mercoledì 29 giugno 2016

Graffi sul tavolo / Guus Kuijer

Graffi sul tavolo / Guus Kuijer; trad. di Laura Draghi. Milano: Salani, 2012.

So che per chi si occupa di letteratura per bambini e ragazzi Gus Kuijer è un mostro sacro, ma io non ne sospettavo l'esistenza prima che mi venisse regalato il suo romanzo Per sempre insieme, amen.

Ho scoperto così un autore che è in grado di parlare il linguaggio dei bambini e di guardare nel cuore degli adulti con gli occhi di un bambino.

Le sue sono sempre storie piccole, in cui la narrazione è in qualche modo un pretesto per indagare i sentimenti e le emozioni che si nascondono sotto la superficie, ma non con la modalità intellettualistica e psicanalitica degli adulti, bensì con quella modalità un po' ingenua ma anche profondamente istintiva che è propria dei bambini.

In Graffi sul tavolo la protagonista è Madeleif, una bimba di nove anni con un nome strano, a cui muore la nonna.

Di fronte alla quasi indifferenza di sua madre e al dolore composto del nonno, Madeleif si incuriosce alla figura di questa nonna che tutti descrivono come una donna fredda e autoritaria, interessata solo alla pulizia della casa, ma che a poco a poco si rivela ben più sfaccettata e complessa.

Quando si trasferisce per qualche giorno a casa del nonno per non lasciarlo solo, Madeleif comincia a capire il perché la nonna fosse diventata una donna così austera, tanto da non essere amata neppure dai suoi stessi figli e da essere rimasta sostanzialmente isolata. Ne scopre il nascondiglio segreto nella casetta nel giardino e a poco a poco capisce il significato dei graffi sul tavolo.

E questo percorso avviene senza clamorose rivelazioni, bensì attraverso una quotidianità affettuosa e un po' naif di cui la stessa Madeleif pagina dopo pagina traccia i contorni. Ne viene fuori un disegno impreciso e non perfetto, ma dotato di una grande portata emotiva, come spesso accade per i disegni dei bambini.

Difficilmente da adulti ci ricordiamo come guardavamo il mondo e le sue stranezze quando eravamo piccoli, in che modo ci davamo le nostre spiegazioni fantasiose alle cose incomprensibili, quelle che a volte restano incomprensibili anche da adulti ma che da bambini si compongono in un orizzonte di senso del tutto personale e originale, verissimo nel suo non essere aderente alla realtà.

Ebbene Guus Kuijer ce lo fa ricordare. Con leggerezza e profondità insieme.

Voto: 3,5/5

lunedì 27 giugno 2016

Un assaggio di Abruzzo: Campo Imperatore e Bominaco

Dopo la vacanza post natalizia che ci ha fatto innamorare dell'Abruzzo e ci ha lasciato una voglia infinita di continuare ad esplorarlo, torniamo per una breve due giorni. Innanzitutto vogliamo di nuovo fare dei giri nell'altopiano di Campo Imperatore dove, dopo Natale, la mobilità era fortemente ridotta, e poi vogliamo andare a visitare Bominaco che avevamo colpevolmente sottovalutato.

Dopo un bellissimo percorso in macchina, una sosta per mangiare il nostro pranzo sui prati subito dopo il punto di partenza della funivia del Gran Sasso, e una piccola passeggiata in cima a un colle da dove si gode una vista spettacolare, arriviamo alla nostra location, che questa volta (purtroppo per una sola notte) è il Rifugio Racollo, una piccola casetta persa in mezzo all'altopiano, a due passi dal piccolo Lago di Racollo da cui prende il nome. Siamo gli unici ospiti per la notte, anche se quando arriviamo - all'ora di pranzo - le due salette sono piene di gente che mangia e ci sono odori buonissimi dappertutto (soprattutto - ma non solo - di arrosticini). Prendiamo possesso della nostra stanzetta con vista sul laghetto e sulle verdissime colline, che a loro volta sono circondate di montagne altissime, ma che - visto che siamo già a 1.600 metri - non sembrano poi così alte.

Al rifugio i cellulari non prendono e non arriva la linea telefonica; bisogna fare sei chilometri verso Santo Stefano di Sessanio per riavere la linea. L'energia elettrica è fornita da due generatori, perché nel parco non si può mettere un pannello solare (sic!) e il wifi è satellitare e non funziona mica tanto bene.

Ma lì, nel mezzo del niente, ci si sente benissimo, e Claudia e Fabrizio (due dei gestori che abbiamo incontrato nel nostro breve soggiorno) ti fanno sentire a loro agio raccontandoti tutto quello che vuoi sapere, portandoti cose buonissime da mangiare e affrontando l'emergenza quando i due generatori si rompono e restiamo solo con le torce, senza telefono e senza wifi. Ma che bella sensazione di libertà!

Prima però che la corrente andasse via abbiamo avuto il tempo di fare una passeggiata in queste infinite praterie con i declivi dolci lungo un sentiero CAI fino a delle rovine che vedevamo da lontano e a un altro laghetto. Nel frattempo, il tempo ci ha proposto tutte le possibilità: nuvoloni, sprazzi di azzurro e infine la pioggia, prima sottile e poi battente, che ci convince a tornare indietro. Una volta al rifugio siamo completamente zuppe e i nostri abiti rimarranno sostanzialmente così fino alla ripartenza...

Sonnellino ristoratore e poi ci aspetta un aperitivo ricchissimo che si trasforma in cena quando arriva al rifugio un gruppetto di ragazzi che festeggia un addio al celibato: salumi, formaggi, pallette cacio e ovo, uovo e peperoni, farro, anellini di pasta con le verdure e chi più ne ha più ne metta. Con la pancia piena si va a dormire nel buio e nel silenzio assoluto della stanzetta.

La mattina dopo il tempo è un po' migliorato, cosicché io posso scatenarmi con la mia nuova macchina fotografica a cercare di catturare la bellezza mozzafiato e incredibile di questi luoghi. Decidiamo di esplorare in macchina l'area che non avevamo visto a Natale, ma non è che facciamo molti chilometri perché - come già accaduto il giorno precedente - non possiamo che fermarci ogni pochi metri per fare le foto e fare due passi sui prati.

Ci dirigiamo verso l'albergo di Mussolini, su in alto a Campo Imperatore, da dove vorremmo fare una passeggiata verso il rifugio Duca degli Abruzzi, ma già quando saliamo ci rendiamo conto di stare entrando completamente nella nube e, quando siamo su, la nebbia è così fitta che non si vede nulla intorno, tranne le numerose moto dei motociclisti arrivati fin qui.

Dunque, decidiamo di ridiscendere e ci incamminiamo nella direzione di Bominaco, verso il Parco del Sirente Velino. Quando arriviamo in paese è l'ora di pranzo, cosicché ci fermiamo a mangiare all'unica trattoria del luogo per il nostro ultimo pasto abruzzese (in cui non potevano mancare gli arrosticini, mai buoni però come quelli di Campo Imperatore). Dopo pranzo saliamo al complesso abbaziale composto dall'Oratorio di San Pellegrino e dalla Chiesa di Santa Maria Assunta. Ci sono anche altri visitatori che già hanno chiamato la signora il cui numero campeggia sul cancello, Dora.

Ed ecco arrivare la signora che, con un'eleganza e una compostezza tutti abruzzesi, ci apre e ci fa una bella visita guidata innanzitutto nell'Oratorio completamente affrescato, i cui affreschi risalgono al 1260, tanto da avergli meritato il nome di Cappella degli Scrovegni d'Abruzzo. In realtà qui - a differenza che a Padova - dominano i colori caldi, giallo e rosso, che la signora ci dice essere ottenuti dallo zafferano di cui quest'area è ricca. L'interno dell'oratorio ci lascia a bocca aperta! Poi andiamo alla Chiesa abbaziale parzialmente ricostruita, soprattutto nella parte relativa agli edifici esterni. Ma la vista dal retro sugli absidi che si innalzano direttamente sulla roccia è eccezionale.

Alla fine della visita decidiamo di inerpicarci verso i resti del castello sulla cima della collina. Non sappiamo che ci attende un panorama strepitoso che da un lato si apre sul paese di Navelli e sulla sua piana, mentre in lontananza si intravedono i resti del castello di San Pio delle Camere, e dall'altro sul paese di Bominaco e sui monti verdissimi che chiudono questa parte di paesaggio e dominano il paese. Una vera meraviglia che restiamo a contemplare per un po'...

Poi prendiamo il sentiero che dal castello scende fino al paese e, purtroppo, la nostra vacanza a questo punto è già finita, e tocca tornare di nuovo verso il caos e gli orizzonti ristretti della città.

Ma l'Abruzzo si conferma una nostra meta del cuore.

mercoledì 15 giugno 2016

Destroyer (+ Barbarisms). Unplugged in Monti, Quirinetta Session, 7 giugno 2016

Ed eccomi al primo appuntamento della nuova avventura nella quale i ragazzi di Unplugged in Monti si sono lanciati. Dopo gli storici concerti nella saletta del Black Market e le Church Sessions alla Chiesa Metodista, si inaugurano con questo concerto le Quirinetta Sessions, i live nello storico teatro a due passi dalla Fontana di Trevi che è ormai diventato un punto di riferimento per la musica dal vivo nella capitale.

In realtà, non è l’unica nuova avventura per Unplugged in Monti, visto che da pochissimo questi ragazzi hanno fondato una piccola etichetta, A modest proposal record, con cui far uscire i gruppi che amano e che vogliono fare scoprire.

E uno di questi gruppi, il cui ultimo album non a caso è la prima uscita della nuova etichetta, è proprio quello che cura l’opening questa sera, i Barbarisms.

Si tratta di un trio formato dal cantautore americano Nicholas Faraone, cantante e chitarrista, Tom Skantze alla chitarra elettrica e il batterista Robin Af Ekenstam, quest’ultimo con il braccio destro amputato sostituito da una protesi con cui maneggia la bacchetta.

I tre salgono sul palco verso le 22.15, dopo che io ho avuto il tempo sia di fare un giro del centro di Roma by night provando la mia nuova macchina fotografica, sia di fare un giro all’interno del Quirinetta per vedere la mostra dei poster realizzati in occasione dei concerti dell’anno, esposti in una saletta laterale.

I Barbarisms riscaldano subito l’atmosfera proponendoci canzoni tratte sia dal loro album appena uscito, Browser, che dal loro precedente che portava il loro nome e che aveva attirato l’attenzione dei critici musicali, suggerendo paragoni con gruppi storici come i Built to Spill.

Sul palco i Barbarisms sono molto affiatati, e il loro leader Nicholas Faraone non perde occasione per ribadire quant’è contento di essere qui questa sera, ribadendo il legame speciale che c’è tra il gruppo e l’Italia, e soprattutto Roma.

Ad un certo punto Faraone fa la sua dichiarazione di ammirazione per Destroyer e ci introduce una canzone dicendoci che in parte è ispirata a una di Destroyer, anche se probabilmente non riusciremo ad individuare quale; è il suo speciale e personale tributo all’artista che tra poco salirà sul palco.

Purtroppo il loro concerto finisce fin troppo presto (ma io mi sono portata a casa il loro ultimo CD); d’altra parte, tutti – compresi gli stessi componenti dei Barbarisms – aspettano l’arrivo sul palco della star di questa sera, Destroyer, il cantante canadese Dan Bejar che in passato ha collaborato con gruppi famosi e poi nel 1995 ha avviato questo progetto con cui ha pubblicato parecchi album fino all’ultimo di quest’anno Poison Season.

Destroyer arriva sul palco accompagnato dall’intera band: tastiere, sassofono, tromba, due chitarre, il basso e un sintetizzatore. È dunque un palco affollato quello di Destroyer e bellissimo da vedere.

Tra il pubblico in prima fila si sistema Nicholas Faraone e per un po’ anche Tom Skantze. Il primo balla e canta, anche insieme ad alcune ragazze del pubblico che gli si sono avvicinate, dimostrando di essere un vero fan.

Destroyer invece sul palco ha uno stile molto sobrio e silenzioso. È elegante con i suoi pantaloni a sigaretta e la camicia bianca, e tra una canzone e l’altra raramente si rivolge al pubblico, mentre di solito si abbassa a raccogliere un bicchiere o una bottiglia di birra che ha vicine all'asta del microfono.

Sapete che non sono un’esperta musicale perché alla musica ci sono arrivata tardi, ma la musica mi piace molto ed è questo fondamentalmente il mio metro di giudizio. Credo però che nel caso di Destroyer anche chi ha competenze musicali più ampie delle mie farebbe certamente fatica a dare una definizione del genere musicale di questo artista, le cui caratteristiche principali mi paiono essere poliedricità e raffinatezza. La varietà del suo repertorio consente a Destroyer di offrirci un concerto di grande soddisfazione, che non annoia mai ed è capace di trascinare anche il più restio degli spettatori.

Direi che come primo appuntamento i ragazzi di Unplugged in Monti possono essere certamente contenti del risultato. Per quanto mi riguarda, aspetto le loro prossime mosse.

Voto: 3,5/5

domenica 12 giugno 2016

Domon Ken. Il maestro del realismo giapponese. Museo dell'Ara Pacis, 4 giugno 2016

Ed eccomi a un'altra mostra di fotografia, questa volta nello spazio espositivo dell'Ara Pacis. Non conoscevo Domon Ken, ma quando ho visto le presentazioni della sua mostra mi ha immediatamente incuriosita.

Ho scoperto così che Domon Ken è uno dei più grandi fotografi giapponesi e che, con le sue foto, ha attraversato buona parte della storia giapponese del Novecento, coprendo il periodo che va dagli anni Venti agli anni Settanta. Quella di Domon Ken è la storia di una vera e propria passione mai sopita per la fotografia, che ha superato anche i gravi problemi di salute del fotografo dopo la prima e la seconda emorragia cerebrale che lo hanno alfine costretto su una sedia a rotelle.

Le foto di Domon Ken sono anche il racconto emotivo del rapporto del fotografo con il suo paese: dalle fotografie di propaganda del montante nazionalismo giapponese degli anni Trenta al racconto della vita in Giappone attraverso le foto dei bambini (forse la sezione più bella ed emozionante della mostra), da i ritratti di giapponesi famosi alla testimonianza dell'arrivo delle mode occidentali, dalle scene di vita quotidiana alle immagini della forza dei sopravvissuti dopo lo scoppio della bomba atomica a Hiroshima. Ma il percorso fotografico di Domon Ken alterna momenti di grande immersione nelle dinamiche sociali a momenti di altrettanto grande isolamento e meditazione che continuano a trovare espressione nelle fotografie, ad esempio con le foto sul teatro tradizionale giapponese dei burattini ovvero dei templi e delle statue buddiste.

Il suo percorso fotografico testimonia anche i progressi tecnici della fotografia, ad esempio l'avvento del colore, che Domon Ken adotta pur non abbandonando mai definitivamente il bianco e nero, nonché i rapporti dialettici con la fotografia occidentale e maestri quali Cartier Bresson e Doisneau che Domon cita, ma mantenendo intatta la sua autonomia e la sua poetica fotografica, che resta sempre profondamente agganciata alla cultura giapponese.

Una mostra fotografica originale e affascinante che ci permette di uscire dai terreni battuti e conosciuti della fotografia di casa nostra per gettare lo sguardo su un mondo lontano geograficamente e culturalmente, ma di cui pure attraverso la fotografia riusciamo a respirare e condividere il portato emotivo.

Peccato solo per il fatto che lo spazio espositivo dell'Ara Pacis - pur bello - non si presta totalmente a offrire dei percorsi lineari, e dunque il povero spettatore tende un po' a vagare negli spazi creati dalle pareti di cartongesso senza avere ben chiaro quale sia il percorso immaginato dal curatore della mostra.


Avete tempo fino al 18 settembre.

Voto: 4/5

venerdì 10 giugno 2016

Nimona / Noelle Stevenson

Nimona / Noelle Stevenson. Milano: Bao Publishing, 2016.

Nimona è una mutaforma, una ragazza-mostro, che riesce a modificare il suo aspetto in qualsivoglia essere animato. Un giorno bussa alla porta di Lord Ballister Cuorenero, il criminale del reame, offrendosi come sua assistente. Lord Ballister è prima titubante perché Nimona si presenta come una ragazzina, poi però la prende con sé.

Presto si accorgerà che Nimona è spietata ed è interessata solo a compiere azioni malvagie, mentre a poco a poco al lettore si rivela la vera natura di Cuorenero, che dopo aver perso un braccio in un combattimento contro il suo amico, ora nemico, Sir Lombidoro, ha dovuto accettare il ruolo di fuorilegge, ma è interessato soprattutto a far conoscere al popolo le nefandezze dell'ente che li governa.

Tra un'azione criminale e l'altra, Lord Ballister e Nimona impareranno a conoscersi e scopriranno ciascuno il passato che ha portato ognuno di loro ad essere quello che sono, senza averlo veramente scelto, ma in qualche modo condannati dalla società ad essere capri espiatori della paura e delle nefandezze che si celano al suo interno.

Nimona è un inno al valore dell'amicizia, ai cattivi che hanno solo bisogno di essere amati, alla difficoltà di fidarsi degli altri e di resistere ai nostri più bassi istinti, alla necessità di non giudicare dalle apparenze.

Ne viene fuori un graphic novel buffo che nell'impianto da favola quasi classica sembrerebbe per bambini e invece poi scopri che i cliché sono tutti rovesciati e il bene e il male non stanno esattamente dove ci saremmo aspettati di trovarli.

I disegni sono coloratissimi, un mix di antico e moderno, esattamente come il linguaggio utilizzato e le soluzioni narrative (visto che in un mondo di impianto medievale la tecnologia è molto avanzata), e sono disegni con una cura del dettaglio che permette di percepire tutti gli umori dei personaggi, soprattutto della sfuggente protagonista.

Nimona è probabilmente un lavoro che proviene da un mondo, quello del cross-over e della fan fiction (cui Noelle Stevenson appartiene e di cui utilizza i linguaggi e adotta alcuni stilemi) che non conosco e dunque non capisco fino in fondo, ma che esercita comunque su di me uno strano fascino, esattamente come questo curioso albo.

Da Nimona non imparerete vere lezioni di vita, ma è probabile che il vostro io adolescente si risveglierà con un sussulto.

Voto: 3/5

mercoledì 8 giugno 2016

Gabriele / Fausto Paravidino. Teatro Vittoria, 31 maggio 2016

Nell'ambito della rassegna Salviamo i talenti, organizzata al Teatro Vittoria, io, F., L. e P. ci dividiamo gli spettacoli da vedere e io mi scelgo lo spettacolo di Fausto Paravidino, che già avevo avuto modo di apprezzare a teatro ne La malattia della famiglia M.

In questo caso Paravidino non è in scena, ma la storia è chiaramente autobiografica anche perché uno dei protagonisti si chiama appunto Fausto.

Il racconto è ambientato negli anni Novanta (niente telefoni e niente Internet) ed si svolge interamente in una casa, anzi per l'esattezza nella cucina della casa di Roma dove vivono 5 amici aspiranti attori, giovani e spiantati, confusi e teneri, affacciati sulla soglia della vita adulta un po' entusiasti e un po' spaventati.

Nella loro vita entra a un certo punto Angela, che uno di loro - quello fidanzato - porta a casa una sera tra lo stupore di tutti gli altri. Ma Angela è destinata a ricomparire a più riprese nella casa, costituendo per tutti loro una specie di occasione di educazione sentimentale e sessuale. Fino a quando un giorno arriva una sua telefonata in cui annuncia di essere incinta, ma di non saper esattamente chi è il padre del piccolo che si chiamerà Gabriele.

Tra litigi, ironie, scambi di battute fulminanti, inserti meta teatrali (come quando i ragazzi vanno a fare un provino), la storia scorre divertente e appassionante, senza essere superficiale. Un vero e proprio tuffo in un mondo anni Novanta che per certi versi appare tanto lontano, eppure per altri è vicinissimo - e in qualche modo universale - nei sentimenti e nelle emozioni che un gruppo di amici che divide una casa e sogna un futuro prova e trasmette al pubblico.

Per quanto mi riguarda un'ulteriore conferma della bravura di Fausto Paravidino, capace di scrivere e raccontare storie che hanno il sapore della genuinità, in quell'alternarsi di piccoli e grandi imprevisti, ma anche di inaspettate gioie che solo la vita può regalare.

Voto: 3,5/5

lunedì 6 giugno 2016

Terapia di coppia per amanti / Diego De Silva

Terapia di coppia per amanti / Diego De Silva. Torino: Einaudi, 2015.

Una segnalazione su Facebook mi suscita la curiosità di leggere questo libro con un titolo così strano e di un autore di cui non ho mai letto niente.

Terapia di coppia per amanti parla di Modesto e Viviana, entrambi sposati, lui musicista di blues, un po' naif, con la battuta pronta, ma non sempre opportuna, "uno stronzo con un cuore grande" come lo definirà l'analista, lei inquieta, con una situazione familiare un po' delicata, innamorata ma insicura.

I due hanno una relazione clandestina da tre anni, fatta di appuntamenti alle rotonde, sesso in bed & breakfast, grande amore e grandi litigate. Ora dopo tre anni Viviana vorrebbe di più, Modesto non sa nemmeno lui cosa vuole, così viene trascinato da lei in terapia di coppia dal dottor Malavolta, uno psicologo che va in televisione e dispensa buoni consigli, ma è ancora più incasinato sul piano sentimentale.

Le prime pagine sono molto promettenti e dunque vado avanti con entusiasmo. Lo stile è brillante e l'alternanza dei punti di vista nei capitoli (quello di lui, Modesto, e quello di lei, Viviana) rende la lettura sicuramente divertente.

Alcuni personaggi - comprimari - sono quasi migliori dei protagonisti: i cameo del padre di Modesto, un gran viveur e sciupafemmine, e del figlio Eric, che ha capito del padre e della vita più di quanto lo stesso Modesto abbia capito, sono dei piccoli gioiellini.

Man mano però che la storia va avanti l'impianto si fa un po' scontato e niente di veramente sorprendente emerge rispetto a quanto dichiarato nelle prime pagine. In generale, poi, le figure maschili - come del resto è facile capire da quanto detto sopra - sono tutte piuttosto interessanti e, dal punto di vista femminile, direi che il libro è una straordinaria occasione per capire alcuni aspetti della psicologia maschile soprattutto in riferimento all'amore e alla coppia; al contrario, invece, le donne tendono ad essere sbiadite o isteriche, oggetto di una banalizzazione psicologica che sinceramente mi ha un po' sorpreso. Forse questo è in parte il modo in cui gli uomini le vedono e ne interpretano le complessità soprattutto rispetto ai sentimenti, ma mi auguro che da qualche parte il genere maschile si sollevi di fronte al messaggio che l'autore in qualche modo - e forse anche involontariamente - finisce per veicolare.

Per di più l'anticonvenzionalità promessa dal titolo e dalle prime pagine del libro - parlare di una storia d'amore clandestina non per la sua immoralità ma per la sua bellezza e in qualche modo originalità - finisce su binari più che convenzionali nell'ultima parte del romanzo. E per fortuna ci viene risparmiato un happy ending completo che sarebbe coinciso con quello che tutta la società moralista si aspetterebbe da Modesto e Viviana: lasciare i loro partner per iniziare una vera storia alla luce del sole oppure chiudere questa per tornare al loro nido familiare. E la sfumatura del finale salva in parte il possibile scivolamento conformista.

Voto: 2,5/5

sabato 4 giugno 2016

Sul tetto del mondo / Le Ariette. Teatro India, 29 maggio 2016

Le Ariette è un podere che sta sulle colline bolognesi, zona Castello di Serravalle, e fa parte del territorio del comune di Val Samoggia. Ma è anche il nome di una piccola compagnia teatrale, quella che Paola Berselli e Stefano Pasquini hanno messo in piedi e che portano in giro per l'Italia e per il mondo insieme a Maurizio Ferraresi.

Dal luogo nel quale vivono, la casa alle Ariette, dove coltivano la terra e allevano gli animali, arriva l'ispirazione prima del loro teatro, che mescola continuamente arte e vita, e insegue lo spirito comunitario nella messa in scena e nelle forme di interazione con il pubblico.

In questo caso siamo in sessanta spettatori intorno a uno spazio in cui, su alcuni fornelli, cuociono delle pietanze. Dall'altra parte c'è un tavolo basso e dietro due spaventapasseri, i protagonisti di questo racconto.

Paola e Stefano hanno tratto ispirazione per questo spettacolo dalla festa organizzata per i loro 25 anni insieme. E si sono guardati come spaventapasseri in mezzo ai campi, che vivono il tempo di una stagione e poi tornano legno e paglia.

Ma in questa stagione, in cui il tempo inesorabilmente passa, è bellissimo stare sulla cima della collina, lassù, come sul tetto del mondo, e guardarsi intorno, ascoltare, toccare e farsi toccare, sentire il vento, la pioggia, il sole. In una parola, vivere.

In fondo, questo spettacolo delle Ariette è un appassionato inno alla vita e alla bellezza a volte entusiasmante, a volte sconcertante del tempo che passa, e una sua rilettura all'interno del grande ciclo della natura e degli eventi.

Il senso del tempo attraversa l'intero spettacolo, con i suoi ritmi lenti e le improvvise accelerazioni, nonché l'avvicendamento al pentolone dove è stata versata la polenta, e tutti, Paola, Stefano, Maurizio e il tecnico del suono, si siedono a girarla con il grande bastone di legno. E poi, sul telo in fondo alla sala, scorrono le immagini del podere delle Ariette, e dei cani, delle persone e della vita, e a volte ci fermiamo a guardarle e altre volte passano sullo sfondo di quello che accade sul palcoscenico, le semine, i raccolti, il sonno, l'amore, la morte.

E infine, dopo una poesia recitata da Paola e accompagnata da Stefano alla chitarra, che è anche una dichiarazione d'amore, siamo tutti invitati intorno al tavolo a mangiare con loro il cibo preparato in questo tempo che abbiamo trascorso insieme e in cui abbiamo condiviso un pezzetto della nostra stagione.

Voto: 3,5/5