lunedì 23 gennaio 2023

Aftersun

Siamo negli anni Novanta. Sophie (Frankie Corio) ha 11 anni e sta partendo per una vacanza con il padre Calum (Paul Mescal), che a sua volta ne sta per compiere 30. I due trascorreranno questi giorni insieme in un resort low budget in una località di mare della Turchia, circondati quasi esclusivamente da turisti britannici. Molti momenti della loro vacanza saranno immortalati con una piccola videocamera digitale, quella che lascerà le tracce che - come scopriremo presto - la Sophie di oggi, trentenne anche lei e madre, cerca di ricombinare con i suoi ricordi a formare un quadro nel complesso coerente, ma inevitabilmente frammentario, i cui buchi vengono colmati dall’interpretazione dei fatti che solo il tempo offre ma che comunque non è necessariamente corretta ovvero completa.

Quello di Charlotte Wells, giovane regista scozzese al suo esordio nel lungometraggio con una storia dal sapore squisitamente autobiografico come Aftersun, è principalmente un film sulla memoria, la sua forza emotiva e la sua labilità, ma è anche un film su una bambina che si affaccia all'adolescenza e comincia a porsi domande da adulta, ma che non ha ancora tutti gli strumenti per comprendere la complessità del mondo circostante, a partire dallo stato di malessere che suo padre cerca in tutti i modi di tenere fuori dal rapporto con lei ma che inevitabilmente trapela di tanto in tanto.

Non conosciamo la storia pregressa di Sophie e Calum: ne scopriamo man mano alcuni dettagli, ma tante informazioni restano ignote, forse perché la regista non ha voluto o non ha potuto ricostruirle. Conoscendo le età dei due protagonisti sappiamo che Calum è diventato padre molto giovane (qualcuno durante la vacanza lo scambia per il fratello), e sappiamo che è separato dalla moglie e che Sophie vive prevalentemente con la madre. Calum all’inizio del film ha un braccio ingessato, ma non sappiamo perché, e man mano che la narrazione di questi giorni - che vogliono e devono essere spensierati - va avanti capiamo che Calum si porta dentro un qualche grande dolore, non meglio specificato. Lo vediamo spesso fare Tai Chi, ha con sé dei libri di meditazione, dice di non essersi sentito mai a suo agio nel suo luogo di origine e che presumibilmente non vi farà più ritorno, racconta alla figlia come al suo undicesimo compleanno nessuno dei genitori se ne fosse ricordato, e quando incita la figlia a raccontargli sempre tutto le dice sostanzialmente che lui la potrà sempre capire perché nella vita tutto ha provato. Alla fine di una giornata intensa, di fronte a Sophie che denuncia una strana malinconia appare fin troppo partecipe e cerca di cambiare immediatamente discorso.

A parte questi punti oscuri il rapporto tra padre e figlia è raccontato con una naturalezza e una immediatezza al contempo sorprendenti e commoventi. C’è intimità, tenerezza, ma anche quei piccoli momenti di frizione, di incomprensione e di disallineamento che tutti conosciamo come propri di una vacanza a due con un genitore, tanto più se si è dei pre-adolescenti in procinto di fare il salto dall’alveo familiare al mondo esterno.

Sicuramente questo è l’aspetto narrativo che la regista può raccontare con maggiori dettagli, anche se tutta quella vacanza – proprio perché filtrata attraverso la memoria a distanza di circa vent’anni e tanto più perché riletta alla luce di eventi successivi che non conosciamo del tutto, sebbene possiamo immaginare che quella sia stata l’ultima volta che Sophie ha incontrato suo padre – sembra immersa in una sostanza densa che sfoca le immagini e ne modifica i contorni. Non a caso moltissima parte delle immagini passa o attraverso lo schermo della videocamera oppure attraverso altri schermi (vetri, acqua, superfici riflettenti, buchi della serratura, porte semi-aperte ecc), dando in entrambi i casi il senso della parzialità di quel racconto: o perché resta fuori dal girato o perché reso incerto dalla memoria. E tutto quello che né il video né la memoria hanno potuto registrare è proiezione della protagonista adulta, che in un certo senso si rispecchia nel Calum di allora e infine – dentro le luci stroboscopiche di quella che sembra una discoteca (Calum amava ballare e le luci stroboscopiche sono anche simboliche rispetto a una memoria che illumina alcune cose e affonda nel buio altre) - lo accoglie e lo prende su di sé.

Un esordio coi controfiocchi. Da vedere.

Voto: 4/5



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