venerdì 22 luglio 2011

La costa della Vandea e le sue isole

Non ve ne ho mai parlato, ma questa è l'occasione buona per confessare che sono un'accanita cicloturista. Quello di quest'anno è stato il mio decimo viaggio in bicicletta, il sesto in Francia.

No, non vado in Francia in bicicletta; la bicicletta la trovo nel posto dove comincia il tour.

No, non mi porto i bagagli dietro; l'ho fatto solo la prima volta (in Olanda, primo e unico viaggio auto-organizzato), ma dall'anno successivo ho ritenuto che sarebbe stato molto meglio affidarsi a un'agenzia specializzata per la prenotazione degli alberghi, il trasporto dei bagagli, la definizione del percorso e la documentazione relativa, al fine di potersi muovere in tutta libertà e sicurezza.

Di agenzie di questo tipo in Italia ce ne sono almeno tre, Due ruote nel vento, Girolibero (ramo dell'associazione Zeppelin) e Verde Natura (tutte sperimentate in prima persona), che a loro volta si appoggiano - per i viaggi all'estero - alle numerose agenzie locali specializzate nello stesso tipo di viaggi.

Di viaggi che possano essere fatti individualmente (ossia in autonomia, senza doversi aggregare a un gruppo) ce ne sono centinaia (in Europa e nel mondo), e ogni anno l'offerta si amplia e diversifica. Basta dare un'occhiata ai cataloghi delle agenzie succitate per rendersene conto. Peccato che i viaggi realmente affrontabili, per chi come me non ha alcuna preparazione specifica e durante l'anno non va quasi mai in bicicletta, non siano poi infiniti!!

Le variabili che determinano la difficoltà del viaggio sono numerose; non è soltanto un fatto di km giornalieri (di solito in questi viaggi si fanno dai 45 agli 80 km al giorno, per un totale di circa 300-350 km in una settimana), bensì anche di tipologia del percorso e di condizioni atmosferiche: salite e discese, sterrati, vento, pioggia e così via. E così, 50 km possono essere una vera passeggiata in scioltezza, ovvero una faticosa prova atletica, che si sconterà l'indomani.

Certo, sugli stessi percorsi si incontrano arzilli vecchietti che sfrecciano a velocità per me inimmaginabili e che si ritrovano la sera a cena freschi come rose, mentre io alle 21,30 sono già atterrata distrutta sul lettino. Ma - come si sa - si assiste a un peggioramento della specie e le generazioni diventano sempre meno resistenti alla fatica... o almeno così ne concludo dopo un po' di esperienze di questo tipo.

I percorsi possono essere, a seconda dei casi, circolari ovvero lineari (terminando dunque in un posto diverso da quello di partenza). In ogni caso, l'area coperta è sempre piuttosto limitata, diciamo corrispondente a una provincia italiana non troppo estesa. Se, dunque, volete vedere tutto, questa non è la vacanza per voi.
D'altra parte, il viaggio in bicicletta consente di entrare nello spirito di un luogo molto di più di quanto la velocità di una macchina o la preselezione operata da un treno non consentano.

Con la bicicletta si attraversano alla stessa velocità luoghi molto turistici e pieni di gente e sperduti paesi i cui abitanti non sembrano essersi mai mossi di lì, strade importanti e oscuri sentieri che tagliano boschi e campagne, piste ciclabili attrezzate e stradelli ghiaiosi.

In un'area così piccola si può avere un assaggio di moltissime cose e di paesaggi molto diversi. Ad esempio, durante il viaggio di quest'anno sulla costa atlantica della Vandea, ci sono state le dune sull'oceano - come immaginabile - ma anche la campagna con i girasoli, le saline, le paludi, i laghi, i canali, le foreste, i paesi. Il sole e il vento hanno accompagnato ogni pedalata.

Il viaggio in bicicletta è un'occasione per stare in contatto con la natura, per sentire il proprio corpo (tutto l'anno costretto su una sedia di fronte a un computer), per apprezzare l'enogastronomia locale (e la Francia da questo punto di vista è splendida!), per dormire profondamente, stremati da una stanchezza sana, per sospendere la quotidianità e l'ordinario in maniera originale, per sperimentare il gusto dell'avventura.

Quest'anno ci è toccato cambiare due camere d'aria forate, trasportare quasi a spalla le biciclette con le ruote piene del fango di uno sterrato dopo una notte di pioggia, pedalare con una ruota deformata a causa di tre raggi spezzatisi l'uno dopo l'altro, aspettare il raro passaggio di una automobile per chiedere indicazioni stradali dopo aver toppato il percorso indicato sulla road map.
In altri viaggi ci è toccato pedalare un'intera giornata sotto la pioggia bagnandoci fino al midollo nonostante l'attrezzatura, ovvero temere di non avere forze sufficienti per percorrere gli ultimi chilometri.

Quest'anno a scandire il nostro percorso sono stati Les Sables d'Olonne, St Gilles Croix de Vie, Bouin, il Passage du Gois, l'Ile de Noirmoutier e l'Ile d'Yeu. Forse a distanza di qualche settimana non ricorderemo perfettamente in quale paesino avevamo scattato la foto di quella chiesa gotica o di quella spiaggia atlantica, ma la memoria dello spirito della Vandea rimarrà indelebile nelle nostre menti.

giovedì 21 luglio 2011

Il bacio della Medusa / Melania G. Mazzucco

Il bacio della Medusa / Melania G. Mazzucco. Milano; Rizzoli, 2008.

Il bacio della Medusa è un libro carico, sovrabbondante nella lingua e nei contenuti, chiaramente il primo romanzo della Mazzucco, quello in cui lo scrittore un po' acerbo non riesce a filtrare la totalità delle suggestioni letterarie e di vita che ha accumulato. E così il romanzo ne viene fuori come la somma di tanti romanzi e di tanti stili differenti.

Del resto, la stessa Mazzucco ce lo racconta con dovizia di particolari nella postfazione a questa edizione, svelando genesi e retroscena della scrittura.

Eppure, nonostante l'immaturità che sembra emergere in alcuni passaggi, il libro ha una potenza che prefigura le qualità narrative della Mazzucco di Vita. Di quest'ultimo ritroviamo qui il gusto documentaristico, l'ambientazione storica, il groviglio dei sentimenti, i rapporti tra le classi sociali e tra i generi, la cultura contadina, l'ineluttabilità del destino.

Anche in questo romanzo al centro dell'intreccio c'è una storia d'amore impossibile, quella tra Norma, di buona società, sposata con l'onorevole Argentero, e Medusa (al secolo Maddalena Belmondo), figlia di una famiglia contadina numerosa della Valle Stura, con un'infanzia difficile alle spalle, segnata dall'incontro col vagabondo Peru.

Siamo all'inizio del Novecento, nella provincia piemontese, tra valli e montagne, e l'esito, pur mitigato da un finale ipotetico alternativo, è inevitabilmente drammatico.

Nel frattempo, siamo trascinati nel fiume in piena di pensieri, parole ed eventi, cui solo il narratore - che qua e là viene allo scoperto - impone un freno. La sensazione di essere in balia di qualcun altro, storditi dal flusso disordinato della coscienza ci mette talvolta in una condizione di inferiorità e di passività quasi insopportabile che, da un lato ci impedisce di staccarci dalla storia e dai personaggi, dall'altro suscita il desiderio di sostituirsi al narratore.

Potenza della scrittura nel darci l'illusione di poter riscrivere anche la vita.

Voto: 3/5

giovedì 7 luglio 2011

FUORI TEMA: Un matrimonio alla pugliese

Lo sapete. Sono orgogliosamente pugliese.

Però, essendomi allontanata dalla Puglia dall'ormai lontano 1991, il mio sguardo nei confronti della mia terra oscilla tra il critico e il commosso, in un'altalena infinita tra il recupero delle tradizioni e il rifiuto di alcuni tratti propri della mentalità locale.

Ebbene, è proprio con questo sguardo che vi introdurrò a una vera e propria istituzione della cultura pugliese, il matrimonio. Una specie di "Guida all'uso di" che potrebbe tornarvi utile qualora doveste mai essere invitati a parteciparvi.

Andiamo per ordine. A differenza che nel resto dell'Italia, i matrimoni dalle mie parti non si celebrano quasi mai di domenica (perché la domenica è il giorno del Signore e va dedicato ai riti domenicali!), mentre è prassi fissare la data durante la settimana. Vige il concetto "né di Venere, né di Marte", ma ormai anche quello è superato perché i giorni della settimana quelli sono e bisogna pur sempre sfruttarli tutti...

Seconda differenza rilevante. Il matrimonio serale - pur cominciando a diffondersi come conseguenza delle turpi abitudini delle barbariche nuove generazioni - è un po' sacrilego rispetto alla tradizione e, comunque, non è guardato di buon occhio dal "parentame" che non ha alcun problema a impegnare un'intera giornata per il matrimonio, ma non ha intenzione di cenare tardi la sera e stare in piedi fino alle 3 di mattina.

E così, la celebrazione in chiesa (perché sposarsi in Comune è ancora più sacrilego che sposarsi di sera!) si tiene di solito verso le 11 di mattina, fatto salvo che la sposa può arrivare in un orario variabile tra le 11 e mezzogiorno.
In chiesa tutti composti, tirati a lucido, spalle coperte, commozione, sacerdote spesso amico, applauso quando i novelli sposi sono dichiarati marito e moglie.

All'uscita le porte della chiesa vengono letteralmente sbattute alle spalle degli sposi, per evitare che l'enorme quantità di riso lanciata sugli sposi invada la chiesa e si infili ovunque...


Sono le ore 13,30 circa. A questo punto tutti liberi. Gli sposi saranno impegnati per un tempo che può andare dall'una alle due ore (secondo quanto è puntiglioso il fotografo!) per il reportage fotografico. Un tempo si usavano romanticissime foto sugli scogli, con lo sfondo del mare. Ora siamo diventati tutti più radical-chic e quindi vai di centri storici, di intonaci bianchi e di chiese romaniche!

Intanto, gli invitati si spostano verso la sala ricevimenti con le macchine addobbate con le coccarde bianche per far sapere a tutti che stiamo andando a un matrimonio. Un tempo avremmo anche strombazzato per strada, ma oggi sarebbe troppo kitsch, o - come diremmo noi - da "cozzali".

Le sale ricevimenti sono un altro interessante capitolo del matrimonio alla pugliese, anche quelli oggetto di un'evoluzione nel tempo. Negli anni Settanta e Ottanta andavano le sale ricevimenti sul mare, con la terrazza per guardare l'orizzonte, perché la campagna faceva "povero". Oggi è il boom di masserie ristrutturate e agriturismi nel verde, più scenografiche e più adatte allo spirito del nostro tempo.

Sono le 15,30. Degli sposi di solito non si vede neppure l'ombra.
Per fortuna le sale si sono attrezzate con drink e tartine di intrattenimento... capaci di calmare i morsi della fame. Il suonatore di chitarra, pianoforte, flauto o quant'altro ci tiene compagnia con le sue melodie d'annata.

Ed eccoli: gli sposi! In tutto il loro splendore!
Trionfale ingresso nella sala degli antipasti. Qui gli invitati sono attesi da 4-5 tavolate a buffet, dove è possibile trovare qualunque ben di dio, nella migliore tradizione pugliese: dal pesce crudo, ai prodotti caseari (mozzarelle fatte al momento, burrate, scamorze, primo sale e pecorini), torte rustiche, affettati e specialità di norcineria, sushi, insalate di mare e di polipo, per finire con la zona della brace: dal polipo, alla salsiccia pugliese ai "torc'nidd" (una specie di involtini fatti con le interiora di agnello). C'è sicuramente di che mangiare per un esercito (e di solito gli invitati ai matrimonio sono un vero e proprio esercito, per quanto scomposto).

Vi risparmio la questione della composizione dei tavoli (di solito previsti per 8-9 persone), operazione che richiede una pianificazione attentissima da parte degli sposi e certamente li impegna un tempo esagerato. Salvo che alla fine ci sarà sempre qualcuno scontento...

Il buffet sazierebbe anche un bufalo inferocito dalla fame, ma noi - in Puglia - siamo solo all'inizio! Così, dopo uno spostamento nella sala da pranzo e ballo, e non prima della processione degli auguri agli sposi e alle famiglie, eccoci attaccare i primi, di solito due (quasi sempre rielaborazioni su piatti della tradizione), inframmezzati dal primo ballo degli sposi sulle note della canzone che si sono scelti per suggellare il loro amore.

Dopo la seconda pasta, il dj di mezza età e la cantante di pianobar partono col tormentone dei balli di gruppo. Tre quarti della sala partecipa, perché negli ultimi anni in Puglia giovani e meno giovani hanno avuto come principale attività del loro tempo libero la scuola di ballo. Comunque il tempo e lo spazio per un liscio e una Gloria Gaynor d'annata lo si troverà... Così come non potrà mancare il trenino sulle note di Disco Samba, il girotondo intorno agli sposi, gli sposi sollevati in alto perché si diano un bacio davanti a tutti (!).

Sono le 18,30. Siamo al secondo piatto (pesce o carne a seconda dei casi), seguito o accompagnato dal sorbetto... La maggior parte di noi non ha più posto nello stomaco neppure per un'oliva, però tocca preservare uno spazietto per... i dolci!!

E infatti eccoci tutti catapultati sul prato dove è allestito un altro fantasmagorico buffet, dove ci sono frutta (soprattutto esotica) e dolci di ogni forma, colore, gusto e dimensione. Non dovrebbe mancare neppure il banchetto del gelato e delle crepes espresse... :-)

Intanto si allestisce la torta nuziale. Seguono le foto di rito. Mentre le espressioni dei commensali e degli sposi si fanno sempre più provate!

Ancora musica, frizzi, lazzi. Sono arrivate le 22,30.

Il "parentame" - soddisfatto - comincia a sloggiare e così comincia la processione al tavolo della bomboniera e dei dolci. Saluti agli sposi, ritiro del pacco e dritti a letto. Ma gli amici no!!

Quelli si presuppone che stiano fino all'ultimo, a sorseggiare un rum e pera, a fumare un sigaro e a posare per le ultime foto. A questo punto anche gli sposi hanno perso l'aplomb iniziale e quasi sempre la sposa ha mollato le scarpe col tacco altissimo.

I più resistenti e temerari tra gli sposi possono addirittura concludere la serata in qualche locale insieme agli amici più stretti. Ma abbiamo ormai tutti una certa età e la tenuta si è ormai considerevolmente ridotta ;-)

Tutti a casa. A domani i commenti, le foto, le telefonate che terranno banco per qualche giorno fino a quando l'eco del matrimonio celebrato non sarà esaurito.

Tenetevi pronti, però: vi attende la visione del filmino e delle foto.
Non potete mancare!

domenica 26 giugno 2011

Cars 2

Tappa pugliese e cinema con i nipoti. Un classico.

Questa volta arrivo giusto in tempo per vedere Cars 2, che è appena uscito nei cinema italiani. Ovviamente anche in 3D. Andiamo alla Casa delle Arti convinti che ci sia il 3D, ma in realtà lo spettacolo delle 18 sarà nella tradizionale versione bidimensionale. Si capisce subito, fin dalle prime spettacolari scene, che il film è stato costruito apposta per essere visto in 3D, con l'obiettivo di lasciare lo spettatore a bocca aperta. Peccato!

La storia - in realtà piuttosto ingarbugliata - è però facilmente sintetizzabile. Saetta McQueen, appena tornato vincitore dalla Piston Cup, sfidato dalla macchina italiana Francesco per una nuova corsa, il World Gran Prix, che sarà caratterizzata dall'uso di carburante ecologico, decide di ripartire portandosi dietro Cricchetto. Finiranno coinvolti in un vero e proprio intrigo internazionale, in cui il vero protagonista ed eroe sarà alla fine proprio lo scassatissimo "Carlo Attrezzi".

E così mentre il primo Cars era dedicato - come ha giustamente osservato mio nipote - a Saetta McQueen ed era interamente ambientato negli Stati Uniti (intorno a Radiator Spring), in questo caso invece i nostri stralunati eroi ci conducono da una parte all'altra del globo, prima in Giappone a Tokio (dove si svolgono alcune delle gag più esilaranti), poi in Italia, nella fantomatica Porto Corsa in Liguria, infine in Inghilterra, a Londra, fino a farci ritornare nella familiare piazza di Radiator Spring.

La storia - che oscilla tra un inno all'ecologia e l'elogio dell'amicizia - ha il ritmo forsennato degli ultimi James Bond e l'ardimento avventuroso di Mission Impossible
, ma non rinuncia all'ironia e alla cura del dettaglio e del particolare.

Difficile affermare che questa seconda puntata sia all'altezza del primo Cars, ma la rilettura automobilistica umanizzata che sta alla base di questo cartone riesce ancora a sorprendere, a far sorridere e a tenerci incollati allo schermo, grandi e piccini.

Menzione speciale per i titoli di coda, che proseguono sulla falsariga del viaggio intorno al mondo su cui è incentrata la storia, e si strutturano come cartoline dai luoghi più significativi del globo (le piramidi, il Taj Mahal, San Francisco, il Teatro dell'Opera di Sidney, l'esercito di terracotta, la grande muraglia ecc.), ridisegnati rispetto a un mondo in cui le vere protagoniste sono le automobili.

Chi da piccolo ha amato giocare con le macchinine non potrà che apprezzare la capacità di Cars di mettere sullo schermo tutte le nostre più fantasmagoriche invenzioni di gioco.

Voto: 3/5

venerdì 17 giugno 2011

Corpo celeste

Marta (la bravissima Yle Vianello), o Martina, come più affettuosamente la chiama la mamma, è una ragazzina di 13 anni, che è tornata a vivere - insieme a sua madre Rita (Anita Caprioli) e sua sorella maggiore(Maria Luisa De Crescenzo) - alla periferia di Reggio Calabria, dopo molti anni vissuti in Svizzera.

I motivi di questo ritorno non sono svelati. Forse un padre svizzero che li ha abbandonate (o che è morto, come dice con sicurezza qualche recensione), costringendole a tornare in un contesto familiare dove per Rita è più facile trovare un lavoro, per quanto faticoso e pesante (lavora in un'attività di panificazione), e consentire alla sua famiglia di vivere dignitosamente.

La grettezza della mentalità, lo squallore dei paesaggi (cementificazione a perdita d'occhio, abusivismo edilizio, costruzioni non finite, fiumare piene di erba incolta e immondizia), l'ignoranza diffusa, i meccanismi di scambio elettorale, il prevalere dei modelli televisivi costituiscono il fluido vischioso in cui si muove l'anima in formazione di Marta.

E, nei suoi occhi, chi non è troppo distante cronologicamente da quell'età difficile riconosce quel processo di amplificazione emotiva, quella sensazione di essere senza pelle, quell'insieme di tenerezza, allegria e tristezza che è tipica di quella fase della vita.

I due piccoli mondi in cui si svolge la vita di Marta, quello familiare caratterizzato da una mamma dolcissima, ma essa stessa un po' bambina, e una sorella che manifesta un inspiegabile rancore e forse invidia un po' il rapporto tra sua madre e Marta, e quello della parrocchia, dominato da un parroco (Salvatore Cantalupo) intristito dalla perdita di qualunque motivazione, una catechista (Pasqualina Scuncia) che sembra avere in questo ruolo l'unico scopo della sua vita, un variopinto e - al contempo - spento gruppo di adolescenti, una comunità in cui la religione è l'involucro formale che permea un vuoto sostanziale, un codice interpretativo incapace di comprendere la complessità del presente.

Il film si sviluppa come una tenaglia che, fin dal principio, comunica un senso di soffocamento, di mancanza di libertà - anche quando ci fa sorridere e ridere - per poi stringersi intorno al cuore, in un crescendo di ansia che si scioglie - strozzata - solo tra le mani di Marta in cui guizza la coda tagliata di una lucertola: "È ancora viva".

Perché quello di Alice Rohrwacher è un film pieno di speranza. La speranza che passa per gli occhi di Marta quando sale sul terrazzo per guardare lontano, quando sfiora con le dita leggere il "crocifisso figurativo", quando guarda le ombre tremolanti con cui il movimento del lampadario trasfigura la cucina, quando cammina per la strada con il vento che sospinge tutto, quando attraversa il sottopassaggio invaso dall'acqua con il vestito bianco della cresima. È la speranza di chi è ancora capace di vedere le cose con occhi puliti e nuovi. Un inno alla ricchezza della diversità, che ancora una volta (come ne Il primo incarico) si incarna nel volto di una donna (questa volta giovanissima), che al Sud appartiene senza esserne posseduta.

Voto: 4/5

venerdì 10 giugno 2011

Il primo incarico

È un film di una bellezza struggente e malinconica questo di Giorgia Cecere.

Perché tale è la bellezza di Isabella Ragonese nel ruolo di Nena, una giovanissima maestra che - come primo incarico - viene mandata dal suo paese del Salento (dove vive con la sorellina adorata e la mamma con cui ha un rapporto difficile) in una piccolissima comunità rurale della valle d'Itria a insegnare a una classe di sette bambini. Lei innamorata di Francesco (Alberto Boll, la cui recitazione ho trovato davvero troppo ingessata e poco espressiva), un giovanotto dell'alta borghesia in cui riconosce i valori di un mondo altro cui aspira. Si troverà a fare i conti con una reatà governata da norme sociali arcaiche, in cui le donne sono silenziose e sottomesse, responsabili dei figli e della cucina, e gli uomini sono rozzi e insensibili, in cui la comunicazione tra questi due mondi è difficile se non impossibile.

Malinconica e struggente è anche la bellezza di questa Puglia degli anni Cinquanta, antica e sempre attuale, in cui a farla da padroni sono gli ulivi, la terra rossa, i muretti a secco, i centri storici imbiancati con la calce, i trulli e la cultura contadina. In un susseguirsi delle stagioni che rivela tutti i colori e - sorprendentemente - anche gli odori di questa terra. La pioggia che accentua il grigio delle foglie d'ulivo e il silenzio assordante della campagna. Il sole che rende accecante il bianco delle case. Il vento che soffia sempre a rendere mobili e instabili le coscienze, ma anche a pulire continuamente cielo e paesaggio.

Nel lasso temporale in cui si compie il ciclo immutabile della natura in un contesto umano che sembra non lasciarsi scalfire dal passare del tempo, Nena farà il suo delicato e controverso percorso interiore, compirà una scelta coraggiosa e paradossalmente originale nel trovare una sintonia con una cultura contadina la cui disarmante semplicità non è pochezza se non agli occhi dello snobismo borghese, il cui silenzio non è assenza di senso se non alle orecchie di chi non lo comprende, il cui equilibrio arcaico non è spaventoso se non al cuore di chi non ha ancora fatto i conti con la propria interiorità.

Difficile per me guardare con occhio obiettivo questo film su una terra che mi appartiene, che ho prima interiorizzato dandola per scontata, poi rifiutata nel riconoscerne confini troppo ristretti, poi recuperata e amata nella comprensione resa possibile da una personalità che ha trovato un suo, autonomo, percorso.

Nena sceglie di restare. Allo stesso modo in cui io ho scelto di andare.

Si è tutti un po' "cuori in inverno" in un mondo così. Ed è questa la cifra dominante del film (evidente nella voluta rigidità della sceneggiatura, dell'impianto narrativo e della recitazione). Il disgelo però è un'opportunità per chi, come Nena, aspira alla consapevolezza di sé.

Voto: 3,5/5

giovedì 26 maggio 2011

The tree of life

Mah... Il film non mi è dispiaciuto, ma non posso neppure dire che mi sia piaciuto.

Certo si fa fatica ad essere convinti delle proprie percezioni di fronte a un mostro sacro come Terrence Malick (regista misterioso e difficilmente etichettabile che ha portato nei suoi pochissimi film una forte componente intellettualistica) e alla consacrazione di questo film come vincitore della Palma d'Oro nella difficile piazza di Cannes.

Comunque sfiderò questo timore reverenziale, magari ammettendo preliminarmente la mia inadeguatezza culturale a cogliere la complessa sottotrama filosofica, musicale, religiosa, cosmologica che Malick tesse all'interno di questo film anomalo, in cui il racconto di una storia per certi versi un po' banale viene inserita (e allo stesso tempo contrapposta) in una riflessione di ampio respiro sulla vita umana all'interno dell'immensità e dell'inspiegabilità dell'universo e dei fenomeni naturali.

Così l'infanzia e l'adolescenza di Jack (da ragazzino Hunter McCracken, da adulto Sean Penn) in un sobborgo residenziale di una cittadina del Texas, le sue relazioni con un padre autoritario e anaffettivo (Brad Pitt) e una madre sottomessa ed eterea (Jessica Chastein), nonché con i suoi fratelli, in particolare quello caratterialmente più diverso da lui e destinato a una fine tragica, appaiono in qualche modo la traccia narrativa e parzialmente autobiografica che il regista utilizza per un suo dialogo interiore con il trascendente.

Parole sussurrate, musica sacra e sinfonica, immagini suggestive a metà tra il National Geographic e la trilogia Qatsi (grazie A.), inserti che ricordano quasi Jurassic Park, echi di 2001 Odissea nello spazio, presenza costante dell'elemento religioso sono le componenti che rendono quello che avrebbe potuto essere un racconto cinematografico tradizionale un oggetto nuovo dal punto di vista visivo e concettuale.

Esperimento dunque interessante, sebbene le sue diverse componenti non riescono ad omogeneizzarsi e amalgamarsi completamente.

Resta forte alla fine in me la sensazione che il film sia l'espressione di una necessità che frequentemente caratterizza una certa fase del percorso anagrafico dell'essere umano, quello nel quale si fa un bilancio della propria vita, il pensiero della morte si affaccia sempre più spesso alla mente, i ricordi dell'infanzia diventano vividi e la ricerca del trascendente e gli interrogativi sul senso dell'esistenza diventano inevitabili.

In tutto ciò appaiono inoltre determinanti il contesto culturale ed educativo nel quale il regista è cresciuto (vi ricordate Blankets)e il profondo condizionamento di una pesante cultura religiosa e di una morale molto rigida sullo sviluppo libero e completo della sua personalità adulta.

In definitiva, ho trovato potente (nelle immagini naturalistiche e nella rappresentazione della violenza delle relazioni umane) e tenero (nella rappresentazione della prima infanzia e della bellezza della natura) lo sguardo di Malick, e mi sono detta che la complessità e l'ampiezza delle nostre conoscenze non sono una protezione sufficiente di fronte alla smarrimento che l'assenza di senso e la fragilità della nostra dimensione umana sollevano a più riprese nella nostra esistenza.

Dal mio attuale punto di osservazione l'approccio di Malick, pur essendo visivamente di grande impatto, lascia perplessi in quanto irrisolto sul piano squisitamente umano, e il suo afflato poetico risulta troppo connotato e forse pretenzioso, sintomo - in qualche modo - di una sconfitta di quella visione umanistica che personalmente privilegio.

Voto: 3/5

venerdì 20 maggio 2011

Un weekend a Martignano

Nasce tutto dal desiderio di C. di passare un weekend nel verde anziché a Roma, ma senza fare centinaia di chilometri.

E così quale migliore soluzione che fare un salto dalle parti dei laghi di Bracciano e Martignano, che da casa mia in fondo non sono molto più lontani del litorale laziale?

Mi attira il lago più piccolo e meno conosciuto, anche perché mi dicono che qui non ci sono paesi o zone urbanizzate direttamente affacciati sul lago, eccetto qualche agriturismo.

Convinta, prenoto auto e alloggio e il sabato mattina (non esattamente di buon'ora) si parte. La destinazione è l'agriturismo Il Castoro, il più rustico tra quelli della zona e ovviamente quello che - almeno sulla carta - ci è piaciuto di più.

Diciamo che l'inizio della vacanzina del weekend non è delle più felici. Mi accorgo, una volta uscita dall'autonoleggio, che l'auto non ha il pieno, tento di contattare telefonicamente la Hertz, ma praticamente non c'è modo e quel telefono continuerà a squillare a vuoto per tutta la giornata. Decido di uscire da Roma prendendo la Cassia anziché imboccando Salaria e raccordo e me ne pento amaramente, perché in quel budello assurdo si procede a passo d'uomo e certamente ci mettiamo di più a prendere il raccordo che ad arrivare al lago, che si rileva essere sostanzialmente a un tiro di schioppo.

Per fortuna, tutti i nervosismi scivolano via quando in men che non si dica ci ritroviamo sul lungolago (quello grande di Bracciano) e da lì, una volta preso uno sterrato, siamo al cancello del nostro agriturismo. Colline verdi, casa padronale in pietra, appartamentino con giardinetto privato, mucche e cavalli, e - tra gli alberi - il blu del lago.

Solo allora realizziamo che nell'appartamento c'è tutto. Ma per chi abbia fatto la spesa! E dunque immediatamente ci preoccupiamo della colazione dell'indomani mattina, perché ci sarà pure il posto di ristoro sulla spiaggia sul lago - come ci ha detto la proprietaria dell'agriturismo - ma chi ce la fa a uscire di casa senza una prima colazione domestica? ;-)

Comunque, il problema viene rimandato alla serata, quando ci sposteremo per la cena verso Anguillara. Intanto il lago ci attende. Stradina di campagna ed eccoci su un prato verdissimo e curatissimo, con un lungo viale tra grandi alberi cui sono appesa decine e decine di amache. Qualche pedalò è parcheggiato sulla spiaggia (che è tutta prato fino alla riva), ma non è chiaro se siano a disposizione oppure no. In ogni caso il nostro obiettivo è goderci il sole e la tranquillità. Non c'è praticamente nessuno. Ogni tanto passa qualcuno con una canoa o una piccola barca a vela, qualcuno si ferma sulla spiaggia ad asciugarsi, ma le 4-5 ore di completa nullafacenza (eccetto gli esercizi di pilates!) sono davvero un toccasana.

Una volta fatto il pieno di sole e di silenzio, il tempo di una doccia e siamo in macchina. Discesa in retromarcia, abbattimento di staccionata in legno (!), e poi via verso Anguillara. Tappa al supermercato per comprare tutto quello che ci serve per la colazione e poi passeggiata per il centro storico del paese alla ricerca di un'osteria dove prendere un aperitivo, godendoci il tramonto.

Seguendo un cartello, finiremo da Ciccio Pasticcio, dove il padrone di casa corrisponde esattamente al nome del locale... I tavoli fuori non sono ancora stati allestiti, quindi staremo dentro nell'atmosfera surreale del locale, dove campeggia un cartello con una scritta in veneto. Mah! Comunque, il nostro bicchiere di vino l'abbiamo bevuto; non resta che andare da Boricella, consigliatoci da C.

Strano posto questo ristorante. Mi ricorda certi posti dove andavo il sabato sera con i miei genitori a managiare quando ero piccola (date un'occhiata al sito!). Posto per famiglie, dove fanno anche la pizza, in cui tutto è semplice, ma anche elegante nel senso in cui un posto poteva essere elegante negli anni '80. Comunque noi ci siamo andate per mangiare il pesce di lago e così è: dopo un fritto di pesce di lago e un persico in carpione, non ci faremo mancare una grigliatona mista con verdure e patate di contorno. Il tutto spruzzato di un onesto bianco locale. Crema catalana e ritorno al Castoro a dormire, nonostante le buone intenzioni di fare una passeggiata notturna sul lago.

Al mattino (in realtà è mezzogiorno), il tempo non promette niente di buono, ma tanto noi abbiamo la nostra colazione che ci aspetta. Thè, porchetta, pane e marmellata ;-))

Nel frattempo comincia a piovere. Riusciamo a malapena a fare un salto sulla spiaggia, ma le condizioni non sono le migliori per bissare l'esperienza del giorno precedente. La pioggia però conferisce al luogo un'atmosfera magica, soffusa, rilassata e misteriosa. Ci godiamo per un po' lo spettacolo.

Ma è già tempo di tornare verso Roma. Non senza un giro in macchina attraverso Trevignano e Bracciano.

Peccato che il weekend sia già finito. Ma scoprire che esiste uno spazio di fuga così bello così vicino alla città ci riempie di gioia.