Con la visione di Dreams (Drømmer) sono al secondo capitolo della trilogia di Dag Johan Haugerud, avendo già visto lo scorso autunno Love grazie alla Festa del cinema di Roma. Il terzo capitolo, Sex, dovrebbe uscire prossimamente, il che vuol dire che la mia visione sarà inversa rispetto all’ordine previsto dal regista.
D’altra parte i tre capitoli della trilogia sono indipendenti l’uno dall’altro, storie autoconcluse, in cui al massimo ci sono alcuni accennati rimandi trasversali. Ciò che li tiene insieme è la riflessione sulle relazioni e le diverse sfaccettature che le caratterizzano.
In Dreams la protagonista è la diciassettenne Johanne (Ella Øverbye), la quale racconta, attraverso un testo scritto, il suo innamoramento per la sua nuova insegnante Johanna (Selome Emnetu), che diventa l’oggetto totalizzante dei suoi interessi, dei suoi pensieri e del suo amore, fino a spingerla a presentarsi davanti alla porta della sua casa. Oggetto della narrazione non è però solo questo amore adolescenziale, bensì anche la narrazione scritta dello stesso. È infatti proprio attraverso il testo scritto che Johanne condivide i suoi sentimenti e la storia che ha vissuto prima con la nonna Karin (Anne Marit Jacobsen), poetessa, poi con la madre Kristin (Ane Dahl Torp), le quali, dopo qualche turbamento iniziale, riconoscono la forza emotiva e letteraria di questo testo e cominciano a discutere tra loro e con Johanne della possibilità di pubblicarlo.
In questo capitolo della trilogia personalmente ho riconosciuto proprio in questo rapporto tra vita vissuta e racconto, e tanto più autoracconto, il nodo cruciale della narrazione. Che cos’è in fondo la scrittura se non il modo principale che l’essere umano ha per trasformare sogni ed emozioni in parole? E Haugerud lo sa molto bene, visto che prima ancora che regista è soprattutto scrittore, prestato al cinema dalla letteratura.
Del resto, i suoi film sono profondamente letterari, non solo per i richiami che contengono (qui la protagonista sembra rivivere nella vita reale quanto ha letto nel romanzo Esprit de famille), ma anche e soprattutto perché sono un flusso quasi ininterrotto di pensieri e conversazioni, parole che vanno a indagare ogni aspetto della vita vissuta, nella ricerca ininterrotta di un significato, di un’interpretazione delle cose.
Questa caratteristica, che è probabilmente il marchio di fabbrica del cinema di Haugerud, e che la Berlinale ha voluto premiare con l’Orso d’oro, dal mio punto di vista è anche il suo punto debole, o forse semplicemente è un aspetto che risuona poco con il mio modo di essere, almeno quello attuale. C’è probabilmente anche una forma di distanza culturale – che già avevo avvertito in Love – che rende ai miei occhi alcune conversazioni dei suoi film poco naturali, meccaniche, quasi grottesche (non mi stupisce in questo senso che in sala c’erano diverse persone che ridevano per scene del film che forse non erano pensate per far ridere). Mi sconcerta – ma forse le due cose non sono in contraddizione - il fatto che una società come quella norvegese che siamo abituati a considerare molto progressista e aperta – e lo è per molti versi - si presenti nei film di Haugerud al contempo rigida dal punto di vista emotivo, impegnata a razionalizzare qualunque cosa, anche ciò che non è possibile razionalizzare.
Come in Love, anche in Dreams – pur ruotando tutta la narrazione intorno alle relazioni tra i personaggi – Haugerud non manca di attribuire un ruolo anche alla città di Oslo, che Johanne attraversa per raggiungere la casa dell’insegnante, offrendo l’occasione di una riflessione di carattere anche sociale.
A questo punto vedrò Sex perché, ossessiva come sono, non posso non completare la trilogia, ma temo che il cinema di Haugerud non riuscirà a conquistarmi.
Voto: 3/5
mercoledì 16 aprile 2025
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