcuno all’aeroporto), spesso faticosi fisicamente, ma che comunque non gli danno il sostentamento sufficiente e lo conducono sulla china della povertà, circondato da parenti e amici che non capiscono le sue scelte e non le condividono.
Nonostante tutto, e forse dopo aver toccato il fondo, riuscirà a scrivere un nuovo romanzo, A pied d’oeuvre appunto, che lo riporterà alla ribalta, ma nella consapevolezza ormai acquisita che nel mondo odierno non si vive di scrittura e forse non si vive nemmeno dei lavoretti che la società postcapitalista lascia cadere come briciole dalla sua tavola a vantaggio di un branco di cani affamati.
C’è una componente parzialmente consolatoria nella parte finale del film, che è quella che mi ha fatto scendere anche una lacrimuccia ma che forse ho anche trovato la parte meno appropriata.
Nondimeno il film di Valérie Donzelli (e il libro da cui è tratto) affronta con precisione e grazia il tema del lavoro nella società contemporanea, le storture di un sistema in cui – come dice il protagonista – il padrone non deve più preoccuparsi degli operai, perché ci sono molti altri meccanismi, ben più anonimi, che tengono questi ultimi in posizione di minorità e inferiorità. E così, il lavoro creativo torna a essere un lusso che, come in altre epoche storiche, solo pochissimi possono permettersi, a meno di non essere disponibili a un calvario come quello del protagonista di questo film.
Bravi i francesi che sanno ancora raccontare la nostra società in questo modo così brillante e chirurgico al contempo.
Voto: 3,5/5
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Non sono una cultrice di Park Chan-Wook fin dalle origini, e ho perso alcuni dei suoi capolavori, quelli che hanno segnato un’epoca e l’inizio di un vero e proprio genere.
Da quando, dunque, lo seguo, mi sono trovata di fronte a versioni del suo cinema molto diverse le une dalle altre, da Mademoiselle a Decision to leave (quest’ultimo per me molto bello), e ora a questo No other choice, con cui si torna ai canoni del suo cinema più proprio.
Man-su (Byung-Hun Lee), il protagonista di questo racconto, ha una bella casa (la sua d’infanzia che ha riacquistato e ristrutturato), una moglie bella e fedele, un figliastro adolescente, una figlia più piccola con un talento per il violoncello, due labrador, e soprattutto un lavoro di caporeparto in un’azienda che produce carta, lavoro che ama molto e in cui ha raggiunto livelli di specializzazione elevati.
Tutto questo crolla in un sol colpo quando Man-su viene licenziato e la ricerca di un nuovo lavoro che possa valorizzare la sua specializzazione si rivela ben più difficile di quello che immagina.
Di fronte al rischio di vendere la casa e di perdere i suoi affetti, Man-su decide di giocarsi il tutto per tutto, eliminando a uno a uno i suoi più diretti concorrenti nella competizione per il nuovo lavoro.
No other choice è tratto dal libro The ax di Donald E. Westlake del 1997, quindi un romanzo che – soprattutto in riferimento al mondo del lavoro che è quello su cui si focalizza – si potrebbe considerare ormai datato e che però Park Chan-Wook riesce a mantenere in bilico tra temi universali e senza tempo e affondi nel presente della società sudcoreana e più in generale del mondo occidentale.
Ovviamente lo fa a suo modo, scegliendo il linguaggio del grottesco, del pulp, dell’ironia, del nonsense, dell’accumulazione, il che produce un film a tratti strabordante, che ci rimanda indietro un mondo che in parte ci appare un po’ estraneo, ma che per altri versi ci restituisce – sebbene esasperati – i tratti della nostra realtà e della nostra contemporaneità.
Non esattamente il mio genere di film, ma un film che non passa e non passerà inosservato.
Voto: 3,5/5
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