mercoledì 10 agosto 2011

Settanta acrilico trenta lana / Viola Di Grado

Settanta acrilico trenta lana / Viola Di Grado. Torino : E/O, 2011.

Con questo libro dichiaro terminata per questa estate la lettura di storie deprimenti!
Perché non si può certo dire che la lettura di Settanta acrilico trenta lana metta di buonumore o lasci margini ad una visione ottimistica della vita e della realtà (sebbene riconosca il ciclo di morte e rinascita).

Camelia vive a Leeds, posto che viene descritto come il concentrato dello squallore e della tristezza del mondo con i suoi lunghi inverni e le sue periferie grigie e degradate.
Qui condivide l'appartamento con la madre, chiusa nel mutismo più assoluto e nell'abbandono di sé dal momento della morte del padre, caduto in una voragine apertasi nella strada mentre era in macchina con la sua amante.

Camelia sfregia qualunque forma di bellezza la circondi (recide i petali dei fiori, taglia e rimaneggia vestiti trovati nei cassonetti) e traduce manuali per lavatrici dall'inglese all'italiano.

Un'unica passione si accenderà nella sua esistenza, quella per la lingua cinese con le sue chiavi e per Wen, il ragazzo che gliela insegna. Ma questo squarcio di speranza è destinato dolorosamente a richiudersi.

L'accostamento della giovanissima Viola Di Grado, vincitrice del Premio Campiello Opera Prima, ad Amélie Nothomb è azzeccato nella misura in cui ritroviamo nel suo libro uno sguardo cinico sul mondo e sui sentimenti, una vena dissacratoria che trova espressione soprattutto nella lingua della scrittrice, che - per qualche strana assonanza - mi ha ricordato lo stile di Chuck Palahniuk.

Non credo ci sia dubbio sul fatto che il linguaggio abbia un ruolo importante nella narrativa della Di Grado, visto che costituisce sia l'aspetto più originale del romanzo sia il tema intorno al quale ruota la storia.

Il risultato è rilevante se si considera che si tratta dell'esordio letterario di una ventitreenne, e questo spiega almeno in parte le recensioni entusiastiche che sono piovute da quasi tutta la stampa specializzata, sebbene l'opinione dei lettori parrebbe meno uniformemente positiva.

Personalmente, ne riconosco potenza narrativa e originalità (soprattutto rispetto al panorama italiano); al contempo, mi è parso eccessivo e alla fine in parte noioso nella ripetizione degli stilemi linguistici, delle metafore ardite e delle situazioni narrative. Capisco che l'eccesso è una precisa scelta della scrittrice che sembra voler sfuggire a tutti i costi alla banalità, ma mantenersi in bilico su quel filo sottile senza scadere nella vuota controfigura di se stessi è molto difficile.

Stiamo a vedere se Viola Di Grado ci riesce.

Voto: 3,5/5

martedì 9 agosto 2011

Il giorno in cui non ci incontrammo / Niklas Asker

Il giorno in cui non ci incontrammo / Niklas Asker. Roma: Elliot Edizioni, 2010.

Devo confessare di aver riletto e riguardato questa graphic novel un paio di volte, perché a una prima lettura non avevo capito molto della storia, confondevo i personaggi, i nomi e i volti. Insomma, mi ha fatto l'effetto "film giapponese", in cui non riconosco gli attori, sovrappongo i personaggi e quindi alla fine non riesco a seguire il plot narrativo.

A questo punto le ipotesi sono tre:
- la mia capacità di osservazione è inesistente, soprattutto quando è il dettaglio a determinare le differenze (del resto non ero granché con la Settimana enigmistica;
- l'obiettivo dell'autore è proprio quello di sovrapporre i personaggi, i sentimenti, le scelte di vita spiazzando il lettore;
- c'è effettivamente qualche leggerezza narrativa e qualche buco/errore di sceneggiatura che rende il tutto non proprio scorrevole.

O forse la spiegazione è la somma delle tre ipotesi appena fatte.

Il risultato è che mi è stato praticamente impossibile condividere con i personaggi il pathos che il momento in cui nella vita si è chiamati a scegliere, a prendere una direzione piuttosto che un'altra determina (il titolo originale è infatti Second thoughts).

La storia è solo apparentemente semplice. I protagonisti sono Jess, una scrittrice in cerca di ispirazione per un romanzo e in crisi con la sua compagna Chloe, e John (o Andrew???), fotografo freelance innamorato di Sofia ma determinato a lasciarla.

I due si incontrano fugacemente nell'aeroporto di Stansted, mentre Jess aspetta l'aereo da New York su cui ci dovrebbe essere Chloe e John aspetta di imbarcarsi sullo stesso aereo, alla fine cancellato.

In realtà le loro vite si intrecciano e sovrappongono inconsapevolmente molto più di quanto loro stessi non immaginino, per effetto della condivisione di luoghi, situazioni, emozioni e momenti, sebbene prenderanno infine direzioni completamente diverse.

Che dire? Mi è piaciuto molto lo stile di Asker: le tavole con le soggettive di Jess che mette lo smalto ai piedi o si prepara un thè, quelle che ricostruiscono il passato mediante una sequenze di scatti di Polaroid, le tavole che rappresentano gli sguardi quasi sovrapposti dei due protagonisti o la loro condivisione emotiva (ma inconsapevole) degli eventi, le tavole piene di inchiostro nero.

Alla fine però non sono riuscita ad apprezzare completamente l'insieme, perché in una graphic novel mi aspetto che disegni, storia e contenuti emotivi trovino un'armonia che qui ho fatto fatica a riconoscere.

Ciò detto, l'esperimento è interessante e non mi meraviglia che il lavoro di Asker abbia vinto il Kolla illustrations award in patria.

Voto: 3/5

giovedì 4 agosto 2011

Energia di digestione / Silvia Colangeli

Energia di digestione / Silvia Colangeli. Ancona: Italic, 2010.

Tutto avviene in 24 ore. O meglio nulla avviene in queste 24 ore.
Pensieri, sensazioni, ricordi, che portano alla luce la storia intera della protagonista: il rapporto con il padre venuto a mancare troppo presto, l’incapacità di comprensione con la madre, una storia finita senza un perché, le amiche e gli amici a cui a volte è difficile spiegare quello che si prova.

Una vita ordinaria, non meglio né peggio di tante altre, se non fosse che la protagonista ha trasferito nel rapporto col cibo la sua volontà di sottrazione, il desiderio di riempire un vuoto facendosi essa stessa assenza.

Non si tratta però di una storia di anoressia in senso stretto.
Piuttosto potremmo dire che si tratta della storia di uno straordinario amore per la vita e per il mondo circostante di cui la protagonista si nutre attraverso gli occhi, di una partecipazione al dolore, alla stranezza, alla tenerezza, alla fatica che alimentano la sua vita e il suo immaginario e che popolano la sua realtà quotidiana e il suo mondo onirico.

La giovane protagonista vive delle briciole di umanità che attraversano le nostre giornate nell’indifferenza collettiva. Forse perché l’istinto di sopravvivenza che ci fa preservare il nostro fragile equilibrio psicologico ci impone un umanissimo egoismo, la necessità di uno sguardo rivolto su noi stessi, una sana disattenzione che ci permette di sopravvivere a quell’eccesso di stimoli emotivi che altrimenti potrebbe sopraffarci.

La nostra protagonista ci appare invece “senza pelle”, come in quelle fasi della vita in cui vogliamo mordere l’esistenza ma non abbiamo ancora le difese immunitarie per farci attraversare da cose, eventi e persone senza restarne mutilati, trasfigurati, debilitati, quando ancora la nostra personalità non ha ancora costruito le sue fondamenta e individuato i propri meccanismi di difesa.

L’energia di digestione viene dal nostro modo di mangiare il mondo che ci circonda. La nostra protagonista raccoglie briciole e morde dettagli, qualcuno inghiotte senza assaporare, qualcun altro mastica fino a triturare.

È molto più difficile imparare a nutrire la propria anima che il proprio corpo. Quest’ultimo si accontenta anche di cibo sbocconcellato o di pasti mandati giù senza gusto.

L’anima ha invece bisogno – per nutrirsi correttamente e crescere - di gustare senza avere fretta, di imparare a distinguere i sapori, di scegliere gli ingredienti migliori e le combinazioni che le sono più congeniali.
Quante anime voracemente infantili ci sono in giro, quante inaridite dal cinismo dell’esistenza, quante obese dall’ingordigia, quante assetate di sentimenti!

L’energia di digestione è quella che ci spinge ogni giorno ad appropriarci della vita nella misura in cui ci permette di riconoscere noi stessi.

Voto: 3/5

martedì 2 agosto 2011

Il gusto del cloro / Bastien Vivès

Il gusto del cloro / Bastien Vivès. Firenze: Black Velvet, 2009.

Leggere non è esattamente il verbo appropriato per questa graphic novel, meno ancora che per qualsiasi altra pubblicazione di questo genere. Forse sarebbe meglio dire “guardare”. O anzi “osservare”. È il dettaglio che fa la differenza e che comunica il senso.

Ho trovato. Il verbo giusto è “immergersi”. Anche perché siamo in una piscina, e il viaggio dalla prima all’ultima pagina di questo volume è un po’ come la lunga apnea del giovane protagonista che – mettendosi alla prova – tenta di arrivare, con un’unica nuotata subacquea, da una parte all’altra della vasca.
Un’apnea che dura poco e – al contempo – sembra non finire mai. Un’apnea che è un rapido scorrere di immagini davanti agli occhi, ma in realtà esige la lentezza necessaria a godersi ogni tavola, ogni riquadro, ogni minima variazione delle espressioni, ogni cambio di angolatura e prospettiva.

Le ambientazioni esterne rispetto alla piscina sono limitatissime, solo le sedute del protagonista presso lo studio del fisioterapista, che è poi anche colui che spinge il giovane a praticare nuoto a scopo terapeutico per la scoliosi.
Tutto avviene nei confini angusti di una vasca, spesso affollata al punto da togliere lo spazio vitale, altre volte vuota a permettere quasi di confrontarsi con l’infinito.
Un’esistenza – quella vissuta in piscina – che si colloca sempre a metà strada tra l’essere fuori dall’acqua ed essere completamente sprofondati nell’innaturale, ma affascinante verde/blu della vasca. E così anche i disegni di Vivès giocano continuamente sulla differenza tra la visione fuori dall’acqua, caratterizzata da confini netti e colori definiti, e quella sotto l’acqua, in cui la realtà appare morbida e sfumata.

Pochissime anche le parole e i dialoghi, quelli banali del protagonista con l’amico che qualche volta va con lui a nuotare e quelli un po’ impacciati con la ragazza conosciuta in piscina.
Le parole forse più importanti dell’intera storia sono quelle che la ragazza pronuncia sotto l’acqua in risposta a una domanda del giovane, e che – per quanti tentativi di decifrazione vogliamo fare – rimarranno per sempre un mistero, inghiottito in quel mondo parallelo e ovattato che si sviluppa sotto la superficie dell’acqua.

Bastien Vivès
sceglie inoltre di non dare forma scritta ai pensieri dei protagonisti, cosa che pure rappresenta la più straordinaria opportunità e libertà di un disegnatore di fumetti. Preferisce lasciare al “lettore” il gusto di cogliere le sfumature, di guardare con gli occhi del protagonista, di scoprire i pensieri, le sensazioni, i sentimenti.

Forse è proprio questo il “gusto del cloro”.

Siamo ormai abituati ad associare la cultura delle immagini alla velocità, quella che caratterizza ad esempio i videoclip e molto del cinema contemporaneo.
Vivès ci restituisce il piacere della lentezza delle immagini, ci spinge a soffermarci, a “immergerci” nei pensieri.
Impossibile sfuggire a una vena malinconica cui il fumetto sembra non riuscire a sottrarsi. Ma qui la malinconia ha i toni morbidi degli acquerelli di Vivès.

Voto: 4/5

lunedì 1 agosto 2011

Le voyage d'hiver / Amélie Nothomb

Le voyage d’hiver / Amélie Nothomb. Paris: Albin Michel, 2009.

Durante la mia vacanza francese e – soprattutto – la mia sosta parigina, dopo aver finito il libro che mi ero portata in viaggio dall’Italia, Il bacio della Medusa, ho deciso di assicurarmi un supplemento di lettura acquistando in un’edicola della stazione di Paris Montparnasse questo breve romanzo di Amélie Nothomb, di cui non avevo visto traccia in Italia.

Riesco a leggere agevolmente il volume in francese, forse perdo qualche dettaglio, ma credo niente di essenziale per la comprensione della storia, i cui protagonisti sono Zoile, un elettricista incaricato dalla società parigina per cui lavora di verificare il funzionamento degli impianti di riscaldamento, Alienor, una scrittrice autistica, e Astrolabe, la sua coinquilina e assistente.

Zoile si innamora di Astrolabe, ma è un amore senza speranza perché Astrolabe non può concedergli niente in quanto votata alla sua missione e legata da un rapporto inestricabile ad Alienor.
Deluso nelle sue speranze d’amore, Zoile decide di dirottare un aereo e colpire la Tour Effeil, simbolo non solo della città di Parigi, ma anche dell’amore, in quanto – come apprendiamo dal romanzo - la sua forma di “A” fu scelta dal suo progettista come dedica alla sua donna ed è anche l’iniziale di Astrolabe e di Alienor.

Il tutto in un’atmosfera dominata dal gelo esteriore (siamo in inverno e nell’appartamento delle due donne il riscaldamento non funziona) e da quello interiore, che impedisce ai sentimenti di trovare un canale di espressione che non risulti assurdo o sopra la righe, come nella scena in cui Zoile fa mangiare alle due donne dei funghi allucinogeni per sciogliere le riserve della donna amata.

La lettura della Nothomb è sempre originale e delirantemente coinvolgente. Va detto però che il risultato della sua prolifica scrittura è a volte altalenante e non sempre all’altezza dei suoi capolavori.

In questo caso le rimprovero non tanto la sconclusionatezza della storia (che è abbastanza tipica della sua scrittura), quanto la superficialità complessiva della narrazione che non riesce mai – a mio avviso – a scuotere il lettore e, anche lì dove solleva delle domande, non stimola delle risposte.

Così, a me la storia di Zoile, Astrolabe e Alienor è rimasta attaccata alla pelle giusto il tempo necessario a completare la lettura del libro. Poi è scivolata via, come l’inverno del racconto.

E, come quando inizia la primavera dopo un rigido inverno, non si può fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.

Aspetterò un altro romanzo della Nothomb per ritrovare la sua analisi tagliente dei sentimenti e il cinismo nella rappresentazione delle relazioni umane, che restano qui sotto traccia senza mai davvero riuscire a increspare la superficie della lettura.

Voto: 2,5/5

venerdì 29 luglio 2011

LMVDM. La mia vita disegnata male / Gipi

LMVDM : La mia vita disegnata male / Gipi. Bologna: Coconino Press, 2008.

Dopo aver letto S. mi sono innamorata non solo dello stile fumettistico di Gipi, ma anche e soprattutto della sua anima ruvida e delicata, dei suoi fantasmi interiori e dei suoi sogni, del suo tormento mescolato a un’ironia sottile e feroce allo stesso tempo, del suo rapporto controverso con i genitori e con l’infanzia.

Su questa spinta ho comprato LMVDM (La mia vita disegnata male), il racconto di quel periodo della vita di Gipi durante il quale a causa di un problema al pene è costretto a un vero e proprio pellegrinaggio da un dottore all’altro, per scoprirne la cause ed individuarne la cura.

Ma – come spesso accade nei suoi racconti – la vicenda centrale diventa un pretesto per parlare di altro, di un’adolescenza un po’ disordinata, delle stramberie della sua compagnia di amici, degli eccessi di una giovinezza estrema nell’abuso di droghe e alcol, della tenerezza e della crudeltà dell’amicizia.

In questo deliquio, cui fa da inquietante contorno uno stuolo di medici e psicologi la cui stranezza è quasi superiore a quella del protagonista, si alternano gli acquerellati incubi a lieto fine che hanno per protagonisti terribili e buffi pirati, ricordi rimasti impressi nella memoria, come la notte passata in carcere, malinconiche e molto realistiche scene di vita quotidiana, allucinazioni e lunghi – e talvolta sconnessi – discorsi.

Non una lettura leggera e riconciliante; piuttosto una discesa agli inferi insieme al protagonista. La condivisione della sua angoscia, dei suoi sensi di colpa, della sua voglia di vivere a fronte di una ripetuta sfida alla morte.

Epperò, alla fine Gipi non può che risultare tenero e il ricordo del suo amico perso e ritrovato, e poi nuovamente scomparso, eppure profondamente amato, ci riconcilia con l’affettività sconclusionata del protagonista.

Voto: 3,5/5

giovedì 28 luglio 2011

Captain America: Il primo vendicatore

Che fare in una sera d’estate in cui ci si è distrutti con una visita alla Galleria Nazionale di Arte Moderna (bella!), lo shopping selvaggio in centro approfittando dei saldi e un doppio aperitivo innaffiato da due bicchieri di buon vino?

Si va al cinema sotto casa a vedere Captain America

Non mi lancerò in azzardate disquisizioni sul personaggio, anche perché la mia conoscenza dei fumetti della Marvel, dei rapporti con DC Comics e di tutto quel complesso mondo che ruota intorno ai supereroi è davvero molto molto limitata.

Da profana qualche sono, certamente salvo due sequenze del film:

- quella in cui il basso e mingherlino Steve Rogers (Chris Evans) viene messo nella macchina inventata dal dottor Erskine (Stanley Tucci) e ne esce – grazie allo sviluppo cellulare indotto dalla macchina – alto, muscoloso, possente e con una tartaruga da far invidia al più accanito dei palestrati; sfido chiunque sia andato a vedere il film a negare di aver pensato: “La voglio!!”

- quella in cui l’ormai trasformato Steve Rogers viene convinto da un Senatore a indossare una ridicola tutina rossa, bianca e azzurra e uno scudo finto che riproduce la bandiera americana e ad esibirsi col nome di Captain America, circondato da una schiera di ballerine, con scena finale di pugno – finto! – alla controfigura di Hitler (siamo negli anni dello scoppio della seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti sono impegnati nella campagna a sostegno della partecipazione alla guerra).

Queste due sequenze apportano quella dose di ironia che, invece, mi pare complessivamente manchi nel resto del film e forse in generale fa un po’ difetto a questo primo vendicatore. Eh sì, perché a giudicare da tutto il resto, a farla da padrona è invece una forte componente patriottica, una ideologia machista e militarista, che non solo mi è sembrata inconcludente e poco credibile, ma che francamente mi ha fatto anche un po’ orrore.

Insomma, ridatemi il lato oscuro di Batman, ridatemi l’umanità complessa e la fragilità di Spiderman! Ma forse Christopher Nolan e Sam Raimi sono registi con un approccio diverso rispetto a Joe Johnston e in mano a loro anche Captain America avrebbe acquisito qualche chiaroscuro in più.

Ciò detto, la divisa di Captain America, non quella degli spettacoli, ma quella realizzata per le azioni di guerra, è davvero molto bella e lo scudo indistruttibile è un gadget un po’ ingombrante, ma che a volte potrebbe fare comodo.

Però non credo possa bastare per convincermi ad andare a vedere le prossime puntate della saga.


Voto: 2,5/5


domenica 24 luglio 2011

Paris des enfants

Si trattava della mia - credo - terza visita (breve!) a Parigi e, dunque, tutte le mete turistiche più classiche erano state praticamente esaurite nelle occasioni precedenti.

Ma una città come Parigi lascia sempre spazio a nuove scoperte e a percorsi alternativi. E così, questa volta, anche in virtù di una serie di coincidenze, il mio è stato un giro che sarebbe stato particolarmente adatto a una bambino (o bambina) di età compresa tra i 7 e i 12 anni.

Non avevo con me i nipoti. E... lo so, quell'età è passata da tempo.

Ma - sarà perché ho conservato uno spirito un po' bambinesco - niente mi diverte di più che gli intrattenimenti pensati per i bambini (si veda anche la mia autentica passione per i cartoni animati e i fumetti!), soprattutto se si tratta di intrattenimenti non banali e che stimolano la scoperta e le nuove conoscenze.

Insomma, ne è venuta fuori una piccola guida alternativa a Parigi per chi è bambino e per chi si sente ancora tale!

Prima tappa: la Cité des Science e de l'Industrie a La Villette, attualmente oggetto di grandi lavori di ampliamento di adeguamento per una struttura che - quando è stata inaugurata nel 1986 - rappresentava una primizia assoluta per l'originalità della sua concezione, confermata dalla fortuna che avrebbe avuto in seguito.

Si tratta di uno spazio espositivo enorme che ospita mostre permanenti e temporanee su tutta la gamma dei temi scientifici, dall'astronomia alla tecnologia, dalla matematica alla medicina.

All'interno di questo spazio espositivo si trova anche l'area del Planetarium dove sotto una cupola si assiste a brevi documentari divulgativi sull'universo, il sole, le stelle. All'esterno troneggia la cosiddetta Géode, un enorme globo con la superficie a specchio al cui interno si proiettano filmati 3D e si fanno altre attività immersive. In questo periodo nello spazio esterno c'è anche un vero sottomarino che è possibile visitare per scoprirne tutti i segreti.

Noi - in una intera giornata - siamo riuscite a malapena a visitare le mostre e ad assistere a uno spettacolo nel Planetarium!

La cosa più bella e divertente della Cité des sciences è che tutte le mostre sono pensate in maniera interattiva, non solo per quanto è consentito dai computer e dalle nuove tecnologie, ma anche in un significato più primitivo, ossia per la possibilità che esse offrono di toccare oggetti, di mettersi alla prova, di giocare in maniera intelligente ed istruttiva.

Ad esempio, ai "giochi della salute" ci si doveva mettere alla prova su una carrozzella per disabili su un percorso accidentato, fatto di curve, di porte da aprire e di terreni sconnessi; o ancora nella sezione dedicata alla matematica si doveva trovare l'intruso in un gruppo di oggetti tridimensionali toccandolo con la mano, o nella sezione dei suoni si dovevano distinguere dei suoni decontestualizzati, o in quella delle illusioni ottiche si doveva comprendere il meccanismo retrostante sperimentandolo in prima persona.

Il divertimento e il coinvolgimento sono continui e assicurati. Il tutto in mezzo a bambini divertiti e urlanti, altri curiosi e concentrati, adulti con gli occhi illuminati, altri conquistati anche loro da tutto questo.

E così, tra un gioco di specchi, un'illusione ottica, un fenomeno sonoro sconosciuto, un quiz matematico, una prova di produzione manuale dell'energia elettrica e molto altro si sono fatte le 17 ed è dunque arrivata l'ora di tornare verso l'albergo e di prepararsi per la cena.

Lunedì, molti musei ed anche molti negozi sono chiusi. E dunque, quale idea migliore se non andare al giardino botanico di Parigi, il jardin des plantes?

Appena attraversato il cancello si apre davanti agli occhi un mondo incantato, dove piante e fiori sono collocati per affinità di colore e di tipologia in lunghe file circondate dal prato. Un sottopassaggio conduce al guardino alpino con le sue piante basse che si estendono su ogni superficie utile rendendo difficile individuare il passaggio.

Nella grande serra a vetri le pianti tropicali, protette all'interno di un artificiale clima caldo e umido.

Qua e là saltellano bambini con le loro macchine fotografiche al collo e la mano in quella di nonni e genitori. La concentrazione di bambini aumenta verso la fine del lungo viale del giardino botanico, e capiamo presto il perché.

Lì c'è l'ingresso della Grande galleria dell'evoluzione (che dispone di un'area appositamente dedicata ai bambini), una reinterpretazioone in chiave contemporanea del vecchio museo di storia naturale, ospitato in un'affascinante struttura di ferro e legno, che sembra quasi una stazione o un capannone industriale.

Quattro piani illustrano nell'ordine animali ed esseri viventi che popolano i mari e gli oceani, animali che popolano le terre emerse nei loro diversi ambienti naturali, l'uomo e il suo rapporto con la flora e la fauna nel corso dei secoli, infine una storia dell'evoluzione.

Tutto questo raccontato per mezzo di veri scheletri di animali, riproduzioni a dimensione naturale, vetrine illustrative (che spesso espongono anche insetti, farfalle, alghe ecc.), curiosi sgabelli con schede tecniche antiche montate su bastoni di legno e modernissimi monitor touchscreen da cui è possibile ottenere tutte le informazioni del caso.

E anche qui un contorno di bambini entusiasti che si muovono tra custodi del museo sorridenti e rilassati.

Considero parte integrante di questo mio particolarissimo tour di Parigi la visita alla mostra Paris sur Seine, ospitata in alcune sale dell'Hotel de Ville, la sede storica del Comune di Parigi.

Sì, perché pur trattandosi di una mostra serissima, con tanto di stampe e disegni antichi che ricostruiscono le attività nel tempo svoltesi sulla Senna, c'è anche una interessante componente ludica lì dove si illustrano con foto e video d'epoca le attività sportive e ricreative che avevano protagonista il fiume parigino. C'è dunque un piacere quasi infantile nel guardare questi video un po' accelerati (che sembrano quelli dei film muti degli anni Venti) e queste foto che raccontano di un tempo vicino (anni '50 e '60) e che pure sembra lontano, che mostrano facce che potrebbero essere quelle dei nostri genitori in un tempo che aveva un ritmo e uno spirito oramai perduti.

Insomma, Parigi sarà anche la città della moda, delle baguettes, dei grandi monumenti e dei quartieri a dimensione umana, delle squallide banlieue e dei lussuosi palazzi cittadini, delle grandi mostre e degli enormi musei (e tutto questo merita certamente una visita!). Però, se volete guardare questa città concedendovi l'opportunità - per una volta - di tornare bambini, quello che vi ho raccontato è il weekend che fa per voi!