Dopo aver visto Viaggio a Tokyo sono rimasta letteralmente affascinata dal cinema di Ozu e mi sono di nuovo fiondata sul sito dell’iniziativa di Mymovies #iorestoacasa per capire se riuscivo a vedere qualcos’altro. Purtroppo la retrospettiva del grande regista giapponese era quasi finita, ma non mi sono lasciata sfuggire l’ultima occasione utile, ossia la proiezione di Tardo autunno, uno degli ultimi film del maestro (è del 1960 ed è un film a colori).
Tre amici si ritrovano insieme per commemorare la morte del comune amico Miwa; in questa occasione incontrano la vedova dell’amico, Akiko (Setsuko Hara, l’attrice già vista in Viaggio a Tokyo), e la figlia Ayako (Yoko Tsukasa), nonché il fratello di lui che viene dalla provincia, Shukichi, (Chishū Ryū, attore feticcio di Ozu, qui in un ruolo secondario).
Da questo incontro prenderà l’avvio una specie di commedia degli equivoci, che a tratti vira verso il drammatico (ma quel drammatico “senza drammi” che è tipico dei giapponesi), che vede i tre uomini decisi a trovare un marito per la giovane Ayako, anche se quest’ultima sembra poco propensa a sposarsi anche perché è molto legata alla madre che non vuole lasciare sola.
Resisi consapevoli di questo, i tre uomini capiscono che l’unico modo per far convolare a nozze Ayako è convincere anche Akiko a risposarsi, e alla fine il candidato ideale è proprio uno dei tre, l’unico vedovo. I tre, però, con il loro fare un po’ codardo e un po’ imbranato, determinano una serie di equivoci che causa il litigio tra Ayako e sua madre, quest’ultima ignara delle trame dei tre buontemponi e l’altra convinta che la madre stia tradendo la memoria del padre e le abbia mentito in merito alle sue intenzioni.
Alla fine tutto si risolverà per il meglio: Ayako troverà la sua strada insieme al giovane Goto, mentre Akiko scegliere di rimanere da sola e votare la sua vita alla memoria del marito.
Dal punto di vista stilistico, il film ha un impianto molto teatrale e le varie ambientazioni (l’ufficio di Mamiya, la casa di Ayako e Akiko, l’ufficio dove lavora Ayako, le trattorie dove si incontrano per mangiare e discutere) corrispondono a scene concluse, inframmezzate da riprese di ambienti di passaggio vuoti, quasi occasioni per tirare il respiro e riflettere tra un dialogo e l’altro. Come già avevo notato in Viaggio a Tokyo, Ozu anche in questo caso riprende le scene stando sempre ad altezza tatami e dunque all’altezza delle persone sedute, a creare una condizione immersiva, rispetto alla quale gli stacchi sui paesaggi, urbani e naturali, sono quasi dei cambi di scena.
Le inquadrature sono sempre fisse (o quasi fisse) all’interno delle diverse ambientazioni e sono costruite con un rigore e una pulizia estetica e formale davvero sorprendente, che si fa ampiamente apprezzare ancora oggi dopo 70 anni.
A livello di contenuti, si conferma il tema del confronto tra le generazioni e del passaggio di testimone tra coloro che sono gli eredi del passato e i giovani che premono il piede sull’acceleratore dell’occidentalizzazione e del futuro. Questo mix di antico e moderno, di orientale e occidentale, attraversa tutto il film, e forse è ancora oggi una caratteristica propria della cultura giapponese. La cosa secondo me interessante è che, anche in questo film, come in Viaggio a Tokyo, Ozu non giudica i suoi personaggi; magari li prende in giro un po’ bonariamente o ne mette in evidenza difetti e limiti, ma lo fa con una comprensione e un’empatia per l’umana condizione che non può che suscitare affetto. I giovani sono più disinibiti e non vogliono sottostare alle regole del passato, ma sono talvolta confusi e velleitari, mentre adulti e anziani sembrano apparentemente avere più chiare le priorità, ma dimostrano a loro volta di essere altrettanto confusi di fronte ai cambiamenti, che poi forse è la confusione di un paese in un’epoca di transizione e dello stesso regista in un’età delicata della sua vita.
Voto: 4/5
venerdì 17 aprile 2020
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