Uno dei pochi buoni motivi per cui vale ancora la pena di vivere a Roma è poter andare a vedere film come L'uomo che uccise don Chisciotte non solo in lingua originale ma anche alla presenza del regista Terry Gilliam, in questi giorni in giro per l'Italia a scopi di promozione.
Come tutti sanno, ci sono voluti 29 anni perché Gilliam riuscisse a realizzare questo film colpito da una serie di sventure di vario genere che ne hanno più volte bloccato la realizzazione, ma - come ci ha detto lui - essendo per metà mulo ha proseguito per la sua strada fino a vedere il film in sala.
Ricordo che sulle travagliate vicende del film era stato realizzato ormai già molti anni fa un documentario dal titolo Lost in La Mancha. Alla fine, nel balletto dei protagonisti, l'esito è che Adam Driver fa il giovane regista che sta girando un film su Don Chisciotte, mentre l'antieroe di Cervantes è interpretato da un superbo Jonathan Pryce.
La storia è quella di Toby Grisoni, un regista viziato e cinico che sta girando in Spagna, molto svogliatamente, un film - o forse una pubblicità - su Don Chisciotte. Un giorno ritrova - grazie a un gitano - una copia contraffatta del suo primo film, L'uomo che uccise Don Chisciotte, da lui girato, come tesi di laurea, in un paesino non lontano dal nuovo set. Incuriosito, Toby torna sui luoghi di allora, dove scopre che le vite delle persone che aveva coinvolto nelle riprese sono state in qualche modo segnate da quell'esperienza: il ciabattino che aveva impersonato Don Chisciotte è impazzito e si crede veramente un cavaliere, mentre la giovane che aveva interpretato Dulcinea ha inseguito il sogno di diventare una stella del cinema e ha finito per fare la escort di un magnate russo.
Il ciabattino convinto di essere Don Chisciotte scambia Toby per il suo scudiero Sancho Panza, cosicché questi si ritrova suo malgrado a seguire il vecchio pazzo nelle sue avventure in giro per le desolate terre spagnole, alla ricerca di nemici immaginari e a contatto con situazioni che non sempre è chiaro a lui per primo se siano reali o messinscene.
Il film di Gilliam - come è tipico del regista - è un caleidoscopio di situazioni, un fuoco di artificio di invenzioni e di nonsense, che a volte ci strappano la risata altre volte ci lasciano interdetti nella difficoltà di orientarsi in questo mondo in bilico tra il fantastico e il reale.
Del resto, come ci ha detto Gilliam prima della proiezione, il film è lo specchio della sua stessa vita, schizofrenicamente divisa tra l'immaginazione e la quotidianità. In fondo Don Chisciotte è Gilliam, un uomo che ha bisogno di trasfigurare il reale per continuare a inseguire i sogni e per non rassegnarsi alla banalità dell'esistenza, anche se questo implica l'accettazione di una vena di follia. Forse anche Toby è l'alter ego di Gilliam, un regista che ha abbandonato la purezza delle origini in quanto ormai risucchiato nel business del cinema e della pubblicità e che ha bisogno di ritrovare il Don Chisciotte che è in sé per non perdersi definitivamente, o forse per perdersi agli occhi della società e ritrovarsi invece di fronte a sé stesso.
L'uomo che uccise Don Chisciotte è anche una riflessione sul mondo del cinema, popolato ormai di prime donne, magnati pieni di soldi, donne trattate come oggetti, e caratterizzato da sfarzo e divertimenti in parte disumani che vanno ben oltre i limiti del kitsch. Un cinema che ha perso completamente l'ispirazione ingenua e la passione delle origini, ma che forse ha nel suo DNA l'inevitabile effetto collaterale di corrompere coscienze promettendo il successo.
Infine, guardate con attenzione la pellicola perché qua e là Gilliam ci riserva piccole sorprese, divertissements che nascono dal fatto di giocare tra il piano intradiegetico (interno alla narrazione) e quello extradiegetico (ossia di noi che guardiamo e che talvolta veniamo chiamati in causa).
Un tantino eccessivo per me in alcuni passaggi, ma certamente godibile. E soprattutto un plauso per la testardaggine e l'ironia (e autoironia) di Gilliam.
Voto: 3/5
venerdì 5 ottobre 2018
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