lunedì 28 febbraio 2011

La versione di Barney

Ho comprato il romanzo cult di Modercai Richler, ma non l'ho ancora letto. E, direi, meglio così.
Ho infatti la sensazione che se avessi letto il romanzo e mi fosse piaciuto non avrei apprezzato il film.

Dalla prima mezz'ora del film (quella in cui un Barney ormai vecchio ricorda gli scapestrati anni della giovinezza trascorsi a Roma circondato da amici ancora più scombinati di lui, tra cui spicca Boogie, ben interpretato da Scott Speedman) ed ogni volta che si registrano le incursioni sullo schermo di Dustin Hoffman (che interpreta il padre di Barney) si coglie la vena cinica, sarcastica e dissacrante di Barney Panofsky (Paul Giamatti) e del suo mondo. All'interno di quel topos letterario e cinematografico che è la comunità ebraica nel nord America (in questo caso siamo nella bilingue Montreal), Barney è un brillante giovanotto che sembra non riuscire a concludere niente di realmente sensato nella vita: dedito al whisky, ai sigari Montecristo e alle donne, figlio affezionato di un padre poliziotto e gaudente altrettanto politically incorrect quanto lui, diventa produttore televisivo di una soap opera di serie B grazie alla raccomandazione di un familiare, sposa - per averla messa incinta - prima un'artista depressa che finirà suicida, poi una ricchissima ed insopportabile ebrea, infine l'amore della sua vita Miriam (Rosamund Pike), che perderà per superficialità e rimpiangerà fino all'ultimo dei suoi giorni, anche quando l'alzheimer avrà seriamente compromesso le sue facoltà intellettive.

Dopo una prima parte sicuramente più caustica e sregolata, forse più in linea con lo spirito del libro ma anche più discontinua e meno coerente sul piano cinematografico, il film vira verso un approccio più tradizionale e melodrammatico, in cui si pone l'accento sull'animo tenero di Barney e sul bellissimo rapporto con la terza moglie e con i due figli.

Sarà che l'ironia yiddish e dintorni non sempre la colgo fino in fondo, né riesco realmente a riderne soprattutto quando la vedo trasposta sullo schermo (mi è tornato in mente A serious man dei Coen), sarà che lo scorso fine settimana c'avevo la lacrimuccia facile, ma a me la seconda parte del film, pur melensa, mi è piaciuta e negli ultimi dieci minuti mi sono scesi due grossi goccioloni sulle guance. E ho pensato che Mordecai Richler avrebbe probabilmente aborrito un esito di questo genere.

A questo punto dovrò proprio leggere il libro, sperando di divertimi, anziché commuovermi (ed anche un po' intristirmi) come mi è successo con il film!

Voto: 3,5/5

giovedì 24 febbraio 2011

Pompa i bassi, Bruno! / Baru

Pompa i bassi, Bruno! / Baru. Bologna: Coconino Press, 2011.

Ultimamente mi sto appassionando alle graphic novels d'autore. Dopo essermi fatta una cultura su Guy Delisle (a proposito, Cronache birmane è esaurito, mi toccherà prenderlo in prestito da qualcuno o in biblioteca), grazie alla generosità di C. entro in contatto con il mondo di Baru.

Baru è lo pseudonimo del fumettista Hervé Barulea, che viene da una terra, la Francia (ma vale lo stesso per il vicino Belgio), in cui il fumetto ha conservato una grande dignità letteraria e i negozi specializzati in fumetti sono ancora molto diffusi.
Qui da noi dobbiamo accontarci di un'offerta risicata che per fortuna viene in parte compensata dalle opportunità di acquistare fumetti in lingua originale su Internet. Perciò, vorrei innanzitutto rendere merito alla Coconino Press, casa editrice specializzata in graphic novels, che si è data l'arduo compito di far conoscere al pubblico italiano il mondo del fumetto di qualità e i lavori dei più importanti autori italiani e stranieri.

E così, in una serata in cui non ho voglia di guardare la tv né di leggere un libro né di vedere un film al computer, inizio a leggere e a divorare con gli occhi Pompa i bassi, Bruno e non vado a dormire prima di averlo finito.

È la storia di Slimane, un ragazzino africano che sogna di fare il calciatore e che - all'inseguimento di questo sogno - arriva come clandestino in Francia. Si imbatterà in una maldestra banda di rapinatori che vorrebbe assicurarsi una vecchiaia felice grazie ad un ultimo, sostanzioso colpo. Ma le cose non andranno esattamente come sperato per tutti.

Di Baru mi piace molto il disegno e soprattutto il colore acquerellato. Mi piace anche il ritmo narrativo e la sintesi visiva con cui si permette veri e propri salti di sceneggiatura, consentendo comunque al lettore di intuire e completare mentalmente quello che non è esplicito e non è disegnato.

A volte può essere difficile stargli dietro... Ma, in fondo, questa scelta rende la lettura meno passiva e routinaria e ci costringe a un ruolo attivo, ad essere parte integrante della narrazione.

Alla fine della lettura la sensazione è simile a quella che provo di fronte a un corto cinematografico fatto bene. In cui - a causa del limitato tempo a disposizione - non tutto può essere detto e spiegato, ma la forza espressiva e simbolica è altissima proprio per effetto della condensazione temporale.

Baru ci parla di grossi problemi sociali del nostro tempo, ma lo fa con la leggerezza del tratto disegnato e con un originale e dinamico uso del colore. Niente è statico nelle sue tavole. Neanche la nostra mente mentre le scorriamo.

Voto: 3,5/5

mercoledì 23 febbraio 2011

Al limite della notte / Michael Cunningham

Al limite della notte / Michael Cunningham; trad. di Andrea Silvestri. Milano: Bompiani, 2010.

Avevo letteralmente adorato il Michael Cunningham di Carne e sangue, libro intenso, ma delicato, quello che mi ha fatto scoprire la passione per le saghe familiari.
Da quel momento ho continuato a cercare lo stesso spirito, lo stesso coinvolgimento emotivo, la stessa passione in tutti i libri di Cunningham, senza che mai si ripetesse veramente l'innamoramento di quella prima volta.

Ho letto quasi subito e apprezzato Le ore e Una casa alla fine del mondo, che mi richiamavano alla mente la sottile sensibilità e la forza emotiva che lo scrittore newyorkese sa imprimere alle sue pagine.

Nonostante il deciso cambio di direzione, ho voluto leggere anche Giorni memorabili, una vera e propria divagazione narrativa rispetto alla bibliografia di Cunningham. Non mi è piaciuto, ma ho aspettato il libro che riportasse l'autore ai temi e alla scrittura che gli sono più congeniali.

Così, quando ho visto in libreria Al limite della notte e ne ho letto la trama, mi sono detta: "Eccoci. Finalmente il libro che mi farà ritrovare Cunningham." Un protagonista quarantenne, che gestisce una galleria d'arte, sposato con una donna che sembra amare, con una figlia che vive per conto suo. Appassionato di arte e soprattutto della bellezza che l'arte rappresenta, i fragili equilibri della sua vita vengono mandati in frantumi dall'incontro con Erry, l'Errore, il fratello di sua moglie Rebecca, giovane, bello e maledetto.

Se ne innamorerà fatalmente, e finirà per mettere in discussione la sua intera vita.

Detto così, ci sono le premesse per qualcosa di interessante.

Ma, tra echi e citazioni de La morte a Venezia ed excursus di psicanalitiche riflessioni, il romanzo scorre liscio, senza mai riuscire a catturarmi.

Piuttosto mi vado confermando in un'impressione che già il romanzo precedente mi aveva trasmesso. Ossia che Cunningham sia uno di quei newyorkesi per i quali la ferita dell'11 settembre non si è mai rimarginata. E che questa ferita - comune e condivisa da un'intera città e da un'intera nazione - sia stata scavata ancora più in profondità da una crisi del tutto privata, ma anche quella in qualche modo universale, la crisi dei quarant'anni.

Avrei tanto voluto entrare in sintonia con questo stato d'animo, ma la sua rarefatta ricerca di una bellezza che non può che essere in contraddizione con la realtà quotidiana e con la vita non mi ha convinto.

I libri sono o non sono in sintonia con la propria vita, a seconda dei momenti in cui vi capitano. Come le persone, gli incontri, le situazioni. Per me questo non era il momento giusto.

Voto: 2/5

martedì 22 febbraio 2011

Fuoriclasse

La televisione non è il mio genere. E le fiction che danno sui nostri canali televisivi io di solito le chiamo "scemeggiati". Ma in questo caso farò un'eccezione.

Non perché Fuoriclasse sia meno "scemeggiato" degli altri, non perché io lo trovi meno buonista e meno semplificatorio, non perché pensi che ci troviamo di fronte a un lavoro che ha una dignità cinematografica.

Il fatto è che adoro la Litti, la Lucianina nazionale, l'unica cui ho osato nella mia vita chiedere un autografo (!) e in Fuoriclasse l'ho trovata perfettamente a suo agio, lei che all'inizio della sua vita lavorativa faceva appunto la professoressa.

Sarà anche che Michele (Lorenzo Vavassori), il figlio della professoressa che frequenta la stessa scuola della mamma, mi ha ricordato mio nipote (con i suoi occhiali da bravo ragazzo e la sottile peluria sulle labbra) e quella difficile età in cui si diventa grandi senza esserlo ancora.

Sarà che ho trovato la media degli attori stranamente ben scelta (ci sono nomi di tutto rispetto, da Neri Marcorè a Ninni Bruschetta, da Blas Roca Rey a Roberto Citran), soprattutto molto bravi e veri i ragazzi (Tiburzio, Ciarella, Ermir, Soratte, Frasca).

Sarà che da adolescente ho amato il libro Cuore e questa fiction mi è sembrata la rivisitazione in salsa contemporanea di quel libro.

Sarà che ho una carissima amica che fa la professoressa e che si chiama Isa, proprio come il personaggio interpretato dalla Littizzetto, e mi è sembrato di vedere rappresentate sullo schermo le storie che mi racconta.

Insomma, sarà un mix di fattori, ma Fuoriclasse mi ha tenuta incollata allo schermo televisivo fino all'ultima puntata.

Isa Passamaglia (il cui nome mi ricorda una mia professoressa del liceo non altrettanto divertente) è la professoressa di italiano che tutti avremmo voluto avere, che ci racconta la scuola di oggi in modo sì un po' edulcorato ma per tanti versi universale e sincero. Gli studenti di oggi, ma anche quelli di ieri, credo che possano riconoscere nel fantomatico liceo Caravaggio di Torino - dove si svolge la fiction - pezzi del loro passato e presente scolastico, delle emozioni, delle dinamiche, delle bellezze e delle bruttezze che appartengono a quel mondo.

E tutto quel chiamarsi per cognome suscita una tenerezza cui è difficile rimanere indifferenti. Certo è pur sempre televisione, con tutti i suoi limiti di sceneggiatura e quella inevitabile mancanza di complessità che sembra ormai quasi obbligatorio propinare al grande pubblico.

Ma in questo caso la semplicità non è - come sempre più spesso accade in televisione - banalità e assenza di contenuti, bensì è la capacità di dialogare direttamente e costruttivamente col quotidiano.

Brava - ancora una volta - la piccola, grande Luciana!

Voto: 4/5

martedì 15 febbraio 2011

Il discorso del re

Colin Firth e Geoffrey Rush. Due giganti. Capaci di trasformare ogni parola, silenzio, balbettio in comunicazione pura di uno stato d'animo, di un passato, di un pensiero.

Colin Firth riesce nell'incredibile impresa di farci sentire tutti re, portandocelo alla nostra altezza quando ci appare semplicemente Bertie nel suo lato più umano e fragile, ma anche estraniandocelo in quanto prodotto di un mondo e destinato a un ruolo che ci sono completamente alieni, quando ci si presenta come re Giorgio VI (il padre di Elizabeth e Margaret).

Geoffrey Rush - nelle vesti del logopedista australiano Lionel Logue - riesce, invece, nell'altrettanto incredibile impresa di farci sentire amici di un re, ma anche inevitabilmente piccoli e insignificanti al suo cospetto.

Succede così che quando Bertie sta davanti a quel microfono, non si può fare a meno di soffrire con lui. Capiamo perfettamente quali pensieri gli attraversano la mente e quale fremito gli scuote il corpo (è per questo che mi piace quest'altra locandina che vedete qui a fianco!).
Ma quando entra con sua moglie in casa Logue, ci sentiamo piccoli e assolutamente inadeguati quanto Lionel.

Gli fanno da straordinario contorno Helena Bonham Carter, chiamata a interpretare la moglie di re Giorgio, e Guy Pearce, il fratello David, troppo desideroso di una vita normale per potersi assumere la responsabilità di guidare una nazione sull'orlo della guerra con la Germania.

Notevole anche il contributo del regista, Tom Hooper, che a volte opportunamente sceglie di chiudere le inquadrature sui volti, sulle bocche, sugli occhi dei protagonisti, in particolare re Giorgio, a volte allarga lo sguardo a descriverci gli ambienti e i contesti (belle le scene degli interni di casa Logue).

Nell'orrore di un'Europa che da poco ha superato le distruzioni della Prima guerra mondiale e si trova a dover affrontare la minaccia hitleriana e lo scoppio del secondo conflitto mondiale, vediamo il dramma di un uomo che è vittima del confronto impari con un padre re, con un fratello spavaldo e con un se stesso insicuro, dall'emotività ingessata, diviso tra il senso profondo del proprio ruolo e la compressione di personalità che gli è imposta in quanto componente della famiglia reale.

È quasi inevitabile - e per certi versi paradossale visto che parliamo di uno dei momenti più oscuri della storia europea - un moto di invidia per un mondo in cui - nonostante le debolezze umane e i piccoli giochi di potere - riconosciamo un senso alto dello stato e delle istituzioni, una dignità delle persone, una struttura formale che solleva gli animi. Non so se è la Gran Bretagna o i settant'anni che ci separano da esso.

Di fronte a film come questo - mi era successo qualcosa di simile con Milk e con Si può fare - è come se il cuore si aggrappasse a una speranza, provasse a mettere da parte un cinismo che ci è ormai connaturato, ci offrisse l'opportunità di credere in qualcosa. Lo so che la realtà è un'altra cosa. Ma, insomma, se nemmeno il cinema riesce a smuovere una passione civile e umana vuol dire che siamo davvero diventati un'umanità decadente e sterile!

Comunque, a meno che non siate cuori di pietra, la lacrimuccia finale è praticamente d'obbligo. Il discorso del re. In una parola. Maestoso.

Andatelo a vedere in lingua originale e poi ascoltate il discorso che il vero Giorgio VI tenne alla nazione. Ne sarete conquistati. Da lui e dalla grandezza di Colin Firth. Oscar subito.

Voto: 4,5/5

lunedì 14 febbraio 2011

Pina Bausch. Un ritratto

Eccomi qui, catapultata in un mondo che mi è quasi totalmente estraneo, la danza, però non la danza dal vivo, bensì la proiezione di due spettacoli di Pina Bausch: Café Muller e Le sacre du printemps, quindi in fondo una variante della visione cinematografica che ha in questo caso per soggetto il balletto.

Sono andata a vedere il primo appuntamento della rassegna di video e film (Pina Bausch. Un ritratto) che l'Auditorium Parco della Musica ha deciso di dedicare a Pina Bausch e al Tanztheater Wuppertal.

Praticamente non conosco assolutamente nulla di questo mondo. Anzi, ieri sera dicevo che più vado avanti e più mi rendo conto dell'immensità delle cose che non so e della conseguente difficoltà nel parlare con gli altri e nel comprendere il mondo. Per questo, mi sono accostata alla visione di questi due video con l'apertura mentale della neofita, senza aspettative particolari ma con la curiosità che mi caratterizza.

C., che mi ci ha "trascinata", denunciava la difficoltà e la sofferenza di assistere a uno spettacolo di danza - che è fisicità e corpi in movimento, sudore e guizzo di muscoli - attraverso una registrazione video, che impone un punto di vista e costringe a guardare con gli occhi del regista. Per me, poco adusa all'esperienza del balletto, lo shock non è stato così forte.

Del resto, il primo dei due video, Café Muller, di fatto si presenta come una via di mezzo tra un'opera teatrale e un'opera di danza. Ambientato nel grande salone di un caffè ingombro di sedie vuote, la cui unica sorgente di luce è una porta girevole di accesso alla sala.

Su questo palcoscenico si alternano varie figure, spettri ciechi, tra cui un ruolo di primo piano hanno una donna e un uomo che si muovono per la sala, a volte camminando, a volte correndo, secondo traiettorie a volte regolari, a volte del tutto imprevedibili. Un altro uomo entra in scena a spostare le sedie contro cui altrimenti gli altri due si scontrerebbero nei loro spostamenti. Un'altra donna, sempre isolata, e presente fin dall'inizio in scena, si è rivelata ai miei occhi il doppio della protagonista, il suo "io" interiore.
I due protagonisti, ad occhi chiusi, si incontrano casualmente, si scontrano, si sfiorano, si allontanano, a volte si cercano. Di tanto in tanto, un altro uomo entra in scena, intervenendo nel loro rapporto. Li unisce, li separa, li accudisce.
In scena compare anche una donna con un cappotto verde, una parrucca rossa e delle scarpe coi tacchi. L'unica figura colorata. Osserva, partecipa, imita. Ingenua e malinconica. Dal sorriso triste, ma non tragico. Finirà per spogliarsi anche lei di questa maschera posticcia.

Ne uscirà un quadro sconfortante dei rapporti umani - e di coppia in particolare. Della vita, che nella sua insensatezza e nel suo turbinio cieco mette a nudo la nostra incapacità, la nostra fragilità, il dolore che non riusciamo reciprocamente ad evitarci. Il bisogno di incontrarsi, l'impossibilità di sostenersi. La ripetizione dei comportamenti, degli errori, della ricerca di noi stessi e dell'altro.

A volte sembra quasi ipotizzarsi l'esistenza di un deus ex machina a governare queste nostre esistenze, ma è evidente che nessuno in realtà è in grado né di impedirci di farci del male, né di garantirci la felicità di un incontro, né di dare un esito positivo alla nostra ricerca infinita.

Quadro disperato, ma di un'intensità visiva ed emotiva straodinaria.

Il secondo video, Le sacre du printemps, sulla musica di Igor Stravinskij, è un balletto più classico. Quindici uomini e quindici donne in una scena spoglia, che danzano sull'argilla sporcando corpi e abiti. Una specie di rito di iniziazione, di cacciata dal paradiso terrestre, di confronto con una realtà con la quale tutti dobbiamo sporcarci.

Belli il gesto, i corpi in movimento, il simbolismo. Ma emotivamente l'ho trovato meno coinvolgente.

Non sarei la persona più adatta a dare un voto a un mostro sacro della danza del Novecento, ma il mio voto è alla capacità che ha avuto di conquistarmi.

Voto: 4/5

Café Muller


Le sacre du printemps

martedì 8 febbraio 2011

Soffocare / Chuck Palahniuk

Soffocare / Chuck Palahniuk; trad. di Matteo Colombo. Milano: Mondadori, 2002.

Da un po' di giorni ho finito la lettura di Soffocare, il primo libro che affronto di Palahniuk, e prima di dimenticare la sensazione che mi ha prodotto è meglio che io la fissi in questo post.

Ho trovato geniale l'idea che il protagonista, Victor Mancini, escogita per raccogliere un po' di soldi e che dà il titolo al romanzo. Girare per i ristoranti della città e, a un certo punto della serata, dopo aver studiato l'intorno, fare finta di soffocare per un boccone andato storto e sperare che qualcuno si alzi, ti salvi e ti "adotti" per il resto della sua esistenza, ossia si senta responsabile del tuo benessere e della tua felicità anche per il futuro.

Come dire, è un atroce smascheramento della nostra ipocrisia e del nostro egoismo, che ci fa amare un altro essere umano, solo perché ci fa in qualche modo sentire migliori.

A tratti tragico, a tratti esilarante anche il resto della vita di Victor. Sessodipendente in cura, ma fermo da tempo alla fase quattro di dodici. Con la mamma borderline che non lo riconosce più, ma che lui va regolarmente a trovare in una clinica costosissima, impersonando di volta in volta colui che la mamma riconosce nel suo volto. Studente fallito di medicina che lavora come comparsa in un parco a tema che rappresenta un villaggio di Padri Pellegrini nel 1734. Ipocondriaco con un rapporto patologico con la fisicità. Coinvolto in relazioni prevalentemente di tipo sessuale con donne tutte piuttosto assurde. Con un amico altrettanto inclassificabile.

Victor - e attraverso di lui Palahniuk - si presenta come la quintessenza del politically incorrect nel linguaggio e nelle azioni. Un rivoluzionario disilluso e cinico, ma alla fine sfigato e buono suo malgrado.

Una struttura narrativa ondivaga, a volte un po' troppo frastagliata. Un colpo di scena a poche pagine dalla fine, ma una conclusione un po' troppo buonista se confrontata con le premesse.

Insomma, un personaggio alla deriva in un mondo alla deriva che la letteratura rispecchia con uno stile dissacrante, a volte volutamente carico. Soffocante, effettivamente, perché incapace di sintonizzarsi sulla lunghezza d'onda di una realtà negata e riconosciuta come banalmente priva di senso, se non nel salto surreale che finisce in bilico tra sanità mentale e pazzia.

Esperimento interessante, meno sottilmente interpretativo, non così originale, come mi aspettavo.
Non so se leggerò altro di Palahniuk. Non so se è nelle mie corde.
Ma - se volete - accetto consigli.

Voto: 3/5

domenica 6 febbraio 2011

Another year

Come ha detto giustamente l'amica con cui sono andata a vedere questo film "Intendiamoci, non è un brutto film, però... - aggiungerei io - bisogna andarci preparati e sapere cosa ci aspetta".

Insomma, il fatto è che ogni volta che vado a vedere un film di Mike Leigh, leggo la trama e ne sono affascinata, cosicché quasi automaticamente dimentico il suo passato cinematografico, il suo modo di fare cinema, l'iperrealismo un po' artritico che lo caratterizza.

Vi ricordate il tanto osannato Segreti e bugie, vincitore della Palma d'oro a Cannes? Mi ricordo la medesima sensazione un po' claustrofobica, nonostante in quel caso la sceneggiatura fosse certamente più distesa e di maggior respiro.

In questo caso eccoci qui a seguire la vita normale di due persone normali, Gerri (Ruth Sheen) e Tom (Jim Broadbent), nel trascorrere delle stagioni nell'arco di un anno. Intorno a loro ruota un'umanità varia, da Mary (Leslie Manville, straordinaria interprete) che vive con sofferenza lo sfiorire della bellezza e l'assenza di un uomo, a Ken (Peter Wight) che affoga le sue tristezze nell'alcol e nel cibo, al figlio di Gerri e Tom, Joe (Oliver Maltman), al fratello di Tom, Ronnie (David Bradley).

Leigh ama catturare momenti della vita delle persone normali, e lo fa inquadrando ripetutamente e insistentemente i volti delle persone e proponendoci le loro conversazioni, frammenti di una quotidianità che non sempre hanno un vero senso, una finalità, una dimensione epica. Ogni volta che vedo un film di Leigh (e in questo caso l'ho pensato ripetutamente) penso: "Chissà se le nostre conversazioni riprese da una camera in maniera discontinua apparirebbero così - in un certo senso - banali, o forse sarebbe meglio dire difficili da inserire in quel tessuto connettivo, in quel quadro d'insieme che dà un senso anche alla banalità del quotidiano". Probabilmente sì.

Ma allora tanto più mi disturba quella componente enfatica o affettata che attraversa in molte circostanze le scene di questo film (mi sono anche chiesta se parte della responsabilità non sia del doppiaggio). Tom e Gerri non riescono a risultarmi simpatici, né commoventi, coppia felice la cui socialità appare a volte quasi assistenziale. Il figlio Joe è un personaggio non del tutto comprensibile psicologicamente, e la sua fidanzata eccessivamente integrata per risultarmi del tutto credibile. Sinceramente, se è vero che Leigh rappresenta persone, non personaggi, la sua è una ben strana selezione dell'umanità.

Personalmente trovo che Mary sia l'unico "personaggio" capace di trasmettere il senso di una complessità reale e di un'affettività fragile ma densa e riconoscibile. Che vi devo dire? Forse al cinema mi piace vedere dei personaggi, piuttosto che delle persone reali? ;-)

Per concludere, definirei il film un Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera in chiave minimalista britannica e volutamente privo - a mio modo di vedere - di quella trama simbolica che invece è propria dei film orientali.

Insomma, non è che non ne riconosca le qualità registiche e la capacità di una storia così semplice di lasciare un segno, ma personalmente è un film che non tornerei a vedere una seconda volta.

Voto: 3/5

Comunque, guardatevi il trailer, che, nella necessità di una sintesi, finisce per essere molto più commovente perché - in un certo senso - molto più cinematografico.

sabato 5 febbraio 2011

Tamara Drewe: Tradimenti all'inglese

Nel mentre che faticosamente cerco casa da comprare a Roma (ma mi spiegate perché cercare casa è così difficile e stressante?) e che mi sforzo di mantenere integra la mia sanità mentale, provo anche ad avere una normale vita sociale e di svago...

E così ieri sera vado a vedere Tamara Drewe prima che esca dalle sale. In realtà, questo film l'ho "lisciato" volutamente moltissime volte. Era già uscito in Belgio quando ancora vivevo nella capitale d'Europa, ma l'avevo etichettato come una cavolata semplicemente guardandone il trailer. Tornata a Roma, eccolo - dopo un po' - anche nelle sale italiane. Un paio di persone mi propongono di andarlo a vedere, ma ogni volta preferisco altro.

Ieri, per una di quelle strane combinazioni di fattori della vita, mi convinco che tutto sommato questo film si può vedere. In fondo moltissimi critici gli danno votazioni alte, il trailer è divertente, Stephen Frears mi era piaciuto da matti con The Queen. Insomma, perché ostinarsi a non andarlo a vedere?

E il mestiere di Frears certamente si vede anche in questo strano film che - non ci crederete, se non l'avete già letto da qualche parte - è tratto dalla graphic novel omonima (addirittura ispirata a Via dalla pazza folla di Hardy) di Posy Simmonds (le cui foto la fanno proprio sembrare uno dei personaggi del film).

Effettivamente, c'è nella messa in scena qualcosa di stilizzato e sopra le righe (non foss'altro per una campagna inglese praticamente sempre soleggiata), che toglie realismo a storia e ambientazioni, ma che - devo dire - non infastidisce.

La storia è un po' da commedia dell'arte. Un piccolo paese del Dorset, una comunità piccolissima in cui tutti si conoscono, una fattoria - quella degli Hardiment (di proprietà del famoso scrittore NicholaSchiappa (come lo chiama Tamara) Hardiment (Roger Allam) - che offre ospitalità agli scrittori in cerca di pace e di ispirazione, Tamara Drewe (Gemma Arterton) che ritorna al paese natìo col naso rifatto e degli hot pants mozzafiato (dopo un'adolescenza trascorsa ad essere considerata intelligente ma decisamente bruttina), le adolescenti Casey e Jodi che, annoiate da un posto dove non succede nulla, innescano - più o meno volontariamente - una commedia degli equivoci letteraria e burlona al contempo.

Eccellente il quadro di un'umanità la cui ragione di vita è il racconto sulla vita degli altri, la rilettura personale degli eventi, il pettegolezzo maliziosamente divertente. Il film parla di scrittori e di scrittura, ma in fondo non fa altro che dimostrare come la narrazione sia parte integrante dell'esistenza e molte volte si sostituisca ad essa, colorando vite altrimenti piatte di sfumature gialle, rosa o nere, secondo il taglio con cui guardiamo gli eventi.

Lo humour è inglese, ma non troppo, visto che qualche risata sguaiata ce la suscita. Peccato che - come ormai sempre più spesso accade - il trailer ci sveli la tramatura umoristica, spuntando le armi alle battute più folgoranti.

Insomma, il classico film da cui si esce dicendo "carino, vero?", ma in fondo l'avremo in buona parte dimenticato appena girato l'angolo.


Voto: 3/5


mercoledì 2 febbraio 2011

Il mare / Paolo Poli

In un teatro che insegue sempre più tristemente il linguaggio, la recitazione e le scelte attoriali della televisione e del cinema, Paolo Poli rappresenta una ventata fresca e pulita di un passato glorioso che riesce a farsi ancora, significativamente, presente.

Confesso la totale ignoranza con cui sono andata a vedere al Teatro Eliseo di Roma il nuovo spettacolo dell'attore fiorentino. Pur conoscendolo di nome non l'avevo mai visto in scena, né avevo mai letto nulla di Anna Maria Ortese, dai cui racconti raccolti nel volume Il mare non bagna Napoli sono liberamente tratti i pezzi di prosa che compongono lo spettacolo.

Vedere Paolo Poli è stato come fare un tuffo nella prima metà del Novecento, in quel teatro di rivista e di avanspettacolo, in cui anche la vena malinconica e la riflessione triste sulla sorte umana vengono inseriti in un'atmosfera da commedia umana, in cui un ruolo centrale è svolto dalle canzoni e dalle coreografie, in cui si ride anche quando si avverte un piccolo peso sul cuore.

Tutto nello spettacolo Il mare ci porta indietro nel tempo: le bellissime scenografie disegnate e dipinte su tre grandi teli complementari, che cambiano ad ogni cambio di scena; le canzoni che provengono dal repertorio della canzone popolare e delle filastrocche perdute (alcune per me sono totalmente sconosciute, mentre alla signora accanto a me ricordano l'infanzia); la recitazione un po' sopra le righe e quasi scollacciata, pur non perdendo grazia e misura; i costumi variopinti e sempre nuovi, che giocano con l'arte del travestimento.

Lo spettacolo mi ha fatto pensare poi a un teatro ancora più antico, quello elisabettiano, visto che la compagnia interamente al maschile si cala con grande bravura e naturalezza nei panni di uomini, donne e bambini, senza risultare mai inappropriata. Ormai non per necessità, ma per una scelta che è del tutto funzionale all'impianto teatrale adottato. Bravissimi i quattro attori che affiancano il protagonista, Mauro Barbiero, Fabrizio Casagrande, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco, e che - speriamo - sappiano dare un futuro a questo teatro in via di estinzione.

Grandioso Paolo Poli, un attore che sta in mezzo tra Fregoli e Macario, ma che in fondo è unico per la coerenza e l'originalità della sua impostazione. Qualche piccola défaillance gliela perdoniamo alla veneranda età di 81 anni. È invece la carica creativa, lo spirito dissacrante, la naturalezza e l'espressività che gli riconosciamo in tutta la loro interezza.

Adesso capisco dove affonda le sue radici e dove ha tratto ispirazione un bravissimo attore che avevo visto recitare a Bologna, Alessandro Fullin, un altro virtuoso dei travestimenti e della commedia umana.

Forse c'è speranza che - nonostante i pessimismi che alcune vicende alimentano - la nostra società sappia portare con sé anche per il futuro ciò che di meglio le appartiene.

Voto: 4/5

martedì 1 febbraio 2011

Da Canova a Modigliani. Il volto dell'Ottocento. Mostra

È in corso a Padova fino al 27 febbraio 2011 una mostra dedicata al tema del ritratto e alla sua evoluzione nel corso dell'Ottocento (con qualche estensione agli ultimi anni del Settecento e ai primi del Novecento).

La mostra è ospitata nella splendida cornice (come si dice in questi casi!) di Palazzo Zabarella, col suo bell'accesso dal cortile interno, lo scalone monumentale e i soffitti dipinti.

Come spesso accade in questi casi, un contesto prestigioso e dotato di una sua intrinseca bellezza non è necessariamente il più adatto e/o adattabile ad allestire un percorso artistico autonomo. Così, qualche stridore tra le opere in mostra (che sono prevalentemente dipinti, ma anche qualche scultura) e struttura architettonica si avverte, fors'anche perché la mostra ha un allestimento molto classico, fatto di brevi didascalie alle singole opere (integrate per chi vuole da audioguide), pannelli descrittivi che introducono le singole sezioni e grandi panneli con citazioni di contemporanei, soprattutto letterati e scrittori, ma anche gli stessi artisti e studiosi di arte, che si propongono di offrire suggestioni di lettura o suggerire collegamenti mentali non del tutto evidenti.

Ultimamente mi lascia un po' insoddisfatta questo tipo di allestimento, perché secondo me - che storica dell'arte non sono, né esperta di arte - si potrebbe investire qualcosina di più nel progettare strategie di coinvolgimento del pubblico, soluzioni di maggiore interattività, percorsi divulgativi di umanizzazione dell'arte. Ma... i nostri storici dell'arte sono figli di un approccio culturale che in qualche modo aborre la massificazione del consumo culturale e, ancora di più, la semplificazione della forma e dei contenuti della comunicazione.

Fatta questa premessa del tutto soggettiva, va detto che i contenuti della mostra e l'idea su cui si fonda risultano interessanti. La riflessione sulla continuità - e al contempo la profonda trasformazione - del genere del ritratto, nelle sue varie espressioni - ritratti di singoli e di famiglie, di estranei, di familiari o autoritratti - garantisce spunti di lettura meno scontati di quelli cui siamo abituati.

Il ritratto ne viene fuori, infatti, non solo come prodotto standardizzato e realizzato su commissione, mezzo principale di sostentamento per molti artisti, manifestazione esterna e segno esplicito - da parte prima della nobiltà e poi anche della borghesia - della propria ricchezza e status sociale, bensì anche come occasione per esprimere un originale punto di vista sulla realtà, sull'essenza immutabile dell'umanità ed anche sull'evoluzione dei contesti e della composizione sociale, sul rapporto tra città e campagna, sullo sviluppo tecnologico.

Ciò detto, a parte alcuni pezzi particolarmente famosi, come il ritratto di Alessandro Manzoni dipinto da Francesco Hayez che, nella mente di tutti noi, è praticamente l'unica immagine possibile dello scrittore lombardo per averla vista riprodotta in troppi manuali scolastici, per il resto attenzione e gradimento individuali saranno il risultato di sensibilità e preferenze del tutto personali.

Per quanto mi riguarda, pur affascinata dai ritratti nobiliari e borghesi della metà dell'Ottocento, finisco per essere inevitabilmente attirata dalla svolta artistica che si realizza tra fine Ottocento e inizio Novecento, che è una svolta non solo sul piano tecnico, ma anche su quello filosofico e sociale.
Così i ritratti di Corcos (è suo il dipinto Sogni scelto come locandina della mostra) e poi l'accelerazione impressa da Boccioni e Balla prima e da Modigliani poi sono le cose che mi hanno intrigato di più. E dunque, proprio quando mi è nata la curiosità di sapere come va avanti la storia del ritratto, ecco che la mostra è finita.

A questo punto aspetto la seconda parte: Il volto del Novecento ;-)

Voto: 3,5/5