lunedì 27 febbraio 2017

Manchester by the sea

Lee Chandler (un intenso Casey Affleck, fresco vincitore dell'Oscar) fa il portiere e il tuttofare in un palazzo di Quincy, città nella quale vive in un seminterrato e trascorre le sue giornate tra il lavoro e una birra in totale solitudine. Un giorno riceve una telefonata dal suo paese di origine, Manchester by the sea: suo fratello Joe (Kyle Chandler) è morto e nel testamento gli ha affidato il ruolo di tutore per suo figlio sedicenne Patrick (Lucas Hedges).

Ciò significherà per Lee fare i conti con un dolore mai superato, quello che anni prima lo ha allontanato da sua moglie e lo ha spinto ad andare a vivere lontano dal suo paese e dalla sua famiglia.

La presenza di Patrick, nipote al quale Lee è legatissimo fin da quando questi era bambino, innesca in Lee un potente conflitto interiore e costituisce in qualche modo una sfida e un'opportunità, quella di ritornare alla vita soffocando il dolore indicibile che si porta dentro con l'amore per questo ragazzo pieno di vitalità e di energia.

Come per il protagonista di Moonlight, il dolore di Lee è sordo e compresso, totalmente privo di parole, e si esprime in una apatia e una tristezza assolute, totalmente incapaci di aprirsi agli altri e al mondo nelle sue possibilità. Un dolore che talvolta prorompe in scatti d'ira e di violenza verso se stesso e gli altri, frutto della consapevolezza della propria incapacità di farvi fronte.

Come ha detto la mia amica L., Manchester by the sea è un film "onesto", che ci sbatte in faccia, con una sincerità disarmante, la nostra impotenza rispetto a ciò che va al di là delle possibilità di comprensione e di accettazione della nostra mente e del nostro cuore. Un film che non cede ad alcun ideale "romantico" sulla forza dei sentimenti e sull'amore che vince tutto, perché semplicemente e tragicamente ci sono volte e situazioni in cui non ci resta che ammettere la sconfitta: "I can't beat it" come dice Lee a suo nipote per spiegargli che non ce l'ha fatta.

Nel suo film Kenneth Lonergan ci trascina in quel vicolo cieco di dolore in cui vive Lee, nel suo senso di colpa senza riscatto, nella sua condanna che non è solo e tanto del mondo circostante quanto autoinflitta come punizione suprema al fatto stesso di continuare a vivere.

Di fronte alla morte di Joe si confrontano così la parabola ascendente di Patrick, che pur attraverso il dolore vuole dare una nuova vita e un nuovo senso ai ricordi, e la parabola discendente di Lee, che al dolore ci resta aggrappato come unica salvezza da se stesso.

Non si può rimanere indifferenti di fronte a questo film che tocca corde profonde e nodi universali e non ha risposte facili, esattamente come la vita.

Se posso fare un appunto, ho trovato totalmente inadeguata la colonna sonora, banale e disomogenea al contempo. E forse tutto sommato meglio così, perché con una colonna sonora più riuscita questo sarebbe stato un film da cui non avremmo avuto alcuno scampo.

Voto: 3,5/5

venerdì 24 febbraio 2017

Moonlight

Moonlight è la luce della luna che illumina i momenti e i sogni più belli e più felici della vita di Chiron, un ragazzo nero che vive a Miami con una madre tossicodipendente e in buona parte assente.

Chiron bambino (Alex R. Hibbert), che tutti chiamano Little, è introverso e taciturno, facile oggetto del bullismo dei suoi compagni di scuola per il fatto di essere diverso, e finisce sotto l'ala protettrice di Juan (Mahershala Ali), uno spacciatore locale, e della sua compagna Teresa.

Chiron adolescente (Ashton Sanders) è un ragazzo alla ricerca della propria identità sessuale e di un affetto corrisposto, che cerca nel rapporto filiale con Teresa e nel rapporto amicale con il compagno Kevin (Jharrel Jerome), l'unico con il quale Chiron riuscirà ad avere un contatto intimo ma da cui verrà dolorosamente tradito in un mondo in cui vige la legge del più forte.

Chiron adulto (Trevante Rhodes), dopo essere stato in carcere, vive ad Atlanta ed è diventato uno spacciatore, pieno di muscoli, di catene d'oro e con i denti coperti di grillz dorati, ma dovrà fare i conti con le sue scelte di vita e il suo dolore irrisolto nell'incontro con sua madre anziana (ora in un centro di disintossicazione) e con il vecchio amico Kevin, il quale nel frattempo si è fatto una famiglia e fa il cuoco in un piccolo ristorante.

Non c'è niente di complicato e intellettualistico nella storia di Chiron. C'è il dolore soffocato e silenzioso di un uomo (e prima ancora di un bambino e di un ragazzo) per il quale non esiste un riscatto di sé e della propria vita compatibile con la società nella quale vive. Un bambino piccolo e indifeso, un ragazzo sensibile e di buoni sentimenti, costretto a trasformarsi in un uomo che deve indossare una vera e propria corazza (fatta di muscoli e di segni esterni di machismo) per nascondere la propria identità e sottrarsi alla violenza del mondo; ma che appena la dismette torna a essere un uomo che piange (di fronte a sua madre) e che ama (di fronte a Kevin).

Quella di Chiron è una storia di ordinaria sconfitta e di infinita pena che solo le onde del mare e il suo sciabordio alla luce della luna sono in grado di placare temporaneamente.

Voto: 3,5/5


mercoledì 22 febbraio 2017

Migliore / Mattia Torre. Teatro Ambra Jovinelli, 19 febbraio 2017

Con Migliore si chiude il bellissimo speciale dedicato quest'anno dal Teatro Ambra Jovinelli a Mattia Torre.

A differenza che per Qui e ora e 456, conoscevo già questo testo, che avevo letto nel volumetto In mezzo al mare, contenente cinque atti comici dell'autore. Dunque in parte sapevo cosa mi aspettava, eppure devo dire che lo spettacolo ha avuto comunque la capacità di sorprendermi positivamente.

In spettacoli come questo ci sono due centri che devono fondersi per realizzare la massima riuscita: il testo e l'attore. E in questo caso la magia si può dire perfettamente riuscita.

Iniziamo dal testo.

Migliore racconta la storia di Alfredo, un bravo ragazzo che lavora al servizio clienti di una grande azienda che offre servizi di alto profilo per clienti con elevate disponibilità finanziarie.

Alfredo è un perdente, uno sfigato: il suo posto di lavoro è a rischio, la figlia del capo lo tratta come uno schiavo, i suoi vicini lo sbeffeggiano, la figlia della signora delle pulizie non si dà neppure la pena di salutarlo e gli operatori del camion dell'immondizia suonano da anni al suo campanello per farsi aprire, anche se lui a quell'ora potrebbe dormire. I suoi unici "amici" sono i componenti - un po' presuntuosi e un po' sfigati - di un'associazione con un approccio un po' alternativo e un po' new age.

Fino a quando un giorno, nel tentativo di portare al secondo piano la signora in sedia a rotelle perché l'ascensore del palazzo è rotto, Alfredo scivola e la signora muore. Nella lunga causa che seguirà, grazie all'intervento di un avvocato senza scrupoli, Alfredo viene completamente scagionato da qualunque accusa e può tornare alla sua vita.

Dentro di lui però qualcosa ha fatto clic. Il nuovo Alfredo - che è scampato a quella che sulle prime avrebbe concepito come una giusta punizione - non è più disposto a subire, a comprendere, a essere generoso con gli altri. Nuovi comportamenti - meno remissivi - si affacciano al suo orizzonte, prima per caso, poi sempre più volontariamente perseguiti. E man mano il mondo prima così ostile, umiliante e aggressivo, diventa dominabile e l'attenzione verso di lui cresce insieme alla sua capacità di concentrarsi su se stesso e di manipolare gli altri.

Ancora una volta - come già avevo notato in Qui e ora e in 456 - il testo di Mattia Torre utilizza un registro comico e chiama ripetutamente il pubblico alla risata; però, ad ogni risata sentiamo crescere il sapore amaro che accompagna la trasformazione di Alfredo da sconfitto di buon cuore a vincente sicuro di sé, ma anche cinico e sprezzante.

Le esperienze della vita ci cambiano, ci fanno crescere, ci consentono di superare i nostri limiti; e però nella metafora di Mattia Torre è inevitabile chiedersi che cosa ci perdiamo per strada. L'Alfredo perdente lo compatiamo e ne comprendiamo il dramma che lo ha reso tale e di cui in qualche modo non ha colpa; al contempo ci è insopportabile nella sua incapacità di ribellarsi alle angherie. Ma l'Alfredo "migliore", se da un lato ci trascina in un liberatorio percorso di riscatto, dall'altro ci mette di fronte al significato perverso di ciò che nella nostra società significa essere "migliori" e ci costringe a domandarci perché i vincenti ci piacciono, anche quando sono senza scrupoli.

L'altro centro di questa commedia è Valerio Mastandrea, un Alfredo personificato, eccezionale, capace di rappresentarne tutte le sfumature e le anime, di interpretarne il percorso e la trasformazione, nonché di incarnare - con tante voci diverse - tutti i suoi interlocutori, che sembrano quasi provenire dall'interno del corpo di Alfredo, risuonare nelle sue orecchie, entità immateriali che acquistano corpo solo nelle reazioni del protagonista.

Un'ora di grande teatro, che poi è quello che ti fa alzare dalla poltrona con sentimenti confusi, perché sembra averti preso in giro facendoti ridere su qualcosa che in realtà non è per niente divertente.

Voto: 4/5

lunedì 20 febbraio 2017

Le nostre anime di notte / Kent Haruf

Le nostre anime di notte / Kent Haruf; trad. di Fabio Cremonesi. Milano: Enne Enne Editore, 2017.

Eccoci finalmente di nuovo a Holt, lì da qualche parte tra le case e le fattorie di un paesino americano in mezzo al nulla delle praterie. Ci era mancato questo mondo così lontano geograficamente e culturalmente, eppure così vicino emotivamente, al punto tale che quando ci torniamo sembra di essere tornati a casa, con tutto quel groviglio di sentimenti che ciò comporta.

Ci era mancata la scrittura sottotraccia, quasi sussurrata eppure incredibilmente diretta, di Kent Haruf, così come la totale mancanza di epicità del mondo che ci racconta, la delicatezza infinita delle sue piccole storie intrise di quel sapore agrodolce che è proprio della vita.

In Le nostre anime di notte Haruf ci racconta di Addie e Louis. Due anziani, che abitano non lontano l’una dall’altro, entrambi vedovi, entrambi soli e in fondo senza alcuna prospettiva nella vita se non quella di trascorrere serenamente gli anni che gli rimangono.

E invece un giorno Addie ha un guizzo inaspettato: va dal suo vicino di casa e gli propone di trascorrere le notti future insieme, per sentirsi meno soli, per parlare, per condividere i propri pensieri e un po’ di calore umano.

Comincia così un rapporto che sfugge a qualunque categorizzazione, e che non ha alcun interesse a essere definito, ma che inevitabilmente suscita le reazioni, in parte scandalizzate, in parte invidiose, degli abitanti del paese nonché delle rispettive famiglie.

Haruf ci racconta con i suoi tenui acquerelli un percorso di rinascita, di espansione, di speranza: l’inatteso che in qualunque momento nella vita può portarci fuori dai binari previsti. Ma quando ormai il cuore ha preso l’abbrivio, ci respinge indietro a fare i conti con tutto il resto.

Nella vita di Addie e Louis c’è una sorta di rassegnazione al fatto che le cose non vanno quasi mai come avremmo voluto, ma che questo non rappresenta una sconfitta, un fallimento, bensì il risultato di un processo di adattamento attraverso il quale ognuno di noi insegue il compromesso migliore possibile nelle diverse circostanze. Però c’è anche l’urgenza di un’incoscienza che a volte è l’unica cosa capace di regalarci prospettive nuove, anche se per un periodo limitato.

Bello anche il gioco metaletterario con cui Haruf fa parlare i suoi personaggi di quei romanzi ambientati nella cittadina di Holt e che qualcuno sta portando in scena, le cui storie appaiono a loro così improbabili. Forse a dirci che la vita di tutti in fondo potrebbe essere il soggetto di un romanzo, solo che noi in quanto protagonisti non ne siamo consapevoli, perché le nostre vite dall’interno ci appaiono ordinarie e banali.

E probabilmente è questo che Haruf in fondo vuole comunicarci. Che la vita – anche la più banale – è a suo modo straordinaria, perché ogni vita richiede un incredibile forza nell’essere vissuta attraverso le scelte che ci impone di fare e quella che altrettanto inevitabilmente ci richiede di accettare.

In definitiva, Le nostre anime di notte è un perfetto epilogo della trilogia della pianura e della vita di Haruf, forse meno equilibrato e meditato dei romanzi precedenti, ma certamente altrettanto sincero nella contraddittorietà dei sentimenti che rappresenta e suscita.

Voto: 3,5/5

sabato 18 febbraio 2017

Maremma!!!

Il titolo di questo post non è solo un'esclamazione di stupore che potrebbe anche diventare più colorita, bensì anche il luogo dove quest'anno ho trascorso una parte delle vacanze natalizie. Tutto comincia il 31 gennaio, quando andiamo a ritirare l'auto a noleggio e, anche questa volta, per qualche motivo che non ci è ben chiaro allo stesso prezzo ci viene data un'auto di categoria superiore, ossia una fichissima Golf diesel.

Partiamo così alla volta dell'Aurelia (strada che alla fine del viaggio avremo percorso in su e in giù non si sa quante volte!) e in poco più di due ore arriviamo al nostro agriturismo, San Giusto, per il quale non abbiamo trovato indicazioni e che ha solo un cartello pochissimo visibile davanti alla stradina da cui ci sia arriva (cosicché senza il navigatore mi sa che non ci saremmo arrivati!). Siamo tra Montiano e Magliano in Toscana, dove andiamo la sera stessa per un primo, ottimo e abbondante aperitivo con Morellino di Scansano alla Cantina di Cecco. La sera ci attende il cenone alla tavolata unica con tutti gli ospiti, cucinato dalla signora che gestisce l’agriturismo e che è una vera forza della natura.

Il primo giorno è dedicato a una passeggiata alla Feniglia, la riserva naturale che occupa uno dei rami della laguna di Orbetello. Durante questa lunga passeggiata gli episodi memorabili saranno l’incontro con i daini (ne vediamo uno tra gli alberi e pensiamo che sia finto, imbalsamato, poi ci accorgiamo che si muove e si sprecano espressioni di meraviglia, salvo accorgersi poi che il parco ne è pieno e che si avvicinano tranquillamente alle persone per mangiare) e le sabbie mobili in cui finisco io per fare una foto bellissima (!) alla laguna (e mi dovranno tirare fuori a forza). In serata facciamo un giro a Montemerano, un caratteristico paesino medievale dove ci concediamo il secondo aperitivo della vacanza in un posticino gestito da una famiglia italo-tedesca.

La sera ceniamo al ristorante da Aurora, dove più di tutto apprezziamo una crema di burrata con alici di antipasto e una carne che chiamano “peposa” e che non è uno stracotto, ma un filetto alla griglia ricoperto di pepe: buonissimo!

Il 2 gennaio prima di accompagnare S. a Grosseto a prendere l’autobus per tornare a casa, facciamo un giro al parco della Maremma, nella zona di Marina di Alberese. È pieno di cavalli e di mucche con le cornone, nonché di alte pale a vento, che in certi momenti sembra davvero di stare in Texas. Al mare c’è una facciona fatta di sabbia lungo la riva e tantissimi rami sulla sabbia, alcuni dei quali sono stati usati per fare dei piccoli ripari. Ma eccoci a Grosseto dove, dopo un rapido giro in centro e un’occhiata alla bella cattedrale, siamo in stazione per la partenza di S.

Nel pomeriggio ci dirigiamo verso Roccatederighi. Ci fermiamo qualche chilometro prima del paese e imbocchiamo il sentiero per il castello di Sassoforte. La giornata è un po’ coperta, ma il bosco è molto bello soprattutto quando qualche raggio di sole sfuggito alle nuvole lo illumina di una luce dorata. Non arriviamo alle rovine del castello perché dopo un po’ che camminiamo sono stanca e, prima che io cominci a dare i numeri, decidiamo di tornare indietro. A Roccatederighi arriviamo esattamente all’ora del tramonto cosicché possiamo ammirare il sole che cala dietro l’orizzonte tra le nuvole, sedute sullo sperone di roccia che sta in fondo al centro storico, proprio dietro la chiesa e dove si è raccolto un piccolo gruppo di persone che, come noi, è venuto ad ammirare lo spettacolo.

La serata si conclude a Massa Marittima, dove sono abbacinata dalla bellezza della cattedrale e del centro storico e sarò conquistata dalla cucina dell’osteria slow food La tana dei brilli, un posto piccolissimo dove però mangiamo davvero molto bene.

Il giorno seguente il cielo è coperto, ma noi siamo decise ad andare alle terme di Petriolo, dove ci sono delle vasche di acqua sulfurea libere vicino al fiume. Superando la resistenza a togliersi cappotto e vestiti, ci mettiamo a mollo e la sensazione è così piacevole che non vorremmo più uscire. Per me era la prima volta di un’esperienza di questo tipo e sono rimasta davvero estasiata!

Una volta rivestite e rifocillate ci dirigiamo verso l’Abbazia di San Galgano (quella di cui sono rimaste le mura ma non il tetto) e l’Eremo di Montesiepi (dove c’è la spada piantata nella roccia da San Galgano appunto). Un posto magico e bellissimo dove faccio tantissime foto e dove passeggiamo a lungo nonostante l’aria gelida.

All’ora del tramonto torniamo a Massa Marittima a vedere la cattedrale illuminata dalla luce del sole, poi – distrutte – torniamo a cena al nostro agriturismo, dove la cucina della signora non ci fa rimpiangere osterie slow food e ristoranti Michelin.

Ed eccoci purtroppo già al penultimo giorno di vacanza. Siamo decise a portare a casa un po’ di vino, ma la Fattoria di Magliano di cui abbiamo assaggiato un ottimo rosso è chiusa! Per fortuna che negli scorsi giorni avevamo già comprato un po’ di formaggi e salumi a Massa Marittima!

In questa giornata decidiamo di esplorare meglio la zona di Orbetello, innanzitutto l’oasi del Lago di Burano che nel tardo pomeriggio si accende di una luce speciale ed è popolata da tantissimi uccelli, poi la laguna di Orbetello passandoci in mezzo attraverso il paese di Orbetello, infine Porto Ercole e Capalbio, dove però non c’è praticamente nessuno (evidentemente posto gettonato solo d’estate).

La sera facciamo la nostra cena di pesce al ristorante Il cavaliere ad Orbetello scalo dove mangiamo tanto e bene spendendo il giusto e, al ritorno, i due carabinieri che ci fermano molto opportunamente ci lasciano andare senza farci l’alcol-test ;-)

L’ultimo giorno prima di partire riusciamo finalmente a fare scorta di vino a Magliano, dove un alimentari ha una buona selezione di vini locali (compresi quelli della Fattoria di Magliano), poi dopo aver fatto ancora su e giù per queste magnifiche colline dai colori sorprendenti salutiamo i nostri ospiti (non senza aver comprato dell’olio e delle marmellate) e ci dirigiamo verso casa.

Anche la vacanzina invernale di quest’anno è finita.