Di Lukas Moodysson avevo amato moltissimo Fucking Åmal, film di una delicatezza e nello stesso tempo di una potenza liberatoria davvero considerevoli. Bello anche Together, che mi aveva confermato la capacità del regista di raccontare la varietà del reale e i cambiamenti sociali con serenità e ironia.
Per questi motivi mi sono incuriosita a questo suo nuovo lavoro, We are the best!, nel quale in qualche modo confluiscono due aspetti centrali nei film già citati: la scelta di protagoniste molto giovani, alle soglie dell’adolescenza (come in Fucking Åmal), e l’ambientazione vintage (come in Together).
In questo caso le protagoniste sono Bobo (Mira Barkhammar) e Klara (Mira Grosin), due dodici-tredicenni decise a non omologarsi ai loro coetanei e solidamente radicate nella cultura musicale - e non solo - del movimento punk, nonostante gli anni Ottanta stiano prepotentemente azzerando questo passato per imporre la loro “frivolezza”. Bobo e Klara convertiranno a queste passioni anche Hedvig (Liv LeMoyne), fornendole l’occasione di mettere a frutto i propri talenti e tirare fuori la propria personalità.
La bellezza di questo film sta tutto nella freschezza delle tre giovanissime protagoniste, combinata con la bravura del regista nel raccontare un’età molto particolare e poco approfondita, come è quella della preadolescenza. Sì, perché al cinema abbiamo visto molto spesso storie di adolescenti, e dunque tutte le sfaccettature di questa fase della vita sono state in qualche modo rappresentate e analizzate.
È raro invece imbattersi in un film in cui le protagoniste sono delle ragazze di dodici-tredici anni, le cui vicende ci vengono raccontate non come riflesso della vita degli adulti, ma con uno sguardo totalmente interno al loro mondo. Partecipiamo così delle loro passioni, delle conversazioni, dei sogni, delle ingenuità che sono parte integrante di un’età di mezzo, in cui non si è più veramente bambini, ma non si è ancora davvero adolescenti, in cui i gusti si vanno definendo ma fanno fatica ancora a imporsi rispetto al mondo esterno. L’ultima età nella quale si gode ancora di quella sfrontatezza infantile che a poco a poco comincia ad essere rimpiazzata da insicurezza e ritrosia, e poi dalla finzione delle convenzioni sociali.
Sarà dunque inevitabile di fronte al film di Moodysson provare inizialmente un effetto di straniamento che nasce dalla distanza temporale e mentale che ci separa da un’età della vita che difficilmente resta memorabile, e successivamente ritrovarsi divertiti e a proprio agio nella trascinante confusione e vitalità di queste tre ragazze che sono ancora felicemente lontane dalle logiche dell’età adulta.
Voto: 3/5
martedì 17 giugno 2014
mercoledì 11 giugno 2014
L'uomo di Lewis / Peter May
L'uomo di Lewis / Peter May; trad. di Chiara Ujka. Torino: Einaudi, 2013.
Uno dei pochi telefilm del genere giallo-poliziesco che non solo vedo volentieri ma mi piace molto è Cold case. Ve lo ricordate? È quello con la poliziotta magra e bionda che si occupa di casi irrisolti del passato, in cui è necessario non solo ricostruire tracce ormai lontane nel tempo, ma anche in qualche modo tuffarsi nell'atmosfera dell'epoca, ricostruita in godibilissimi flashback.
Ebbene, questa premessa per dire che il secondo volume della trilogia di Lewis di Peter May è come una gigantesca puntata di Cold case (in parte si potrebbe dire la stessa cosa del primo volume L'isola dei cacciatori di uccelli).
Un giovane uomo viene per caso ritrovato sull'isola di Lewis durante il taglio della torba. È lì da circa 50 anni, mantenuto intatto dalle condizioni uniche create dalle torbiere.
Il nostro ormai ex poliziotto Fin McLeod non potrà fare a meno di sottrarsi alla ricerca della verità visto che l'analisi del DNA evidenzia una parentela del morto con il padre ormai anziano e affetto da demenza senile di Marsaili, il suo amore di gioventù. Se volete conoscere la puntata precedente e sapere tutto (o quasi) dei legami e delle vicende che riguardano Fin, Marsaili, Fionnlagh ecc. dovete partire dal primo volume della trilogia, la cui lettura non voglio dire che sia indispensabile per godere appieno di questo secondo ma quasi.
Lo stile di Peter May è potentemente visivo. La sua capacità di ricostruire ambientazioni, di rappresentare persone e paesaggi è eccellente. Il clima estremo delle isole scozzesi viene descritto in modo perfetto. La sensazione di buio che attraversa tutto questo romanzo è quasi fisica e accompagna la lettura, così come la percezione del vento che soffia incessantemente.
Molto bella anche la variazione del narratore da un capitolo all'altro. Allo scrittore che parla in terza persona di Fin e degli avvenimenti del romanzo si affianca spesso la voce (o meglio i pensieri) in prima persona del padre di Marsaili, Tormod McDonald, che mescola presente e passato, offrendoci in parallelo all'indagine sprazzi di verità che via via acquistano contorni sempre più netti.
Si potrebbe dire che Peter May ha una predilezione per la storia e le tradizioni locali, cosicché usa i suoi romanzi per raccontarci in realtà la storia di questi luoghi e dei suoi abitanti. E forse è proprio questo che rende i suoi romanzi così affascinanti e originali.
Il libro vi catturerà dopo poche pagine e man mano che andrete avanti ne sarete completamente conquistati, senza riuscire a distogliere l'attenzione neppure per un istante.
Voto: 4/5
Uno dei pochi telefilm del genere giallo-poliziesco che non solo vedo volentieri ma mi piace molto è Cold case. Ve lo ricordate? È quello con la poliziotta magra e bionda che si occupa di casi irrisolti del passato, in cui è necessario non solo ricostruire tracce ormai lontane nel tempo, ma anche in qualche modo tuffarsi nell'atmosfera dell'epoca, ricostruita in godibilissimi flashback.
Ebbene, questa premessa per dire che il secondo volume della trilogia di Lewis di Peter May è come una gigantesca puntata di Cold case (in parte si potrebbe dire la stessa cosa del primo volume L'isola dei cacciatori di uccelli).
Un giovane uomo viene per caso ritrovato sull'isola di Lewis durante il taglio della torba. È lì da circa 50 anni, mantenuto intatto dalle condizioni uniche create dalle torbiere.
Il nostro ormai ex poliziotto Fin McLeod non potrà fare a meno di sottrarsi alla ricerca della verità visto che l'analisi del DNA evidenzia una parentela del morto con il padre ormai anziano e affetto da demenza senile di Marsaili, il suo amore di gioventù. Se volete conoscere la puntata precedente e sapere tutto (o quasi) dei legami e delle vicende che riguardano Fin, Marsaili, Fionnlagh ecc. dovete partire dal primo volume della trilogia, la cui lettura non voglio dire che sia indispensabile per godere appieno di questo secondo ma quasi.
Lo stile di Peter May è potentemente visivo. La sua capacità di ricostruire ambientazioni, di rappresentare persone e paesaggi è eccellente. Il clima estremo delle isole scozzesi viene descritto in modo perfetto. La sensazione di buio che attraversa tutto questo romanzo è quasi fisica e accompagna la lettura, così come la percezione del vento che soffia incessantemente.
Molto bella anche la variazione del narratore da un capitolo all'altro. Allo scrittore che parla in terza persona di Fin e degli avvenimenti del romanzo si affianca spesso la voce (o meglio i pensieri) in prima persona del padre di Marsaili, Tormod McDonald, che mescola presente e passato, offrendoci in parallelo all'indagine sprazzi di verità che via via acquistano contorni sempre più netti.
Si potrebbe dire che Peter May ha una predilezione per la storia e le tradizioni locali, cosicché usa i suoi romanzi per raccontarci in realtà la storia di questi luoghi e dei suoi abitanti. E forse è proprio questo che rende i suoi romanzi così affascinanti e originali.
Il libro vi catturerà dopo poche pagine e man mano che andrete avanti ne sarete completamente conquistati, senza riuscire a distogliere l'attenzione neppure per un istante.
Voto: 4/5
domenica 8 giugno 2014
Più buio di mezzanotte

A casa però suo padre non lo accetta e vorrebbe a tutti i costi un figlio "normale". Nonostante l'affetto della madre (Micaela Ramazzotti), Davide decide di scappare e si rifugia a Villa Bellini, unendosi a un gruppo di giovani diseredati dai soprannomi buffi, Rettore, Meriliv, Wonder. Ragazzi anche loro in conflitto con le famiglie che non accettano la loro diversità, che si arrabattano come possono, prostituendosi per strada e rubacchiando nei supermercati, esposti ad ogni genere di sopruso e di violenza. Anime belle che il mondo cosiddetto normale rifiuta e maltratta, ma poi sfrutta a proprio uso e consumo.
Qui Davide trova una famiglia, un gruppo che lo accetta e non lo giudica, e fa le sue prime esperienze, sperimentando la dolcezza dei sentimenti ma anche la durezza della vita per chi vuole essere se stesso e libero.
Purtroppo le vite di questi giovani tenuti ai margini si muovono su un filo sottile sospeso, da cui è molto facile cadere. Basta un momento di debolezza, di scoraggiamento, di perdita della speranza perché tutti i propri sogni si infrangano su una realtà dentro la quale sembra non ci sia posto per i sogni di tutti.
Davide Capone è molto bravo e il regista, Sebastiano Riso, fa un buon lavoro di contenimento su un tema che avrebbe potuto essere molto più esibito e poteva facilmente scadere nel sopra le righe, mentre si mantiene su un piano di misurato realismo.
C'è però qualcosa che impedisce a questo film di essere pienamente riuscito. Forse alcune scelte di sceneggiatura (ad esempio la madre cieca di Davide), ovvero di montaggio (la sequenza temporale non è sempre chiara e non sempre è evidente quali sono i flashback e quali no), o ancora qualche rigidità nella recitazione che a tratti crea una sensazione di finzione.
Avendo letto delle vicissitudini che il regista ha dovuto attraversare per riuscire a realizzare questo film, considero buona questa opera prima, ma al contempo ne vedo anche i limiti e la almeno parziale incompiutezza.
Voto: 2,5/5
venerdì 6 giugno 2014
Denmark: Welcome to the happiest country of the world. II parte

.jpg)


La nostra meta successiva è Skagen, la punta più a nord della Danimarca. Dopo infilate di campi di colza di un giallo quasi irreale che io non riesco a smettere di fotografare, dopo una sosta al fiordo di Mariager e in un localino con giardino interno al centro di Frederikshavn, arriviamo a Skagen. Un donnone con i capelli rossi ci dà le indicazioni per arrivare a un b&b che abbiamo selezionato sulla guida, in Fredensklit. Qui ci aspetta un appartamentino delizioso su due piani, con terrazzino privato e piano alto mansardato, non lontano dalle spiagge e dalle dune di sabbia che dominano questa parte della Danimarca.


Il nostro giro del Nord è completato dalle visite alle grandi dune: prima al Rubjerg Knude Fyr, il faro abbandonato e in parte sepolto dalla sabbia, a strapiombo sul mare (uno spettacolo incredibile!), poi al Rabjerg Mile, una duna enorme che si sposta di diversi metri ogni anno (il vento e la sabbia a perdita d’occhio rendono la sensazione non dissimile da quella che credo si provi nei deserti di sabbia!).

Ci fermiamo a Varberg per la notte e stavolta – visto che il paese non offre praticamente nulla, tranne una fortezza sul mare – ci concediamo un vero albergo con tutti i crismi, il Fregatten. Le cose memorabili che accadono a Varberg sono tre: l’andirivieni di macchine americane d’epoca con cui gli svedesi si pavoneggiano per le strade, lo spettacolare tramonto sul mare visto dall’alto della fortezza, e l’incontro a colazione con Stefan Edberg e famiglia (che però non ho il coraggio di disturbare per una foto!). Scoprirò dopo che la famiglia Edberg abita non molto lontano da lì, a Vaxio.

.jpg)
È tempo di lasciare il nostro b&b (con la lacrimuccia) e di tornare a Copenhagen. Dopo una sosta al design outlet di Hoganas (dove C. riesce a comprare una tazza da 15 euro! Però bellissima), eccoci a Helsingborg a imbarcarci sul traghetto che ci porterà a Helsingor, in Danimarca.
.jpg)
L’ultima avventura è la ricerca dell’alloggio a Copenhagen per la nostra ultima notte prima di partire. Rischiamo di finire in una specie di motel gestito da un inquietante signore in carrozzina, e alla fine decidiamo di spendere i nostri residui soldi per il Park Inn Hotel in zona aeroporto. Mai scelta fu più azzeccata, fosse anche soltanto per la straordinaria colazione a buffet che ci aspetta l’indomani mattina.
Eccoci sul volo di ritorno. Roma ci accoglie con un timido sole e con il solito caos. Sarà dura tornare alla normalità.
Etichette:
Aahrus,
Båstad,
Danimarca,
Frederikshavn,
Grenen,
Kullaberg,
Louisiana Museum,
Rubjerg Knude Fyr,
Skagen,
Svezia,
Tilsandede Kirke,
Tjolöholms Slott,
Varberg,
viaggi
giovedì 5 giugno 2014
Alma Tadema e i pittori dell’800 inglese. Collezione Pérez Simón. Roma, Chiostro del Bramante, 16 febbraio-5 giugno 2014

Poi ovviamente avevo rimosso, fino a quando D. mi ha invita ad andare a vedere la mostra insieme a dei suoi amici. Non ne ero particolarmente entusiasta, ma alla fine mi sono fatta convincere.
Ho scoperto così che Alma Tadema è il doppio cognome di un pittore di nome Lawrence e che quella in mostra è di fatto la collezione privata di Pérez Simón, uno spagnolo appassionato - tra le altre cose - della pittura inglese dell’Ottocento.
Trattandosi di una collezione privata con cui il suo possessore ha arredato una dimora che sarebbe riduttivo chiamare semplicemente casa, il curatore della mostra ha scelto di strutturare anche la mostra in modo molto intimistico, nel senso che le varie sale in cui si articola il percorso sono allestite come si trattasse delle stanze di un palazzo le cui pareti sono arricchite da questi splendidi quadri.

In mostra quadri di piccole e grandi dimensioni dei quali sono protagoniste soprattutto se non esclusivamente figure femminili, in molti casi ritratti a mezzo busto o a figura intera, in altri casi in situazioni della vita quotidiana o in allestimenti allegorici.
Molto spesso le donne ritratte sono collocate in ambientazioni che richiamano l’antichità greca, ovvero il mondo medievale, o ancora mondi esotici, cui si ispirano anche gli abiti, le pettinature, gli accessori, gli arredi rappresentati.

Tutto trova una spiegazione quando si capisce che Alma Tadema e gli altri pittori inglesi i cui lavori sono esposti in questa mostra sono l’espressione di un momento di transizione artistica e storica di grande importanza, e che pur affondando le loro radici nella cultura ottocentesca mostrano già i primi segnali dell’affacciarsi del nuovo secolo che porta con sé i germi del simbolismo e del decadentismo.
L’ultima sala con la grande tela dal titolo Le rose di Eliogabalo con il trionfo di petali di rose, all’interno di una stanza ottagonale dalle pareti scure, costituisce l’acme e la degna conclusione di questa mostra per la sensazione di bellezza e nel contempo di violenza che trasmette.
Voto. 3/5
martedì 3 giugno 2014
Denmark: Welcome to the happiest country of the world. I parte


Poi, come dice il mio amico olandese M., "è bugia". E del resto basta guardare ciò che la Danimarca produce a livello cinematografico e musicale (mi vengono in mente Lars Von Trier e Thomas Vinterberg per il cinema, e Agnes Obel per la musica) per capire che la facciata di popolo felice e che si gode la vita non può non nascondere sotto la superficie malinconie e frustrazioni, come del resto è normale che sia. Anche gli ultimi risultati alle elezioni europee qualche segnale distonico lo danno.


Fatta questa premessa, potrei stare qui per post e post a raccontarvi del nostro viaggio. Ho fatto circa 1.400 foto e questo ve la dice lunga su quante cose avrei da dirvi, ma cercherò di essere il più breve possibile (per una come me che ha sempre fatto i temi troppo lunghi!).

I trasporti pubblici sono carissimi, per quanto efficienti, ma ci accorgiamo presto che sostanzialmente non è necessario prenderli, perché si può andare praticamente ovunque a piedi. Scopriamo anche in fretta che l’automobile sarebbe stato meglio prenderla dopo i due giorni a Copenhagen, visto che il parcheggio costa praticamente quanto il noleggio!!

Trascino C. a visitare due biblioteche: innanzitutto la Kongelige Bibliotek, il cosiddetto diamante nero, e poi in una periferia a nord della città la nuova biblioteca del quartiere di Bispebjerg, dove Mikkel, un giovane bibliotecario simpatico e competente ci spiega tutto non solo della struttura, ma anche di quest’area della città.

Immancabili poi le passeggiate al Quartiere Latino e la visita all’enclave di Christiania, la città libera all’interno di Christianhavn che ha una storia davvero incredibile e resta un posto abbastanza assurdo.
Il giorno dopo attraversiamo in orizzontale tutta la Danimarca, per arrivare sulla costa ovest, nello Jutland. Dopo una sosta a Kolding per una rapida visita al castello e un’occhiata al lago, eccoci a Ribe, la nostra meta, quella che le guide dicono essere la città più antica della Danimarca (alcuni insediamenti risalvono all'VIII secolo, ma lo sviluppo maggiore è stato intorno al 1500!). Effettivamente il centro del paese è suggestivo, per non parlare del tramonto sul canale che lo attraversa. Consigliatissimo il Danhostel di Ribe, talmente tanto che decideremo per entrambe le sere di cucinare noi e di mangiare qui!


(Continua qui)
Iscriviti a:
Post (Atom)