lunedì 9 ottobre 2023

Evil does not exist = Il male non esiste

Ed eccomi di nuovo a fare i conti con il cinema di Ryusuke Hamaguchi, di cui avevo già visto e apprezzato - seppure con intensità diverse - i due precedenti film, Il gioco del destino e della fantasia e Drive my car (quello con cui il regista si è fatto definitivamente conoscere a livello internazionale).

Evil does not exist (Il male non esiste, titolo omonimo di un bel film iraniano di qualche tempo fa) arriva nelle sale italiane forte del Gran Premio della Giuria alla mostra internazionale del cinema di Venezia.

A quanto pare questo film è nato quasi per caso, come ampliamento di quella che doveva essere una collaborazione con la musicista Eiko Ishibashi (già autrice delle musiche di Drive my car), finalizzata esclusivamente a corredare di immagini filmate una sua performance live. Quando Hamaguchi ha iniziato a girare nei luoghi di origine della musicista, ossia nella zona di Mizubiki (un paesino a due ore da Tokyo), è stato affascinato da questi luoghi ed è stato ispirato a raccontare una storia - invero piuttosto minimale - qui ambientata.

Al centro di questa storia ci sono Takumi (Ryûji Kosaka) e sua figlia Hana (Ryô Nishikawa), membri attivi della comunità che abita il villaggio di Mizubiki. Takumi è un vero tuttofare, conosce perfettamente il territorio, si muove con grande agio nel bosco ai margini del quale abita, conosce alla perfezione la flora che lo compone e la fauna che lo popola, e ha trasmesso a sua figlia la stessa curiosità e amore per la natura. L'uomo vive da solo con la figlia (la moglie, che vediamo in una fotografia, non sapremo mai se è morta o cos'altro). Nella prima parte del film fondamentalmente il regista segue da vicino, con attenzione e quasi meraviglia, la routine quotidiana di Takumi: spaccare la legna e accatastarla, andare al fiume a riempire le taniche dell'acqua, andare a prendere sua figlia a scuola, dove arriva spesso tardi quando Hana si è già avviata sul sentiero che passa in mezzo al bosco.

La rottura narrativa arriva con la riunione cittadina a cui la comunità viene chiamata a partecipare per esprimere il proprio parere rispetto al progetto che una società sta per avviare nella zona, ossia la costruzione di un glamping (un campeggio di lusso per i ricchi villeggianti provenienti dalla città). In questa riunione risulta chiaro che i dipendenti della società inviata a spiegare il progetto non sanno nulla del territorio e di fronte alle numerose obiezioni degli abitanti non sanno bene cosa rispondere. In particolare la preoccupazione di Takumi e degli altri riguarda la fossa settica, dimensionata e collocata in un modo che rischia di inquinare l'acqua del ruscello cui gli abitanti attingono per berla e per gli usi domestici.

Dopo un confronto con il consulente e il capo della società, i due funzionari tornano a Mizubiki con l'idea di convincere Takumi a diventare il custode del glamping. Nel tentativo di convincerlo trascorreranno con lui un'intera giornata, partecipando alle sue numerose attività e rendendosi conto del rapporto intimo che ha con la natura circostante, fino all'enigmatico e tragico epilogo che ci lascia con mille domande e pochissime risposte.

Di che parla Evil does not exist? Parla certamente di rapporto tra l'uomo e la natura, e tra città e campagna, e parla anche di responsabilità che gli esseri umani hanno verso la natura e di conseguenza verso la collettività presente e futura. E del fatto che questa responsabilità è tanto maggiore quanto più si risale nella scala dei rapporti di causalità.

Però, bisogna anche essere chiari sul fatto che il film di Hamaguchi - pur assecondando il desiderio del regista di costruire una narrazione - non vuole spiegare tutto e fornire risposte a tutte le domande. L'andamento del film è in parte documentaristico e segue i suoi personaggi in una quotidianità che non rivela ogni dettaglio e che, man mano che si va avanti, si fa sempre più misteriosa e in qualche misura inquietante. Da questo punto di vista, personalmente sono stata fortemente colpita dalle originalissime e spiazzanti inquadrature, che assumono punti di vista imprevisti e inattesi, a partire dalla prima scena (che si ripeterà poi alla fine del film) che mostra le chiome degli alberi dal basso, per arrivare alle riprese fatte dal retro dell'automobile sulla strada che ci si lascia alle spalle, alla soggettiva di oggetti inanimati (vediamo il volto di Takumi che ha trovato del wasabi come  fossimo dal punto di vista del wasabi), alle soggettive dello sguardo dei personaggi (spesso fatte con telecamera a mano), alle inquadrature in schermi e specchi (soprattutto dei personaggi che arrivano dalla città), alla scena in cui la telecamera segue Takumi nel bosco e a un certo punto perde la visuale su di lui perché coperta da un dislivello del terreno fino a quanto l'uomo ricompare con Hana sulle spalle, alla telecamera che inquadra una scena in cui stanno per succedere cose importanti e nel momento clou si sposta su qualcun altro o su qualcos'altro. Questo uso molto variegato della ripresa dà movimento a un racconto di per sé piuttosto scevro di avvenimenti e lo carica di qualcosa di incomprensibile; lo stesso risultato lo ottengono le musiche di cui si fa un uso che risulta alquanto destabilizzante, perché nel passaggio da una scena all'altra più volte la musica si interrompe bruscamente.

Come nei suoi film precedenti, c'è sicuramente tanto della cultura e della spiritualità giapponesi, cose che possiamo studiare e approfondire, ma che alla fine ci aiuteranno al massimo a intuire senza coglierne realmente l'essenza. Leggevo recentemente che il fatto che lo shintoismo sia una religione anomala (animista e politeista, con un rapporto davvero particolare con la natura) e che la sua diffusione sia praticamente limitata al solo Giappone fa sì che la spiritualità giapponese resti a noi in gran parte estranea, e, trattandosi di una spiritualità molto legata alla natura (in cui tra l'altro l'acqua ha un ruolo centrale), facciamo fatica anche a capire il rapporto che i giapponesi hanno con la natura . Non si tratta dunque tanto di un film che fa proprio il rinnovato punto di vista ecologista dell'Occidente preoccupato degli effetti del cambiamento climatico e dell'azione devastante del capitalismo, bensì di una riproposizione delle basi della cultura e della spiritualità giapponesi. Tra l'altro nello shintoismo "il male non esiste", nel senso che può essere superato con atti di purificazione, che quasi sempre utilizzano l'acqua come elemento purificante.

Cosicché inutile sforzarsi di comprendere il senso e di dare una spiegazione pienamente razionale al film di Hamaguchi - che sarebbe la negazione della sua natura più profonda -, meglio lasciarsi trasportare dal fluire delle immagini e compiere questo viaggio surreale nel cuore di una cultura che sempre e comunque sfuggirà a qualunque tentativo di applicazione della logica occidentale.

Voto: 3,5/5


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