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Youth - Homecoming
La visione di questo documentario di circa due ore e mezza di Wang Bing - che leggo essere il terzo di una trilogia dedicata agli operai dei laboratori tessili cinesi di Zhili (capitale mondiale nella produzione di abbigliamento per bambini) e frutto di cinque anni di girato al seguito di questi lavoratori - è un'esperienza che non mi sentirei di consigliare a chiunque, ma che personalmente ho trovato molto forte sul piano sensoriale e conoscitivo.
In questo terzo capitolo della trilogia il regista segue le storie di alcuni lavoratori di età compresa tra i 16 e i 30 anni, originari di alcune zone rurali della Cina, tra cui lo Yunnan e non solo, durante il periodo del Capodanno cinese, periodo nel quale chi riesce a ottenere la paga torna a casa dalle proprie famiglie.
Assistiamo dunque a lunghi viaggi in condizioni piuttosto difficili (vagoni di treni strapieni di persone, pulmini e mezzi di fortuna che percorrono strade sterrate e ghiacciate sui costoni di montagne), e poi a scene di vita familiare all'interno di case povere e a volte fatiscenti in cui vivono famiglie allargate con bambini molto piccoli e persone molto anziane, a occasioni di vita collettiva all'interno di questi villaggi (matrimoni, processioni, e altri eventi), ma anche alla vita di questi lavoratori una volta che rientrano nei loro laboratori a Zhili, dove lavorano a cottimo con macchinari vetusti e vivono in cubicoli di cemento senza finestre all'interno di edifici fatiscenti.
Lo squallore, il degrado e la bruttezza degli ambienti e dei luoghi dove questi giovani trascorrono gran parte delle loro giovani vite è angosciante e aberrante, ma devo dire che più ancora degli ambienti di lavoro mi hanno colpito i luoghi dai quali provengono. Per noi il concetto di ruralità è spesso collegato a povertà, ma comunque a una qualità estetica e a una natura piacevole: in questo caso ci troviamo di fronte a orrori ambientali e interventi umani deteriori che per queste popolazioni sono la normalità e l'orizzonte nel quale si muovono. Mi sono chiesta più volte, durante la visione del film, come si può diventare crescendo in un ambiente non solo povero e arretrato e igienicamente molto discutibile, ma anche privi di qualunque esposizione alla bellezza e alla cura. Per me - e questa non è la prima volta che lo penso leggendo o vedendo prodotti culturali cinesi - la Cina rappresenta quanto di più misterioso e lontano culturalmente da me ci possa essere, e certamente questo mi rende difficile se non impossibile comprendere appieno e produce sicuramente pregiudizi.
Devo infatti anche riconoscere che questo film ha il merito di avermi fatto riflettere sul fatto che, nonostante questo contesto che a me ha lasciato un senso di angoscia e degrado, i giovani protagonisti di queste piccole storie e di queste difficili vite sono pieni di vitalità, di energia, anche di ironia, e per molti versi - pur vivendo situazioni non paragonabili ai loro coetanei in altre parti del mondo - non sono molto diversi da quello che ci si aspetterebbe da ragazzi di queste età.
Infine, una notazione tecnica: non andate a vedere questo film se soffrite la telecamera a mano, perché qui il cameraman letteralmente segue e insegue i suoi protagonisti, a piedi e nei mezzi di trasporti, e il mal di mare e la nausea del movimento della macchina sono decisamente importanti, per quanto funzionali anch'essi allo scopo.
Voto: 3,5/5
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Ainda estou aqui = Sono ancora qui
Il film brasiliano di Walter Salles, tratto dal romanzo omonimo di Marcelo Rubens Paiva, dedicato alla storia della sua famiglia, racconta un periodo difficile della storia brasiliana, gli anni della dittatura militare.
Il regista ha voluto farlo attraverso la storia dei Paiva, famiglia che ha conosciuto direttamente e di cui ha frequentato la casa (da cui era molto ammirato). Il capofamiglia Rubens (Selton Mello) è un ex deputato che ha abbandonato la politica dopo il colpo di stato e svolge la professione di ingegnere. Vive in una casa a Rio de Janeiro insieme alla moglie Eunice (la bravissima Fernanda Torres) e ai suoi cinque figli, quattro femmine Veroca, Eliana, Nalu, Babiu, e un maschio, il più piccolo, Marcelo. Rubens e sua moglie hanno acquistato un terreno dove progettano di realizzare una nuova casa, quando la loro vita viene sconvolta dall'arresto di Rubens e dalla sua successiva sparizione; anche Eunice ed Eliana saranno interrogate, ma poi rilasciate. Da questo momento in poi per Eunice ci saranno due obiettivi su tutti: scoprire la verità sulla sorte di Rubens e portarla a conoscenza di tutto il paese, e occuparsi della sua famiglia consentendo ai suoi figli di sopravvivere e portare avanti i loro percorsi.
È una storia nel suo complesso non nuova, ma ha il pregio di gettare luce sul periodo della dittatura brasiliana e sulle uccisioni e sparizioni che l'hanno caratterizzata (forse meno noti delle vicende simili avvenute in altri paesi dell'America Latina), nonché di raccontare una storia familiare vera con al centro un personaggio eccezionale come Eunice, di cui nel film avremo modo - seppure in maniera sintetica - anche di conoscere la storia successiva alla fine della dittatura (la laurea in legge, le battaglie politiche, la malattia). Quello di Salles è un film decisamente riuscito, emotivamente potente grazie soprattutto alla modalità in cui è narrata la dimensione familiare e i rapporti tra i componenti di questa famiglia, nonché esteticamente davvero godibile: la ricostruzione degli anni Settanta realizzata con grande cura, i filmini in Super 8 girati dalla figlia Veroca, l'effetto visivo della grana e le scelte di gradienti di colori diversi a seconda del mood e del momento narrativo. A me è arrivato dritto e potente, e un film del genere questo deve fare.
Voto: 3,5/5
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Kjӕrlighet = Love
L'ultimo film che riesco a vedere della rassegna Da Venezia a Roma è Love (Kjӕrlighet) del regista norvegese Dag Johan Haugerud che con questo film chiude la sua personale trilogia, i cui capitoli precedenti erano Sesso e Sogno.
Siamo a Oslo, città che - insieme ai personaggi in carne e ossa - è certamente protagonista di questo film, in quanto non fa solo da sfondo indifferente, ma in qualche modo partecipa con la sua identità alla narrazione, al punto che ne esce quasi un vero e proprio spot per la città. Tra l'altro, uno dei personaggi, Heidi, è una dipendente del Comune di Oslo che deve presentare un progetto per il centenario della città e attraverso di lei vengono fuori alcuni caratteristiche tipiche delle politiche urbane.
I due personaggi principali sono però Marianne (Andrea Bræin Hovig), una dottoressa che lavora nel reparto di urologia oncologica dell'ospedale, e Tor (Tayo Cittadella Jacobsen) che è infermiere dello stesso reparto. La prima è single e, se da un lato cerca una relazione stabile, dall'altro non vuole essere ingabbiata in modelli relazionali troppo rigidi, cosicché dopo aver conosciuto Ole, separato con figlie, con il quale avvia una relazione, si concede l'avventura di una notte con uno sconosciuto incontrato sul traghetto. Tor è omosessuale e ha una vita affettiva e sessuale molto libera: incontra uomini con Grindr, ma senza esserne ossessionato.
Mentre dunque Marianne e Tor proseguono le loro vite professionali che si incrociano con le storie di pazienti a cui spesso viene data una diagnosi di cancro, i due parlano tra loro e con le persone che stabilmente ovvero occasionalmente popolano il loro mondo, riflettendo su sé stessi, sui propri desideri, su quello che è giusto e che non lo è, sui modelli relazionali e affettivi.
Non che il film di Haugerud voglia dare delle risposte su un tema su cui l'umanità si interroga da sempre, però non c'è dubbio che il suo film manifesti un'urgenza di discutere di questo tema, l'amore, e soprattutto come va evolvendosi all'interno di contesti sociali sempre più liberi e fluidi.
Ne viene fuori un film un po' schematico e piuttosto verboso, non sgradevole, ma che dal mio punto di vista non aggiunge moltissimo a quanto su questo tema è già stato detto più o meno recentemente da altri film e libri.
Apprezzo la delicatezza dell'impianto complessivo, ma temo che il film non sia destinato a rimanere nella storia del cinema.
Voto: 2,5/5
Kjӕrlighet = Love
L'ultimo film che riesco a vedere della rassegna Da Venezia a Roma è Love (Kjӕrlighet) del regista norvegese Dag Johan Haugerud che con questo film chiude la sua personale trilogia, i cui capitoli precedenti erano Sesso e Sogno.
Siamo a Oslo, città che - insieme ai personaggi in carne e ossa - è certamente protagonista di questo film, in quanto non fa solo da sfondo indifferente, ma in qualche modo partecipa con la sua identità alla narrazione, al punto che ne esce quasi un vero e proprio spot per la città. Tra l'altro, uno dei personaggi, Heidi, è una dipendente del Comune di Oslo che deve presentare un progetto per il centenario della città e attraverso di lei vengono fuori alcuni caratteristiche tipiche delle politiche urbane.
I due personaggi principali sono però Marianne (Andrea Bræin Hovig), una dottoressa che lavora nel reparto di urologia oncologica dell'ospedale, e Tor (Tayo Cittadella Jacobsen) che è infermiere dello stesso reparto. La prima è single e, se da un lato cerca una relazione stabile, dall'altro non vuole essere ingabbiata in modelli relazionali troppo rigidi, cosicché dopo aver conosciuto Ole, separato con figlie, con il quale avvia una relazione, si concede l'avventura di una notte con uno sconosciuto incontrato sul traghetto. Tor è omosessuale e ha una vita affettiva e sessuale molto libera: incontra uomini con Grindr, ma senza esserne ossessionato.
Mentre dunque Marianne e Tor proseguono le loro vite professionali che si incrociano con le storie di pazienti a cui spesso viene data una diagnosi di cancro, i due parlano tra loro e con le persone che stabilmente ovvero occasionalmente popolano il loro mondo, riflettendo su sé stessi, sui propri desideri, su quello che è giusto e che non lo è, sui modelli relazionali e affettivi.
Non che il film di Haugerud voglia dare delle risposte su un tema su cui l'umanità si interroga da sempre, però non c'è dubbio che il suo film manifesti un'urgenza di discutere di questo tema, l'amore, e soprattutto come va evolvendosi all'interno di contesti sociali sempre più liberi e fluidi.
Ne viene fuori un film un po' schematico e piuttosto verboso, non sgradevole, ma che dal mio punto di vista non aggiunge moltissimo a quanto su questo tema è già stato detto più o meno recentemente da altri film e libri.
Apprezzo la delicatezza dell'impianto complessivo, ma temo che il film non sia destinato a rimanere nella storia del cinema.
Voto: 2,5/5
Sono d'accordo con te sul film di Salles: nulla di particolarmente nuovo ma un film comunque toccante, che arriva al cuore, che suscita emozioni vere. L'ho apprezzato. Concordo invece un po' meno su "Love", che a me non è dispiaciuto, soprattutto nel mostrare l'approccio con la malattia (avrebbe potuto essere molto più retorico, invece l'ho trovato delicato e coerente). E "Youth" ... mammina che pesantezza! (e che dormita! :D)
RispondiEliminaSu Love sinceramente non avevo un giudizio netto. È un film strano, con qualcosa di bello, ma anche qualcosa di strano. Non saprei. Youth pesantissimo si, ma per me con un suo incredibile e assurdo fascino.
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