domenica 29 settembre 2019

Gloria mundi

A completamento del mio personale percorso nella rassegna Da Venezia a Roma, vado a vedere l'ultimo film di Robert Guédiguian, Gloria mundi, il cui titolo completo sarebbe in realtà (sic transit) gloria mundi. Il titolo è già tutto un programma dell'approccio profondamente pessimistico che sta alla base di questo film, che il regista - a mio modo di vedere - struttura come una specie di tragedia classica traslata su un tempo presente rispetto al quale c'è ben poco da stare allegri.

La lettura del film di Guédiguian come una tragedia classica in chiave moderna risulta secondo me evidente nell'epilogo in cui - di fronte all'evento che costituisce l'inevitabile esito del climax narrativo ed emotivo fin lì sviluppatosi - tutti i personaggi sono riuniti in un solo luogo, ognuno con le proprie reazioni di fronte a quanto accaduto, quasi a formare un coro o a comporre un polittico.

Questa lettura consente inoltre di attenuare il giudizio critico che è stato espresso da più parti nei confronti dell'impianto piuttosto didascalico della narrazione e del carattere un po' stereotipato e monodimensionale dei personaggi, prerogative queste piuttosto tipiche dell'impianto tradizionale della tragedia classica.

Ciò detto, è piuttosto evidente che, nonostante le lodevoli intenzioni, il risultato non sia perfettamente riuscito, forse perché noi uomini postmoderni di fronte a un sovraccarico tematico ed emotivo eccessivo, come in questo caso, tendiamo a reagire con una buona dose di cinismo.

Protagonista silenziosa di questo film è la Gloria richiamata nel titolo: è infatti con la nascita di questa bambina che il plot narrativo prende le mosse. Gloria è figlia di Mathilda (Anaïs Demoustier) e di Nicolas (Robinson Stévenin). Mathilda è a sua volta la figlia di Sylvie (Ariane Ascaride, vincitrice a Venezia della Coppa Volpi con un'interpretazione molto equilibrata) e di Daniel (Gérard Meylan, l'attore feticcio di Guédiguian), che però è in prigione a Rennes per un episodio avvenuto in gioventù. Nel frattempo Sylvie si è sposata con Richard (Jean-Pierre Darroussin), da cui ha avuto una seconda figlia, Aurore (Lola Naymark), che è fidanzata con Bruno (Grégoire Leprince-Ringuet).

Quando Daniel esce di prigione, avendo saputo di essere diventato nonno, torna da Sylvie e da sua figlia per conoscere Gloria. Qui trova una situazione difficile: Sylvie e Richard lavorano rispettivamente come donna delle pulizie e autista dell'autobus in turni opposti e riescono a malapena a garantirsi una vita dignitosa; Mathilda lavora come commessa in prova e Nicolas fa l'autista per Uber, ma i loro lavori oltre che poco redditizi sono molto precari e appesi a un filo. Gli unici che vivono agiatamente sono Aurore e Bruno che gestiscono una specie di moderno banco dei pegni dove acquistano a pochi euro quello che la gente vende perché ha bisogno di contanti, lo fanno sistemare o riparare da operai in nero e lo rivendono a un prezzo di gran lunga superiore.

Tutto questo avviene sullo sfondo di una città, Marsiglia, attraversata da profonde tensioni e contraddizioni: da un lato si interviene pesantemente a cambiare il volto e a intaccare anche l'anima della città, riempiendola di nuovi grattacieli e riqualificando in modo talvolta poco rispettoso le aree del centro, come il Vecchio Porto, dall'altro le periferie continuano a essere abbandonate a sé stesse; i militari occupano molte parti della città per il pericolo terrorismo, mentre poveri e immigrati creano veri e propri accampamenti dove poter vivere.

In questo contesto sociale ed economico, in cui vige la legge del più forte e in cui si innesca una vera e propria guerra tra poveri, categoria cui ormai appartengono indistintamente francesi e immigrati, ciò che viene dolorosamente sacrificato e continuamente calpestato sono le vite e la dignità delle persone, inevitabilmente ridotte alla disperazione e disposte a fare qualunque cosa per sopravvive, mentre chi si arricchisce lo fa sempre di più senza alcuno scrupolo morale.

Il Ken Loach francese disegna un quadro a tinte fosche della contemporaneità, rappresentando una spirale distruttiva nella quale dimensione personale e sociale contribuiscono entrambe alla decadenza di un'intera civiltà.

Quello di Guédiguian è evidentemente un grido di dolore che nasce da uno specifico luogo, una città, quella Marsiglia ch'egli ama molto e che probabilmente non riconosce più, e si allarga a una società intera il cui funzionamento, sotto la falsa promessa di opportunità a disposizione di tutti, polarizza i guadagni e distrugge le vite.

La speranza di futuro normalmente associata a una nuova vita è qui capovolta in assenza di prospettive, e viene inevitabilmente da chiedersi quale futuro stiamo preparando per tutte le Gloria del mondo.

E forse, come il suo protagonista Daniel, anche il regista preferisce la privazione della libertà del carcere alla libertà solo apparente che la nostra società ci offre.

Voto: 3,5/5

venerdì 27 settembre 2019

Asimmetria / Lisa Halliday

Asimmetria / Lisa Halliday; trad. di Federica Aceto. Milano: Feltrinelli, 2018.

Avevo affrontato la lettura di questo libro con entusiasmo e grandi aspettative, avendone letto ovunque elogi e meraviglie. L'opera prima di Lisa Halliday è infatti considerata quasi unanimemente uno dei casi letterari del 2018 e la sua autrice una vera e propria rivelazione.

Faccio dunque fatica a scriverne qui in maniera meno che entusiastica. Devo però confessare che Asimmetria non mi è piaciuto granché e ho fatto una fatica enorme ad arrivare all'ultima pagina, complice il fatto che non sono riuscita a entrare in sintonia con i personaggi e la lettura non mi ha comunicato emozioni particolari.

Il libro si articola in tre parti. La prima, Follia, vede protagonisti un vecchio scrittore blasonatissimo, Ezra Blazer, vincitore del Pulitzer, e Alice, una giovane redattrice di una casa editrice che forse aspira a diventare scrittrice, ma intanto non ha ancora le idee chiare su quello che vuole fare della sua vita.

I due si incontrano sulla panchina di un parco e iniziano una relazione, certo una relazione anomala, vista la differenza di età - e non solo - ma pur sempre una relazione che, oltre alla passione condivisa per il baseball, sembra avere un significato più profondo per entrambi.

Questa parte del libro è stata la più chiacchierata perché pare sia ispirata all'autobiografia della scrittrice, che ha avuto, quand'era molto giovane, una storia con il grande scrittore Philip Roth.

La seconda parte si intitola Pazzia e ha come protagonista Amar Jafaari, un economista di origine irachena che è di passaggio all'aeroporto di Heathrow a Londra, ma viene qui fermato per una serie di controlli più approfonditi. Tra un controllo e l'altro Amar ci racconta pezzi della sua storia, di come la sua famiglia si sia trasferita in America, suo fratello abbia deciso di tornare in Iraq e alcune altre vicende che hanno segnato la sua vita.

L'ultima parte, Desert island discs, vede di nuovo protagonista Ezra Blazer, questa volta ospite della nota trasmissione radiofonica in cui si devono scegliere i dischi che si porterebbero con sé sull'isola deserta. Nel corso dell'intervista c'è un breve accenno, non del tutto esplicito, ad Alice e al fatto che possa essere lei l'autrice del racconto Pazzia.

I critici si sono scatenati nel trovare correlazioni tra quanto letto e il titolo scelto dalla Halliday, riconoscendo le molteplici 'asimmetrie' presenti nel romanzo: tra vecchiaia e giovinezza, salute e malattia, fama e ordinarietà, Oriente e Occidente ecc. Ma a me sembra un po' pochino per parlare di un grande romanzo.

Ciò che, dal mio punto di vista, va invece certamente riconosciuto alla Halliday è la qualità della scrittura, che forse rappresenta il principale motivo che mi ha spinto ad andare avanti nella lettura pur non essendo particolare presa dalla narrazione. Il che poi non vuol dire che non abbia trovato alcuni spunti interessanti e talvolta persino illuminanti, ma sono abbastanza sicura che - a parte queste poche cose - quello che ho letto scivolerà via dalla mia memoria in un battito di ciglia.

Voto: 2,5/5

mercoledì 25 settembre 2019

Jeedar El Sot = All this victory

Sempre nell'ambito della rassegna Da Venezia a Roma, io e F. andiamo a vedere questo film libanese, Jeedar El Sot, reso in inglese con All this victory e che - come ci dice il critico cinematografico che presenta il film al Nuovo Olimpia - in italiano potrebbe diventare La vittoria di Pirro.

Il film ha vinto il Premio Circolo del Cinema della 34. Settimana Internazionale della Critica, nonché il Premio Mario Serandrei, Hotel Saturnia & International per il Miglior Contributo Tecnico alla 76ma Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.

Siamo nel luglio del 2006, durante il periodo della ripresa degli scontri tra esercito israeliano e Hezbollah nei territori del Sud del Libano, seguito alla prima guerra israelo-libanese del 1982.

Durante una tregua della guerra, Marwan decide di andare verso il sud del paese per convincere il padre a seguirlo a Beirut. Quando arriva nel paese del padre, intorno a lui ci sono solo distruzione e macerie, e mentre lo cerca i bombardamenti ricominciano. Marwan si rifugia così in una casa insieme a due anziani libanesi, entrambi ex combattenti durante la prima guerra. Dopo poco arrivano in casa anche un uomo e sua moglie, intenzionati a fuggire dal Sud.

L'arrivo di un manipolo di soldati israeliani che si installano al piano di sopra della casa rende la situazione ancora più surreale e tesa. Ora i cinque libanesi non solo devo difendersi dai bombardamenti sulla zona, ma devono occultare la loro presenza ai soldati e difendersi dal fuoco amico dei miliziani che non sanno della loro presenza.

Il film di Ahmad Ghossein mi ha riportato inevitabilmente alla mente il film di Philippe Van Leeuw, Insyriated, che avevo visto più di un anno fa e che raccontava - pur in un contesto e circostanze diverse - una situazione simile, quella di una famiglia (allargata) assediata in casa a causa dei bombardamenti e dei cecchini sempre all'erta.

Mentre nel film di Van Leeuw gli abitanti della casa cercano - ognuno a suo modo - di far finta che la vita all'interno delle pareti domestiche continui come al solito, in All this victory i protagonisti, di fronte all'assedio e alla paura di morire, vanno incontro a una escalation emotiva che determina comportamenti che oscillano tra l'eroico e l'irrazionale.

Si conferma - come già avevo avuto modo di osservare alla fine della visione di Insyriated - che questo modo di raccontare la guerra è persino più efficace che mostrare conflitti a fuoco e distruzioni in maniera esplicita, perché ciò che fa della guerra quella cosa orribile che andrebbe cancellata dalla faccia della terra è la condizione di terrore costante e la disumanizzazione che produce nelle persone che vi si trovano - a vario titolo - coinvolte.

Il regista Ghossein sceglie di non spiegare il contesto e di non fornire dettagli sui protagonisti di questa vicenda, lasciando allo spettatore la necessità da un lato di informarsi, dall'altro di intuire e ricostruire sulla base degli indizi. Questa componente indefinita e sospesa è forse anche lo strumento ch'egli utilizza per far passare l'idea che quello che sta raccontando non è un momento storico concluso, bensì una condizione che riguarda ancora l'attualità del suo paese.

Il titolo All this victory (La vittoria di Pirro) è poi la sua dichiarazione politica dell'inutilità di un conflitto in cui non ci sono vincitori, ma solo vinti.

Voto: 3,5/5

lunedì 23 settembre 2019

Once upon a time... in Hollywood = C'era una volta... a Hollywood

Devo fare una premessa indispensabile per chi si appresta a leggere queste mie riflessioni: non amo Tarantino, ho visto poco della sua filmografia e non appartengo alla schiera di chi considera alcuni suoi film dei cult, anche se ne riconosco l'originalità del linguaggio e certamente vedo in lui una delle figure segnanti della storia della cinematografia recente. Quindi, immagino che i fans del regista potrebbero non condividere quanto mi appresto a scrivere. Se può servire, dichiaro fin da subito che le mie valutazioni non riguardano le qualità del regista, bensì il mio personale gusto rispetto ai suoi film ;-)

Fatta questa premessa, è doveroso anche spiegare perché sono andata a vedere C'era una volta... a Hollywood (rigorosamente - va da sé - in lingua originale). Essendo un'appassionata di cinema, ho pensato che non potevo perdere il film di Tarantino che più di tutti e più esplicitamente è un atto d'amore verso il cinema.

Siamo nell’estate del 1969. Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) è una star della televisione che sta faticosamente tentando di rimanere a galla nel competitivo mondo hollywoodiano interpretando la parte del cattivo nel prolifico filone dei film western. Cliff Booth (Brad Pitt) è uno stuntman e fa la controfigura di Rick nelle scene più pericolose, nonché il suo tuttofare. I due sono anche molto amici e, anche se Cliff vive in una roulotte con il suo cane, spesso si ritrovano entrambi nella villa che Rick possiede a Hollywood, a Cielo Drive. Suoi vicini di casa sono Roman Polanski (Rafał Zawierucha), il regista già affermato di Rosemary's Baby, e sua moglie Sharon Tate (Margot Robbie), diva emergente di Hollywood.

La storia piccola e, se vogliamo, minore di Rick e Cliff finirà per incrociarsi con la vicenda che vedrà tragicamente protagonista Sharon Tate e che assurgerà all'onore delle cronache, sebbene Tarantino decida di sparigliare le carte e di utilizzare il cinema per riscrivere la storia, attribuendo alla settima arte un potere dunque straordinario.

Del resto, non potrebbe che essere questa la conclusione di un film che è un appassionato omaggio al cinema, soprattutto a quella Hollywood che nel 1969 era ancora una grande fabbrica dei sogni nonché un'industria basata non tanto sull'eccezionalità delle grandi produzioni bensì sulla quotidianità di una macchina che lavorava a ciclo continuo sfornando prodotti di tutti i tipi e a tutti i livelli.

Il film è pieno zeppo di citazioni esplicite e meno esplicite e Tarantino si diverte a ricreare oggi sequenze di film del passato o scene che da quel passato sembrano venire. Il divertimento che si coglie dietro questa operazione da parte del regista è tale da prendergli un po' troppo la mano producendo qualche momento di stanchezza nella narrazione e anche qualche lungaggine dal carattere tipicamente onanistico. Tra l’altro il suo citazionismo spinto, che pure è una sua tipica caratteristica, qui opera per tale accumulazione da risultare sovrabbondante fino a sommergere la pellicola e indebolirne la struttura.

In C'era una volta... a Hollywood è come se il cinema diventasse un grande e costoso giocattolo nelle mani di Tarantino che qui si diverte a realizzare in pellicola tutti i suoi desideri d'infanzia, dichiarando un incondizionato amore per il cinema "di serie B" e per tutti gli artigiani di Hollywood che sono stati dimenticati dalla storia ma che ne hanno fatto la grandezza. L'amore di Tarantino per questa Hollywood mitologica che forse esiste solo nella sua mente, e che infatti lui stesso colloca su un piano fiabesco come dichiara nel titolo, è confermato dal fatto che proprio ai suoi protagonisti è affidato il compito di "sacrificare" sé stessi per salvare la Hollywood che verrà.

Leonardo Di Caprio e Brad Pitt sono teneri e divertenti al punto giusto, adorabili ciascuno nella propria parte, perfettamente a proprio agio in quello stile grottesco e sopra le righe che è ormai il marchio di fabbrica del regista di Knoxville. Veri mattatori e grandi attori che illuminano la pellicola anche solo con la loro presenza.

Voto: 3/5


venerdì 20 settembre 2019

La vita invisibile di Eurídice Gusmão

Siamo nel Brasile dei primissimi anni Cinquanta. Eurídice (Carol Duarte) e Guida (Julia Stockler) sono sorelle e hanno circa vent'anni entrambe. Pur non essendo gemelle (un paio d'anni corrono tra l'una e l'altra), un amore smodato le unisce e le rende complici di fronte a una famiglia conservatrice e maschilista, in cui la madre è l'ombra del padre.

Quando Guida esce con il suo fidanzato marinaio, Eurídice la copre, ma Guida fugge di casa andando incontro a una gravidanza non prevista e all'abbandono da parte del padre del bambino. Nel frattempo Eurídice, che ha un grande talento nel suonare il pianoforte, per assecondare il volere paterno, si sposa, continuando però a coltivare il sogno di entrare in conservatorio.

Quando Guida ritorna a casa incinta, il padre la caccia di casa e le fa credere che la sorella viva a Vienna. Iniziano così le storie parallele e complementari delle due sorelle, e i loro tentativi fallimentari di ritrovarsi e ricongiungersi.

Guida finisce per strada fino a quando non trova in Filo una specie di madre putativa che aiuta lei e suo figlio a costruirsi un futuro; Eurídice rimane incinta del marito prima di quanto vorrebbe, ma nonostante tutto continua a inseguire il suo sogno di diventare pianista fino a quando si scontrerà con la notizia della morte della sorella e poi con quella di una seconda gravidanza.

Il film di Karim Aïnouz, tratto dal romanzo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione di Martha Batalha, racconta non solo la storia di due donne, ma anche quella di una intera società fortemente maschilista e patriarcale, in cui gli uomini si fidano solo degli uomini e le donne sono chiamate ad aderire perfettamente alle aspettative sociali che le vogliono mogli e madri, soffocando le proprie aspirazioni ovvero pagando con l'emarginazione i propri "errori" agli occhi della morale dominante.

Nel film la relazione - sebbene a distanza - tra le due sorelle è l'elemento centrale della narrazione, ma alcuni indizi (penso al titolo e allo sviluppo narrativo) svelano che la figura destinata a suscitare più riflessioni è quella di Eurídice. Guida è infatti la figlia ribelle che in fondo prova a scegliere sempre secondo il proprio cuore e - sebbene ingiustamente - paga per quello che viene considerato un errore irredimibile, cosa che però non le impedisce di trovare una propria dimensione di vita più vera e sincera. Eurídice è la figlia integrata, quella che accetta e si adegua e che, dunque, vive una vita "normale" vista dall'esterno; nelle ultime sequenze del film Eurídice ormai anziana è circondata da figli e nipoti, nel pieno compimento della "normalizzazione" a cui la sua vita è stata sottoposta. Il dramma di Eurídice è un dramma che hanno vissuto milioni di donne in tutto il mondo, in epoche diverse e in paesi diversi, e che non è percepito nemmeno come tale; il dolore di Eurídice è un dolore invisibile e interno che non è mai uscito dalle pareti della casa prima paterna e poi coniugale.

Quello di Guida ed Eurídice non è un mondo così lontano, visto che una storia di questo genere potrebbe tranquillamente essere quella di una delle nostre madri che erano giovani negli anni Cinquanta. Chissà se l'umanità prima della sua inevitabile estinzione riuscirà a ricomporre la ferita profonda e ancora non del tutto sanata che ha inferto nei confronti della metà femminile della sua popolazione, restituendo alle donne dignità, parità e libertà di scelta.

La vita invisibile di Eurídice Gusmão è un film che mescola generi, pur situandosi appieno nel registro melò tipico della cinematografia sudamericana, riuscendo a fondere perfettamente - come dice Boille - il cinema d'autore con la telenovela. Personalmente si tratta di un linguaggio e di una cultura con cui non riesco pienamente a empatizzare (nemmeno sul fronte letterario), ma il film di Karim Aïnouz centra sicuramente il bersaglio.

Voto: 3,5/5

mercoledì 18 settembre 2019

Madre

La sequenza iniziale del film di Rodrigo Sorogoyen (regista che già avevo avuto modo di apprezzare per El Reino, appena uscito in Italia) è tra le più fulminanti e cariche di tensione che mi sia capitato di vedere al cinema negli ultimi anni, confermando fin da subito il talento di questo giovane regista.

Questa sequenza, nata in realtà come un cortometraggio, diventa qui il prologo del film: Elena (la straordinaria Marta Nieto, che ha meritatamente vinto il Premio Orizzonti per la miglior interpretazione femminile) sta chiacchierando con sua madre a casa prima di uscire con degli amici quando riceve la telefonata del figlio di sei anni, che è in vacanza con il padre, nonché ex marito di Elena. Il bambino dice di essere da solo su una spiaggia in Francia, ma non ne conosce il nome, non sa dove sia il padre che si è allontanato per andare al camper, e a un certo punto vede un uomo avvicinarglisi minacciosamente, mentre il cellulare si sta scaricando fino a quando cade la linea, in un crescendo di tensione e di disperazione di fronte alla quale Elena è totalmente impotente.

Stacco. Dieci anni dopo.

Elena si è trasferita a vivere sulla spiaggia da dove suo figlio l'ha chiamata l'ultima volta, figlio che da allora non ha più visto (sparito e forse ucciso). Qui gestisce un ristorante e fa una vita molto abitudinaria, scossa dai frequenti incubi in cui sogna la spiaggia deserta e minacciosa e rivive l'angoscia della perdita del figlio. Elena - che tutti chiamano "la pazza della spiaggia" - non è riuscita evidentemente a elaborare il lutto e si è messa nella condizione di rivivere tutti i giorni questo abbandono.

Fino a quando, un giorno, passeggiando sulla battigia vede Jean (Jules Porier), un ragazzo di 16 anni che le ricorda moltissimo suo figlio, al punto tale da spingersi a seguirlo fino a casa. Il ragazzo, incuriosito dall'attenzione di questa donna che ha l'età dei suoi genitori, decide di approfondire questa conoscenza e comincia a creare sempre più occasioni per trascorrere del tempo con Elena, la quale non si sottrae a questo rapporto, pur intuendone le implicazioni e i rischi.

Tra Elena e Jean nasce un sentimento che è difficile etichettare e/o catalogare e che si muove sul crinale sottile che separa un affetto di natura materna da un'attrazione di tipo sessuale e che introduce nella narrazione numerosi elementi di ambiguità che Sorogoyen si guarda bene dallo sciogliere.

Nella storia di Elena ci sono molti sottintesi e non detti, almeno rispetto allo spettatore che dunque è chiamato a riempire i vuoti con la propria sensibilità e a dare la propria interpretazione degli eventi.

Io l'ho letta come una storia di salvezza e di candore: Jean è in un'età in cui si affaccia alla vita adulta ma - a differenza di suo fratello maggiore - conserva una parte della purezza dell'infanzia e questo gli consente di vedere Elena nella sua complessità e nel suo dolore; Elena vive invece in un limbo da cui non riesce a uscire, una specie di transizione infinita, che per certi versi è punteggiata di altrettanti elementi di ingenuità e incertezza.

Non sapremo mai cosa accade nella macchina durante il loro addio e che cosa i due si dicano; quello che sappiamo è che entrambi escono da quel bosco pacificati, mentre l'ambiguità del loro rapporto si è trasformata per tutti e due, seppure in modo diverso, in rottura dei confini, quello anagrafico per il primo e quello della storia personale per la seconda.

Jean ne esce più adulto e consapevole del suo ruolo e dei suoi sentimenti, Elena invece riesce a portare a compimento il processo iniziato quando si è trasferita a vivere sulla spiaggia dove ha perso il figlio, avendolo ritrovato per interposta persona attraverso Jean, e così consente finalmente a sé stessa di perdonarsi e di perdonare.

Il mondo intorno può solo provare a interpretare questa storia utilizzando i limitati parametri offerti dalla propria sensibilità individuale e dalle norme sociali, e forse Sorogoyen ci sta anche dicendo che questi strumenti risultano ancora più limitati se utilizzati per comprendere la complessità di sentimenti e l'unicità del legame che unisce una madre a un figlio.

Film da vedere (tanto più che è ambientato in posti bellissimi e che io amo molto, ossia nella regione delle Lande francesi). E cinema spagnolo da seguire con sempre maggiore attenzione.

Voto: 4/5


lunedì 16 settembre 2019

Mademoiselle

Quando avevo visto al cinema il trailer di questo film (del 2016, ma solo ora approdato alle sale italiane) di Park Chan-Wook, il regista cult della cosiddetta trilogia della vendetta, ossia i tre film Mr. Vendetta, Old boy e Lady Vendetta, ero rimasta un po' perplessa e non l'avevo inserito nella mia personale lista delle cose da andare a vedere il prima possibile. Poi, su iniziativa di M., mi decido ad affrontare queste quasi due ore e mezza di film, e scopro solo poche ore prima di andare al cinema che Mademoiselle è tratto dal romanzo di Sarah Waters Fingersmith (Ladra), che ho letto tempo fa e di cui ho visto la trasposizione fatta dalla BBC (che avevo amato molto).

Trattandosi di una storia che in buona parte si regge sulla potenza dei colpi di scena, so già che questo aspetto della narrazione me lo sono giocato, ma sono curiosa di vedere come Park Chan-Wook abbia trasferito la storia di ambientazione vittoriana della ricca e infelice ereditiera che vive nella grande casa di suo zio, della sua dama di compagnia (figlia di un'assassina) e del (finto) conte nella Corea degli anni Trenta sotto la dominazione giapponese.

Non volendo rivelare niente della trama, che comunque segue abbastanza fedelmente l'intreccio immaginato dalla Waters, pur modificandone qualche dettaglio e indugiando forse eccessivamente su alcuni passaggi, è sicuramente apprezzabile la sontuosa confezione del film, che dal punto di vista estetico è di quelle da lasciare a bocca aperta, a partire dalle ambientazioni per finire ai costumi. A valorizzare ambienti e persone c'è poi la maestria del regista capace di aggiungere bellezza a bellezza.

Questa scelta fortemente estetizzante finisce però secondo me per andare a scapito della forza emotiva del film, che pure - per i temi trattati e per il modo in cui li affronta - sarebbe naturalmente destinato a generare un impatto forte sullo spettatore, tanto più che il regista in questo caso decide di calcare la mano sulla componente morbosa e, verso la fine, su quella truce e splatter della storia.

In realtà, per come l'ho vissuto io, il film resta algido nella sua evoluzione, quasi un esercizio di stile privo di partecipazione sincera, in cui la potenza dei sentimenti (positivi e negativi) - che è il vero senso del romanzo della Waters - rimane soffocata dalla necessità del regista di spiegare e mostrare tutto in maniera alfine talmente didascalica da risultare stucchevole. Le protagoniste, pur bellissime e ciascuna azzeccata nella sua parte, appaiono fredde e distanti, persino nelle insistite e tutto sommato un po' posate scene di sesso; il conte e soprattutto lo zio di Lady Hideko virano a più riprese verso il macchiettistico, rendendo alcuni passaggi quasi risibili agli occhi dello spettatore.

È chiaro che non ci si poteva aspettare da un autore coreano che ambienta il suo film nella Corea degli anni Trenta la passione densa di sentimenti che traspare dalle pagine della Waters e che la BBC ha saputo perfettamente trasmettere anche grazie alle bravissime Elaine Cassidy e Sally Hawkins, e sicuramente ci sfugge la complessità di un contesto culturale, storico e antropologico che probabilmente spiegherebbe alcune scelte, ma certo il regista non ci aiuta a capire e forse nemmeno ad apprezzare.

Personalmente propendo per l'ipotesi di un esperimento di trasposizione non particolarmente riuscito per un regista forse un po' a corto di idee che sembra voler rimestare nel suo repertorio senza originalità premendo su alcuni tasti con la sola intenzione di conquistare il favore del pubblico e della critica cinematografica. A questo punto aspetto con ansia il suo prossimo lavoro per potermi ricredere e ritrovare la forza dirompente che ha fatto di Park Chan-Wook uno dei registi più originali e imprevedibili degli ultimi decenni.

Voto: 2,5/5

mercoledì 11 settembre 2019

Non è te che aspettavo / Fabien Toulmé

Non è te che aspettavo / Fabien Toulmé. Milano: Bao Publishing, 2018.

Dopo una lunga fase di pausa dalla lettura dei graphic novel (forse avevo raggiunto un punto di saturazione, mi capita spesso in molti ambiti), è l'albo di Fabien Toulmé ad attirare la mia attenzione e a tenermi sveglia una sera fino a quando non giro l'ultima pagina.

Come spessissimo accade per i fumetti (e anzi bisognerebbe indagare sul perché - forse qualcuno l'ha già fatto), anche questo albo è autobiografico. Il protagonista è infatti lo stesso Fabien all'epoca in cui sua moglie aspettava la loro seconda figlia, Julia, e insieme avevano deciso di trasferirsi dal Brasile in Francia.

Non è te che aspettavo è la storia toccante di un padre che deve fare i conti con il fatto che sua figlia è trisomica e che deve gestire quell’insieme complesso di sentimenti – e a volte di non sentimenti - che questa scoperta porta con sé: la paura, la rabbia, la non accettazione e la quasi indifferenza, poi il senso di colpa, il lento avvicinamento, la tenerezza crescente, infine la gioia di una persona da amare e da cui essere amati.

In questo tempo la vita va avanti, c’è un nuovo cambio di città e poi di lavoro, le bambine crescono e la famiglia trova un nuovo equilibrio e una nuova normalità, mentre Fabien a poco a poco riesce a non vedere più in Julia una bambina Down, ma una persona con la sua unicità.

Il racconto a fumetti di Fabien Toulmé è al contempo delicato ma assolutamente sincero: l’autore e protagonista non nasconde a sé stesso e agli altri i suoi sentimenti, anche quelli più riprovevoli e spiacevoli, e in qualche modo attraverso questo albo li metabolizza come caratteristiche della nostra fragile e complessa natura umana.

Nella continuità di un tratto che mi ha ricordato un po’ lo stile di Guy Delisle, i capitoli di questo racconto sono caratterizzati dal variare della dominante di colore, in genere non scelto casualmente ma per rappresentare un luogo o uno stato d’animo: così ci sono capitoli tutti virati al giallo (per esempio quello iniziale ambientato in Brasile) e altri virati al verde e al grigio (come i capitoli ambientati in ospedale e nella periferia parigina).

Grazie a Fabien Toulmé per avermi riavvicinata al fumetto e avermi fatto venire voglia di recuperare e leggere tutti i graphic novel che avevo comprato e non ancora letto.

Voto: 3,5/5

lunedì 9 settembre 2019

L'ospite

Inauguro la stagione cinematografica dopo la tutto sommato breve pausa estiva con questo bel film di Duccio Chiarini, che con questa sceneggiatura - scritta insieme a Davide Lantieri e Roan Johnson con il titolo I divani degli altri - è stato finalista nel 2011 al Premio Solinas.

Il testo - come spesso accade nel mondo del cinema - ci ha messo parecchi anni a trasformarsi in film e ad arrivare nelle sale cinematografiche, ma finalmente eccolo qui, impreziosito dalle belle interpretazioni di Daniele Parisi e Silvia D'Amico, già protagonisti di quel piccolo cult che è diventato Orecchie.

L'ospite è la storia di Guido (Daniele Parisi) che ha circa quarant'anni, vive con la sua compagna Chiara (Silvia D'Amico) e collabora con una professoressa universitaria che gli promette da anni la pubblicazione di un saggio e un assegno di ricerca che non arrivano. Questo mondo già di per sé precario esplode quando, dopo un rapporto sessuale, a causa della rottura di un preservativo c'è il rischio che Chiara sia rimasta incinta.

Di fronte a questa possibilità Guido e Chiara reagiscono in modo diverso: mentre il primo è più possibilista e in fondo fatalista, Chiara vede nella nascita di un figlio la fine delle sue possibilità di realizzarsi, lei che ha dovuto ripiegare su un lavoro da guida turistica per sbarcare il lunario. Il rapporto tra i due va in crisi e, per mettere un po' di distanza tra loro, Guido decide di andare via di casa appoggiandosi di volta in volta dai suoi genitori (conflittuali ma insieme da una vita) oppure dagli amici Lucia (sposata, con un figlio e in attesa di un secondo bambino) e Pietro (che passa da una fidanzata all'altra senza sosta).

Guido si trova così a oltrepassare la linea di confine che ci tiene a una distanza di sicurezza dalle vite degli altri, bucando la soglia dell'intimità altrui e accorgendosi che intorno a lui non c'è nulla che assomigli a una stabilità affettiva serena: il rapporto tra i genitori è turbolento ma essi appartengono a una generazione abituata "a mettere le toppe" e a superare i problemi, gli amici suoi coetanei - che abbiano o meno costruito una famiglia - sembrano non trovare pace in un turbinio di sentimenti in cui fanno fatica a distinguere tra quelli passeggeri e quelli che non lo sono e che in ogni caso non sanno come gestire all'interno della coppia.

Dentro una confezione in forma di commedia ironica e divertente, Duccio Chiarini ci propone un semiserio trattato di sociologia che sembra affondare le sue radici direttamente nelle riflessioni del grande Zygmunt Bauman, in particolare nel suo Amore liquido.

In un processo di precarizzazione spinta delle proprie vite, qui magistralmente sintetizzato attraverso la metafora del divano, protagonista della locandina e dell'ultima scena del film, la generazione dei trenta-quarantenni - oggetto tra l'altro di molti testi letterari, teatrali e per il cinema - da un lato vive in uno stato di incertezza costante e di impossibilità di programmare il futuro, dall'altro è terrorizzata dalla possibilità che la propria vita si cristallizzi in un senso o in un altro. In questo eterno movimento, temuto e perseguito più o meno inconsciamente, l'inseguimento della "felicità" è un imperativo talvolta male interpretato o comunque difficile da interpretare.

Come canta Brunori Sas nella canzone che interpreta dal vivo nel film, Un errore di distrazione, «Un giorno capirai che non c’era niente da cambiare / non c’era niente da rifare / bastava solo aver pazienza e aspettare che le cose che ogni cosa si aggiustasse da sé. Quel giorno capirai che la passione ha una scadenza che è soltanto una scemenza cercare il cielo in una stanza / ma ti piacciono le favole / è più forte di te».

Nella consapevolezza sempre più forte che l'amore ha una scadenza e che gli argini sociali che ne garantivano la sopravvivenza sono sempre più labili, la domanda che resta sospesa è come affrontare questa verità e dunque come vivere i rapporti di coppia. Senza dubbio in questo momento è un gran casino, in cui nessuno ci capisce niente e ha una valida strategia, ma forse - come dice Chiarini - è una fase di transizione tra il modo di vivere l'amore dei nostri genitori e quello che sarà il modo di viverlo dei nostri nipoti o pronipoti e che forse non riusciamo nemmeno a immaginare. Oppure è un gran casino e basta, e non se ne esce perché il modo in cui siamo fisiologicamente fatti va in contrasto non solo con il nostro sistema sociale ma anche con alcuni nostri bisogni emotivi. Come dico io, c'è qualcosa che deve non aver funzionato alla perfezione nel nostro percorso evolutivo ;-)

Voto: 3,5/5

venerdì 6 settembre 2019

Da grande / Jami Attenberg

Da grande / Jami Attenberg; trad. di Viola Di Grado. Firenze: Giuntina, 2018.

Ho comprato questo libro perché scelto da Vulture, l'inserto del New York Magazine, per la lista dei 100 migliori libri del XXI secolo e anche perché in questa lunghissima lista era tra quelli che mi avevano attirata di più.

Quando ho avuto poi il libro in mano mi ha colpito anche il fatto che la traduttrice è Viola Di Grado, di cui a suo tempo avevo letto e apprezzato il romanzo di esordio, Settanta acrilico trenta lana.

Così mi sono buttata di buon grado nella lettura del romanzo di Jami Attenberg.

La storia è quella di Andrea, una donna che ha ormai una quarantina d'anni (anche se il presente del libro non sempre è facile da individuare, perché la narrazione va avanti e indietro nel tempo capitolo dopo capitolo, senza riferimenti temporali, dunque lasciando al lettore l'onere - ma anche il divertimento - di ricostruire i pezzi del puzzle in una sequenza cronologica corretta) e vive a New York (che come dice lei non è una conquista, ma una sconfitta visto che è la sua città e ci è tornata a vivere dopo aver vissuto a Chicago).

Andrea è single, non è mai stata sposata né vuole farlo, non ha figli né li desidera, è un'artista ma ha mollato l'arte per un deprimente lavoro nel marketing che le consente però di vivere da sola; ha una madre attivista politica, che ha combattuto tutta la vita contro la tossicodipendenza del padre, un fratello musicista che ha sposato una donna che lavora in un magazine e con cui avrà una bambina nata con una disabilità grave e di cui si attende solo la morte. Andrea non rifugge la compagnia maschile, ma le sue storie sono fugaci ovvero di breve durata, per i motivi più vari.

Man mano che gli anni passano Andrea vede le persone che gli stanno intorno "sistemarsi", a partire da suo fratello per arrivare alla sua amica Indigo, che si sposano, fanno dei figli, e cambiano regime di vita.

La domanda che è sottesa a tutto il libro è se si diventa grandi solo una volta che si costruisce una storia seria e magari si fanno anche dei figli, oppure se esiste un altro modo di essere grandi, un modo che non prevede la responsabilità di una famiglia e dei figli, ma che richiede di mettersi comunque di fronte a sé stessi.

La constatazione che attraversa le pagine di Jami Attenberg è che - indipendentemente dalle scelte che si fanno, ossia che ci si sposi o meno, che si abbiano dei figli o meno - arriva per tutti un'età della vita che inevitabilmente comporta la rinuncia ai sogni della giovinezza, alla leggerezza e che porta con sé le paure, le frustrazioni e qualche tristezza, ma anche delle gioie e dei modi nuovi di viverle.

C'è di sottofondo una critica, nemmeno tanto sottile, a una società che - soprattutto nei confronti di una donna - la considera incompleta o con qualche problema se diventa "grande" senza essere in una coppia stabile e senza avere dei figli.

In un certo senso il romanzo della Attenberg sembra dimostrare che non sono le strade che si prendono a fare o no la nostra felicità, bensì il nostro atteggiamento verso la vita e la nostra resilienza di fronte agli eventi. E a suo modo Andrea dimostra di possedere questa dote.

Non si può dire che si esca ottimisti da questa lettura, ma - come nella vita - si alternano sorrisi e dispiaceri, perché niente resta lì per sempre.

Voto: 3/5

mercoledì 4 settembre 2019

Aziza Brahim con Guillermo Aguilar e Ignasi Cussò. Bari in jazz, Il Minareto, Selva di Fasano, 18 agosto 2019

Nei miei giorni di permanenza nel paesello natìo e grazie all’ottimo suggerimento della mia amica M., approfitto della rassegna Bari in jazz per andare ad ascoltare il concerto della cantante Sahrawi Aziza Brahim. In realtà non conosco la sua musica (ho solo ascoltato qualcosa su YouTube e ne ho riconosciuto le assonanze con altri musicisti di quell’area geografica come ad esempio i Tinariwen), però sono particolarmente attirata dalla location, ossia il minareto della Selva di Fasano.

Ero stata alla Selva di Fasano due estati fa con S., ma il minareto ci era sfuggito e invece scopro che è una delle principali attrazioni del luogo, una villa dei primi del Novecento realizzata da Damaso Bianchi in stile eclettico ispirandosi in particolare allo stile moresco (cosa che mi è ricordato un pochino la Rocchetta Mattei di Grizzana Morandi che però è di diversi decenni prima).

La villa, nata con funzioni residenziali, è stata poi donata allo Stato e oggi è di proprietà della Regione Puglia e in concessione al Comune di Fasano che la utilizza per eventi e concerti, come appunto quello che mi appresto a seguire.

Arrivo a ridosso delle 21, orario di inizio previsto per il concerto, ma ancora non c’è tanta folla e riesco a sedermi in prima fila con la mia fidata macchina fotografica. Il concerto inizia quasi alle 22, quando il cortile è praticamente strapieno di gente e l’aria fresca della selva suggerisce di indossare una giacchetta o un maglioncino.

Aziza Brahim, che viene dal Sahara occidentale, regione da cui è dovuta fuggire molto presto rifugiandosi prima a Cuba e poi a Barcellona, si presenta stasera insieme a due musicisti che avremo modo di apprezzare nel corso della serata, il bassista Guillermo Aguilar e il chitarrista Ignasi Cussò.

La sua musica ci propone le sonorità tipiche del Sahara, sottolineate anche dalle percussioni suonate dalla stessa Aziza, però queste sonorità sono impacchettate dentro arrangiamenti che mescolano Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo, grazie alle abilità tecniche davvero notevoli dei due musicisti.

Con questo linguaggio musicale multiculturale Aziza Brahim nelle sue canzoni affronta tutti i più importanti temi della contemporaneità, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dai diritti delle donne alla pace nel mondo, fino alla resistenza dei popoli per la loro autodeterminazione.

I contenuti delle canzoni non sono meno importanti della loro musicalità e per questo Aziza ce le introduce a una a una in uno spagnolo chiaro e comprensibile.

Dopo un’ora di concerto, Aziza e i suoi lasciano il palco, ma il pubblico li reclama a gran voce, cosicché i tre tornano regalandoci un’altra canzone che contiene anche assoli al basso e alla chitarra (come del resto diverse delle precedenti) e un canto di Aziza senza accompagnamenti musicali, che manda in visibilio il ragazzo disabile che sulla sua carrozzina ha seguito con entusiasmo il concerto dalla prima fila.

Bellissima esperienza.

Peccato che il giorno seguente scopriamo che qualcuno ha rigato con una chiave la macchina di mio padre, con cui sono andata al concerto, cosa di cui la sera prima non mi ero accorta e non so se è accaduto mentre l’auto era parcheggiata – in modo del tutto regolare – alla Selva oppure durante la notte sotto casa dei miei.

Voto: 4/5

lunedì 2 settembre 2019

La bastarda della Carolina / Dorothy Allison

La bastarda della Carolina / Dorothy Allison; trad. di Sara Bilotti. Roma: minimum fax, 2018.

Siamo negli anni Cinquanta in South Carolina. Bone è la prima figlia della giovanissima Annie e non sa né saprà mai chi è suo padre. Alla sua nascita sua madre non può impedire che sul certificato compaia il timbro "bastarda".

Il romanzo di Dorothy Allison, in parte autobiografico, ci racconta l'infanzia e la prima adolescenza di Bone e, attraverso la sua storia, ci descrive un mondo fatto di povertà, di violenza, di sensi di colpa, ma anche di grandi affetti e di generosità.

Bone cresce divisa tra la famiglia di provenienza della madre, i Boatwright, una piccola tribu composta di nonna, zii, zie e cugini di varie età, che costituisce per la bambina una straordinaria rete di salvataggio in diversi momenti della sua esistenza, e il nucleo familiare ristretto a cui appartiene, composto - oltre che da lei e dalla madre - dalla sorella più piccola, Reese, figlia di un altro padre, e da papà Glen, l'uomo che Annie ha scelto dopo la morte del suo ultimo compagno.

Se da una parte la famiglia Boatwright lotta quotidianamente contro la povertà e la follia dei suoi componenti, ghettizzata dalla comunità cui appartiene per i comportamenti estremi in particolare degli uomini della famiglia che entrano ed escono dalla prigione, dall'altro papà Glen manifesta a poco a poco la sua frustrazione profonda dovuta principalmente a un padre anaffettivo che considera il figlio un fallito; cosicché dietro un'apparenza mite e composta, Glen dimostra di nascondere un'anima nera e uno squilibrio emotivo che si riverserà su Bone, oggetto al contempo di attrazione morbosa e di odio profondo.

Il giorno in cui sua madre sarà in ospedale per il travaglio della nascita di un terzo figlio che però nascerà morto, Bone - che aspetta in macchina con papà Glen - subirà la prima violenza, un trauma di cui la bambina non parlerà con nessuno, schiacciata dal senso di colpa e dall'istinto di proteggere sua madre da questa verità.

È su questo asse che si snodano e si ricompongono tutte le storie che attraversano il romanzo e che a volte sembrano vere e proprie parentesi o digressioni quasi compiute in sé stesse, ma che aiutano da un lato a tracciare i contorni di questo mondo e dall'altro a comprendere la psicologia di Bone e la sua evoluzione. Tra periodi di allontanamento dalla propria famiglia, vissuti sotto l'ala protettrice delle zie, Ruth, Alma e Raylene, o al seguito di conoscenti, come ad esempio la famiglia di Shannon, e periodi di terrore vissuti nella casa materna cercando di stare il più possibile fuori casa e di incontrare il meno possibile papà Glen, il vero cuore di questa storia è il rapporto tra madre e figlia e la rottura della fiducia che si consuma a poco a poco e diventa alfine irreversibile.

Bone ama sua madre ed Annie ama altrettanto sua figlia, ma questo amore da cui Bone si aspetta protezione deve fare i conti con l'immaturità e le carenze affettive di Annie che inquinano il legame di lei con Glen, un legame incredibilmente cieco fino a un certo punto e poi - di fronte all'evidenza della violenza di Glen nei confronti di Bone - talmente condizionato dal bisogno affettivo e talmente assolutizzante da determinare una scelta assurda e incomprensibile.

Dorothy Allison scrive un romanzo potente e lo fa senza mezzi termini e senza edulcorare né ingentilire la forza e il peso specifico dei sentimenti e dei pensieri che si sviluppano in questa bambina (e poi ragazzina), che inevitabilmente riconosce nella violenza l'unico linguaggio della sessualità. La scelta di raccontare esplicitamente i pensieri di Bone, anche quelli socialmente e moralmente più difficili da accettare, è un esercizio di verità che illumina e amplifica di converso anche i sentimenti positivi e i momenti di felicità e spensieratezza. Perché questo libro non è solo dramma e tragedia, ma sa mescolare registri e sentimenti di segno opposto che - come nella vita vissuta - sono difficili, talvolta impossibili da districare e tenere separati.

Uno dei pochi libri - tra quelli che ho letto - che ha anche il coraggio di sfatare il mito dell'infanzia (prima ancora che dell'adolescenza) come un'età non semplicisticamente felice e spensierata - circondata com'è spesso in letteratura e nell'immaginario collettivo da un alone di buoni sentimenti - bensì di rappresentarla nella sua totalità, ossia animata anche da pensieri negativi e da una cattiveria che è insita dentro di noi, esattamente come i sentimenti positivi, e che il contesto può alimentare o aiutare a depotenziare.

Il fatto che il romanzo di Dorothy Allison, come lei stessa ci racconta nella postfazione, abbia subito diversi tentativi di censura la dice lunga sull'ipocrisia della nostra società e sulla nostra conseguente incapacità di gestire la complessità.

Voto: 4/5