martedì 2 luglio 2019

Che fare quando il mondo è in fiamme?

Avendo perso a suo tempo Louisiana – che a questo punto conto di recuperare – tenevo particolarmente a vedere Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervini, il regista italiano che vive e lavora tra l’Italia e gli Stati Uniti e che nella cultura americana sembra aver immerso il proprio sguardo in un modo profondo e originale.

Sapevo che quest’ultimo lavoro di Minervini è legato ai recenti fatti di razzismo e di violenza verso la comunità afroamericana verificatisi negli Stati Uniti, ma confesso che ero totalmente ignara di cosa aspettarmi, o meglio mi aspettavo un documentario classico, di quelli che puntano a raccontare – attraverso le microstorie – una storia più grande, offrendo alfine allo spettatore un punto di vista e in qualche misura una chiave di lettura.

Di fronte al film di Minervini sono invece rimasta totalmente spiazzata. La sua telecamera si immerge nella piccola comunità afroamericana di Baton Rouge, in Louisiana, e lo fa dopo che qui sono avvenuti alcuni fatti di sangue e sparatorie che hanno portato alla morte di alcuni membri della comunità stessa.

Ma questo non ce lo dice il regista, bensì lo capiamo a poco a poco seguendo i frammenti della quotidianità di alcuni componenti di questa comunità, in particolare Judy, una donna dal passato non facile che gestisce un bar che rischia di dover vendere a causa dei debiti e della gentrificazione, Ronaldo e Titus, due fratelli il cui padre è in prigione che escono ogni pomeriggio a giocare per strada mentre la madre si raccomanda di tornare presto e non cacciarsi nei guai, infine il capo indiano Kevin Goodman che tenta in ogni modo di mantenere in vita le tradizioni che gli appartengono attraverso la realizzazione degli abiti tradizionali, i canti e le danze.

A inframmezzare le storie di queste persone le proteste di un gruppo di militanti del movimento delle New Black Panthers, finalizzate a sensibilizzare i membri della comunità e ad attuare azioni di pressione sulle istituzioni per fare luce sugli episodi di violenza.

Dentro questi spezzoni di quotidianità non c’è però una vera narrazione continuativa, bensì dialoghi, interazioni, situazioni per certi versi slegati l’uno dall’altro o comunque non ricomposti dal regista in modo che siano immediatamente significativi e portino con sé un giudizio. In un certo senso è come se lo spettatore venisse lasciato solo di fronte a queste persone, anzi – meglio – venisse catapultato all’interno della loro quotidianità senza ch’egli sappia nulla del prima e del dopo, spinto di conseguenza a ricomporre le tessere del puzzle in maniera del tutto individuale per dare un senso a questi frammenti, senso che non sarà necessariamente uguale per tutti e che può essere reso difficoltoso in alcuni casi anche dalla distanza culturale.

Il regista si è invece concentrato soprattutto sul prima, in quanto è evidente che si è conquistato la fiducia delle persone che filma al punto da potergli stare vicino se non addirittura addosso con la telecamera senza che questo interferisca o condizioni in maniera evidente i loro comportamenti. E questo amplifica la sensazione di spaesamento dello spettatore che si trova in medias res, senza poter guardare le cose da più lontano per comprenderle meglio.

Non certo un film facile, né piacione – come a volte i documentari tradizionali tendono a essere strappando spesso l’applauso grazie al coinvolgimento emotivo nella narrazione – però quella di Minervini è un’operazione originale e interessante che non fornisce alcuna risposta alla domanda che ha scelto come titolo, bensì la rigira allo spettatore facendola pesare come un macigno sulle sue spalle appena uscito dalla sala.

Voto: 3,5/5

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