martedì 26 novembre 2013

Anni felici


Quello di Daniele Luchetti è un film che in qualche modo parla alla generazione di chi è stato bambino negli anni Settanta e ha guardato con gli occhi di bambino il riflesso sul privato, in particolare sul proprio ambito familiare, della rivoluzione sociale e culturale in corso.

Ma probabilmente Anni felici parla ancora di più allo stesso Luchetti che certamente nel film ha travasato parte dei suoi ricordi personali e del suo vissuto e probabilmente ha avuto bisogno di raccontare questa storia attraverso una cinepresa (esattamente come fa il protagonista del film, Dario), per venire a patti con il suo passato, per perdonare e perdonarsi e per ricominciare.

Sotto questa luce il film acquista una tenerezza che va persino al di là delle intenzioni dell'autore e che probabilmente lo riscatta da qualche elemento di "già visto" e di "piacioneria".

Anni felici è la storia di un periodo nella vita di una coppia, quella formata da Guido (Kim Rossi Stuart) e Serena (Micaela Ramazzotti), vista attraverso gli occhi del figlio maggiore, Dario (Samuel Garofalo), anche in relazione al figlio minore Paolo (Niccolò Cavagna). In particolare, racconta dell'amore travagliato tra queste due personalità un po' adolescenziali, lui convinto di essere un artista di avanguardia nonché incline al tradimento, lei che utilizza la propria fisicità e la forte attrazione tra di loro per tenere legato a sé il suo uomo, ma cede infine a un'esperienza extramatrimoniale.

Il tutto raccontato con ironia e leggerezza, grazie soprattutto alle interpretazioni dei due bambini.

Purtroppo del film - che pure ha un'ottima sceneggiatura firmata da Rulli, Petraglia, lo stesso Luchetti e Caterina Venturini - è inevitabile avere la sensazione di aver già visto molto in film precedenti, forse per una certa convenzionalità del racconto e della modalità narrativa.

Film gradevole dunque, ma che - a mio parere - non dice niente di particolarmente nuovo.

Voto: 3/5

lunedì 25 novembre 2013

Local natives (+ Cloud Control), Blackout Roma, 11 novembre 2013


È lunedì. E fa pure freddo. Il Blackout, recente ma importante acquisizione nel panorama musicale romano, sta in là sulla Casilina, non certo vicino a casa mia. Sono quasi tentata di saltare il concerto.

Ma alla fine mi armo di buona volontà ed eccomi sul mio scooter, con fotocamera al seguito, alla volta del Blackout. Comincia quasi a piovere e c’è già qualcuno in attesa fuori.

Ci fanno entrare e con mio sommo rammarico mi accorgo che la prima fila è già stata occupata, in particolare da un folto gruppo di ragazzine americane urlanti, che scoprirò dopo essere di Los Angeles come la band che suona oggi. Cerco dunque di incunearmi con la mia macchina fotografica, ma non è facile; solo a fine serata riuscirò a conquistare una posizione decente per fare le foto!

Intanto sul palco arrivano gli australiani Cloud Control, che avevo avuto modo di ascoltare un po’ all’uscita del loro ultimo disco. Sono buffi questi ragazzi australiani e anche abbastanza eterogenei: il cantante e chitarrista (Alister Wright) con la faccia tenera e i pantaloni attillati, il cantante e bassista (Jeremy Kelshaw) che solo dopo un po’ toglie un brutto cappellino da baseball, il batterista (Ulrich Lenffer) con una capigliatura che sembra il cugino It ma che subito dimostra doti notevoli, la tastierista elegantissima e molto sensuale (Heidi Lenffer). Suonano per una mezz’oretta e il pubblico apprezza parecchio il loro sound e le loro canzoni, provenienti in buona parte dal loro ultimo album.

Ma eccoci tutti pronti per i Local Natives… In realtà, ci vorrà un bel po’ perché la preparazione del palco è piuttosto lunga, ma quando arrivano si capisce subito che nessuno potrà rimanere veramente fermo. Il tasso di testosterone nell’aria aumenta significativamente e i Local Natives dimostrano di essere straordinari animali da palcoscenico in un crescendo, inframmezzato da qualche pezzo più lento e più romantico. Le ragazze americane cantano a squarciagola e quando non cantano lanciano urletti non proprio piacevoli per le orecchie.

Le atmosfere sul palco si fanno sempre più misteriose (sarà anche colpa dell’eccesso di ghiaccio secco) e surriscaldate. Con i brani più famosi, come Airplanes si raggiunge l’apice che sembra far esplodere il Blackout in un boato.

Dopo circa un’ora e mezza di buona musica i Local Natives si concedono per un bis e poi visibilmente soddisfatti (loro e anche il pubblico) si torna tutti a casa.

Tutto sommato ho fatto bene a vincere la mia pigrizia. Certo di solito amo la musica più malinconica e venata di tristezza, ma ogni tanto una bella botta di adrenalina ci sta bene (anche se poi mi ci è voluta un’intera settimana per riprendermi! Non c’ho più l’età!).

Voto: 3,5/5

giovedì 21 novembre 2013

Giovane e bella


Tralasciando il fatto che il trailer di questo film è una sua perfetta sintesi al punto tale da togliere buona parte della sorpresa della sua visione (cosa che già di per sé mi indispone non poco), devo dire che per una volta non tesserò le lodi di Ozon, che pure è un regista che amo particolarmente.

Il nuovo film del regista francese è infatti certamente un ottimo prodotto cinematografico, però personalmente non lo considero una tappa essenziale nel percorso di questo regista.

Giovane e bella racconta un anno della vita di Isabelle (la bellissima Marine Vacht), precisamente i suoi 17 anni, che iniziano l'estate della sua prima esperienza sessuale con un ragazzo tedesco poco più grande di lei conosciuto in vacanza. Da lì Isabelle deciderà di mettere la sua bellezza alla prova di uomini molto più grandi di lei, prostituendosi e chiedendo cifre sempre più alte, fino all'incidente di percorso che metterà lei e la sua famiglia di fronte a interrogativi non semplici.

Il personaggio di Isabelle è certamente affascinante ed enigmatico, e rende perfettamente la difficoltà di un'età confusa in cui non si è più bambini e dunque con quel fondo di ingenuità che caratterizza per esempio suo fratello, ma neanche adulti e dunque pienamente responsabili delle proprie azioni e consapevoli - nel bene e nel male - delle proprie scelte a volte anche discutibili, come sua madre e il suo patrigno.

Isabelle invece è smarrita e introversa e l'assenza del padre non sembra una motivazione sufficiente a farci comprendere il perché dei suoi comportamenti.

Lo sguardo del regista non è certamente giudicante, semmai è interrogativo come quello dello spettatore che di fronte a questa giovane donna così bella e così malinconica non può che prendere atto, senza essere in grado di capire in profondità.

I 17 anni sono certamente un'età difficile, e lo sono stati per ognuno di noi seppure in modi differenti. Probabilmente oggi lo sono ancora di più. Il rapporto con il proprio corpo, la dimensione delle relazioni, la dinamica familiare si amplificano a dismisura senza trovare una collocazione sensata e senza che si abbia la consapevolezza che presto o tardi tutto si comporrà.

Però non mi pare che questa volta Ozon riesca a dirci molto altro.

Voto: 2,5/5

lunedì 18 novembre 2013

La gabbia dorata (La jaula de oro)


Quello di Diego Quemada-Diez è un film sincero, come non è facile vederne al cinema.

A metà strada tra un documentario e un romanzo di formazione, racconta la storia di un gruppo di adolescenti che decide di lasciare la bidonville dove vive in Guatemala per inseguire il sogno di raggiungere l’America e una vita migliore.

Da un lato dunque c’è una storia di emigrazione con tutte le illusioni e le tragedie che si porta dietro: una terra lontana che nel desiderio assume tratti mitici e molto diversi da quelli della terra da cui si proviene, i meccanismi di sfruttamento che i flussi migratori generano ad ogni livello, la disumana guerra tra poveri, la solitudine, la paura, la disperazione, ma anche la speranza di chi decide di intraprendere questo viaggio, le insidie e il costante pericolo che una scelta di questo genere porta con sé.

Il confine tra il Messico e gli Stati Uniti diventa così il simbolo e la rappresentazione di tutte le frontiere che tutti i giorni i governi presidiano e gruppi di disperati tentano di superare a rischio delle loro stesse vite.

Dall’altro lato c’è la storia di tre ragazzi, Juan (Brandon López), Sara (Karen Martínez) e Samuel (Carlos Chajon) che - zaino in spalla - decidono di mettersi in viaggio, cui si aggiungerà Chauk (Rodolfo Dominguez), un indio del Chiapas. Al primo tentativo fallito, Samuel decide di restare a casa, mentre gli altri tre ripartono. Il gruppo sarà il luogo della gelosia, della competizione, del conflitto, ma anche dell’amicizia, della solidarietà e della crescita individuale, perché di fronte alle numerose, difficili situazioni che i tre dovranno affrontare e nella quotidiana lotta per la sopravvivenza a poco a poco si lasceranno alle spalle la loro adolescenza per guardare in faccia il mondo adulto.


Una piccola storia dentro una grande storia.

Quello di Quemada-Diez è un film in cui le parole contano poco eppure sono importantissime. Chauk non parla lo spagnolo: né i suoi compagni di viaggio, né gli spettatori potranno capire quello che dice. Eppure i suoi stati d’animo e i suoi sentimenti sono chiarissimi e le poche parole che Chauk potrà scambiare con Juan e Sara (apprendendole e insegnandole) costituiranno una specie di filo conduttore del racconto.

Non è giusto raccontare di più di questo film, perché il viaggio di Juan, Sara e Chauk è avvincente come un’avventura, ma anche imprevedibile e talvolta doloroso come la realtà.

Voto: 3,5/5


giovedì 14 novembre 2013

Her


Vedere un film di Spike Jonze è un'esperienza che non può lasciare indifferenti. E il suo ultimo lavoro presentato al Festival del film di Roma, Her, non smentisce questa affermazione.

Partiamo innanzitutto dalla confezione del film, perché Jonze ambienta la sua storia in una Los Angeles del futuro prossimo venturo, una realtà che riconosciamo in tutte le sue caratteristiche perché è in buona parte identica a quella nella quale viviamo, ma dove alcuni tratti hanno subito una significativa accelerazione tecnologica. Un mondo nel quale la comunicazione visuale è predominante, la tecnologia è pervasiva, l'interazione con le macchine è vocale e basata sul linguaggio naturale. Un mondo nel quale gli appartamenti sono bellissimi, con grandi vetrate a dominare queste enormi città di vetro e cemento che sono un monumento all'opera dell'uomo, ma dove gli edifici sono anonimi come degli alberghi. Un mondo dove le persone vivono perennemente connesse e interagiscono in maniera fluida con le tecnologie, ma vestono in maniera "vintage" e si circondano di pezzi di arredamento che li rimandano a un passato pre-tecnologico. Un mondo popolato di un'umanità sempre più affastellata (la scena sulla spiaggia è straordinaria), ma nel quale i singoli sono sempre più soli e isolati dal contesto, causa e conseguenza dell'essere sempre impegnati in conversazioni virtuali.

Una specie di futuro distopico, ma non del tutto improbabile.

Theodore Twombly (un maestoso Joaquin Phoenix) è un moderno Cyrano, uno che per lavoro scrive lettere (a dire la verità le detta a un computer che le traduce nella scrittura della persona che l'ha richiesta) per conto di chi non ha le parole per esprimere i propri sentimenti.

Theodore è un uomo dotato di una spiccata sensibilità, che soffre della separazione in corso con la moglie amatissima, Catherine (Rooney Mara), e cerca - come tutti - la propria personale via d'uscita alla solitudine, trovandola in Samantha (la sensualissima voce di Scarlett Johansson), il sistema operativo basato sull'intelligenza artificiale che apprende dalla relazione con l'essere umano diventando a sua volta sempre più "umana".

Ed eccoci al cuore del film. Le parole e i sentimenti. La solitudine e le relazioni. Il mistero inesauribile ed inestricabile della nostra dimensione affettiva.

Se - come dice Theodore - innamorarsi è una forma di follia socialmente accettabile, resta da chiedersi perché ci innamoriamo e di cosa ci innamoriamo per arrivare a capire chi siamo. E Theodore di fronte a una personalità senza fisicità com'è quella di Samantha è costretto a mettersi a nudo.

Esiste una separazione tra le parole che veicolano i sentimenti e la fisicità nella quale si incarnano? E le parole sono in grado di tradurre qualunque moto interiore?

Oppure di un legame vero con una persona restano principalmente le sensazioni fisiche, la condivisione di esperienze, il contatto, ovvero tutto ciò che l'interiorità di Theodore continuamente porta a galla del rapporto con la sua ex moglie?

E anche ammettendo che la fisicità sia un dato complementare, ma non indispensabile, le parole che accendono le nostre emozioni provengono realmente dall'esterno, o sono piuttosto la proiezione del nostro io composito, l'esplicitazione e l'esternalizzazione della nostra conversazione interiore, quella attraverso la quale cresciamo come persone e ci evolviamo nel tempo?

Non sarà forse che da sempre e per sempre siamo e saremo impegnati a cercare una persona al di fuori di noi che dia linfa a questo dialogo e che ci crei l'illusione di poter entrare in una connessione profonda con qualcuno che non siamo noi stessi?

Non sarà forse che innamorarsi significa riconoscere in un'altra persona una parte di sé ancora non esplicita e percorrere un pezzo di strada insieme? E che la fine di un amore coincida con la naturale evoluzione del proprio sé attraverso le esperienze che abbiamo vissuto e che inevitabilmente ci hanno cambiato?

Queste domande, in buona parte senza risposta, attraversano tutto il film di Jonze, declinandosi in tutta la gamma possibile di sfumature che va dall'esilarante al malinconico.

Riferendosi alla storia con Catherine e alle proprie prospettive emotive, Theodore dice: "Mi sembra di aver già vissuto tutto con la massima intensità. E che ogni emozione che proverò di qui in avanti sarà solo una copia sbiadita di ciò che ho già vissuto". Ma la storia che Jonze ci racconta sembra dimostrare che non è così. La coazione a ripetere quel processo che si chiama innamoramento nasce dalla novità del proprio sé all'interno del percorso che in ogni istante ci fa essere differenti dall'istante precedente.

Accettare che ogni persona che abbiamo amato è una parte di noi e del nostro cammino significa fare dolorosamente - e al contempo serenamente - pace con i propri sentimenti e con l'inafferrabilità della nostra complessità.

Sceneggiatura quasi senza sbavature. Merita persino una seconda visione.

Menzione speciale per la colonna sonora degli Arcade Fire.

Voto: 4/5

martedì 12 novembre 2013

Miss Violence


La prima parola che alla fine del film è salita alle labbra mie e di M. è stata “agghiacciante”, nel senso letterale del termine, per l’onda di gelo che cade addosso allo spettatore durante e al termine della visione del film. Dopo qualche ora, il commento nella mia testa si è trasformato in “inutilmente agghiacciante”.

Cioè, è vero che Alexandros Avranas fa propria la migliore lezione di Michael Haneke e riesce a portare sullo schermo una storia la cui brutalità è quasi tutta giocata sul piano psicologico e si fa esplicita non tanto nei gesti (c’è solo un picco di violenza visibile sullo schermo) quanto negli elementi di contorno: la totale assenza di colonna sonora (le uniche musiche presenti nel film sono quelle che arrivano dagli stereo e dalle televisioni e tra l’altro caratterizzano momenti la cui felicità è solo apparente), lo squallore delle ambientazioni (la casa dove vive la famiglia protagonista del film con le pareti spoglie, il mobilio vecchio, i puzzle attaccati alle pareti, nonché le strade di questa città greca quasi sempre vuote, sporche e assolutamente anonime), gli sguardi spesso vuoti o melliflui dei protagonisti (in particolare del padre di famiglia, il bravissimo Themis Panou), le atmosfere inquietanti anche nei gesti quotidiani (una porta che si chiude, una macchina che parcheggia, delle posate su un tavolo).

E tutto questo è realizzato con una maestria registica degna di nota. Lo spettatore che entrasse in sala senza sapere assolutamente nulla del film (cosa che consiglio vivamente, meno leggete e meglio è) sarebbe totalmente preso nel gioco crudelmente disvelatore di Avranas.

Però alla fine dei conti non trovo che ci sia una motivazione sufficiente per portare sullo schermo una cosa del genere, cioè non ne trovo un significato, un messaggio, se non la rappresentazione di una situazione limite in cui patologia e stato di subalternità psicologica sono estremi, ma non necessariamente irrealistici.

Non condivido l’opinione di quei critici che parlano del film come di una espressione della Grecia contemporanea e del suo degrado sociale, poiché non mi pare che si possa riconoscere nel film una precisa caratterizzazione sociale o culturale.

Se dobbiamo trovare un senso a questo tipo di film, forse è solo quello di esorcizzare una realtà che spesso supera le nostre stesse capacità di comprensione delle pieghe oscure della mente umana.

Voto: 3/5

domenica 10 novembre 2013

Il carattere italiano


Il film di Angelo Bozzolini è un entusiasmante viaggio alla scoperta dello spirito di un’orchestra, l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ma è anche un viaggio all’interno della musica, della sua magia e del suo mistero imperscrutabile che respira attraverso le persone che danno voce agli strumenti.

Un viaggio che riesce a colorarsi di mille sfumature come la musica che ne è l’anima pulsante: un viaggio a volte commovente, a volte potente ed energetico, a volte ironico e lieve.

Il regista riesce a mantenere un mirabile equilibrio tra il dietro le quinte, mostrandoci parte delle vite private dei musicisti, i loro hobby, le loro idiosincrasie, i loro sogni e i loro incubi, e il davanti le quinte, lì dove – nelle prove o negli spettacoli o in ogni occasione in cui il musicista si esprime attraverso il suo strumento – la quotidianità scompare, le parole vengono annullate e perdono completamente di significato di fronte al dialogo muto tra il direttore e la sua orchestra e alla metacomunicazione tra gli strumenti, innanzitutto tra il solista e l’orchestra, e ovviamente all’interno dell’orchestra.

Ne viene fuori la sensazione che la musica è certamente passione, sacrificio e determinazione, ma anche che il suo statuto più vero appartiene a un piano inesplicabile, spirituale, un piano che mette in relazione la nostra finitezza umana con quella scintilla di eterno che ci portiamo dentro, la nostra pochezza e imperfezione individuale con l’indicibile bellezza dell’universo. La musica distilla i nostri sentimenti, rendendoli più veri e più puri.

In questo senso, la ricerca infinita di una grande orchestra consiste nell'afferrare al suo interno e nel rapporto con chi ascolta quell’inesplorata sfumatura delle note che parla un linguaggio universale e al contempo personale.

Bellissimo. Strappa l'applauso.

E poi poter vedere questo film nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium alla presenza dei musicisti dell’orchestra è un privilegio speciale per cui ringraziare il Festival internazionale del film di Roma.

Voto: 4/5

sabato 9 novembre 2013

La voce umana. Il bell'indifferente / Adriana Asti


La mia stagione teatrale 2013-2014 è iniziata con questo spettacolo tratto da testi di Jean Cocteau e interpretato da Adriana Asti, in programmazione al Teatro Piccolo Eliseo dal 29 ottobre al 3 novembre 2013.

I testi portati sulla scena sono La voce umana e Il bell'indifferente. Si tratta sostanzialmente di due monologhi: nel primo c'è una donna al telefono con il suo ex amante, che ora sta con un'altra donna ma che lei ama ancora; il secondo è di fatto un monologo pur essendoci sul palco due figure, una donna innamorata e un giovane uomo totalmente assente e indifferente alla conversazione.

Adriana Asti è brava, forse un po' sopra le righe come si conviene a testi teatrali come questi, che - pur proponendo contenuti in parte senza tempo - appaiono invero per certi versi datati, in particolare per il ruolo e lo stile della figura femminile che ne emergono.

La scenografia è semplice: un letto, un tavolino con un telefono, una finestra, una porta, elementi che accomunano le due parti dello spettacolo pur essendo riorganizzati in modo speculare nel muto intervallo che li separa.

A me il Teatro Piccolo Eliseo piace molto, un ambiente raccolto, dove il palco sta così vicino che sembra di poterlo toccare, dove la platea sembra proiettarsi sulla scena ed esserne partecipe.

Proprio per questo però è difficile non avvertire - in questo caso - qualche contraddizione tra i sentimenti veicolati dal testo e un'attrice in scena in età avanzata (sebbene sia impossibile darle gli 80 anni che effettivamente ha), cosa che produce un effetto di straniamento non secondario nonché a volte qualche risibilità che va anche oltre le intenzioni dell'autore e l'interpretazione dell'attrice.

Voto: 2,5/5

mercoledì 6 novembre 2013

La prima neve


Avevo amato molto il primo film di Andrea Segre, Io sono Li, per la capacità di veicolare i sentimenti senza una particolare necessità di parole e per il modo sincero di raccontare la vita e le sue difficoltà.

Nel suo secondo film Segre torna a guardare all’interno di una piccola comunità, quella che abita la Valle dei Mocheni, a sud di Trento non lontano da Pergine. In questo piccolo mondo il regista fa incontrare Michele (il piccolo Matteo Marchel) e Dani (Jean-Christophe Folly).

Il primo vive da solo con la madre (un’Anita Caprioli sempre bella ma poco credibile con l’accento trentino) e aiuta il nonno in montagna.

L’altro è fuggito dal Togo ed è arrivato in Italia dopo essere scappato dalla Libia insieme alla sua giovane compagna su un barcone attraverso il Mediterraneo. Dani ha una figlia piccola e fa il lavorante presso il nonno di Michele in attesa di poter lasciare in Italia e trasferirsi a Parigi.

Al centro del racconto di Segre in questo caso non ci sono né il dramma degli immigrati, né i problemi di integrazione e di accettazione all’interno di una comunità chiusa. Oggetto di riflessione è invece la perdita di una persona amata, l’incapacità di elaborare un lutto, la difficoltà a trovare la forza di andare avanti e di amare chi è ancora vivo senza farlo sentire in colpa per questo. È in questa perdita che Michele e Dani si incontrano. Michele ha perso suo padre in montagna e da allora si porta dentro una carica eversiva che è il suo modo di superare il dolore e la paura. Dani ha perso la sua giovane compagna mentre dava alla luce la figlioletta, oggi sentita al contempo come costante memoria del dolore e peso di una responsabilità che non ci si vuole assumere.

Michele e Dani si annusano e si riconoscono, perché come dice il nonno di Michele “le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme”. Il loro è un vero e proprio rispecchiamento. Ciascuno vede negli occhi dell’altro il proprio dolore, quello a cui entrambi cercano risposte negli infiniti sentieri nei boschi.

Sarà la prima neve dell’anno (nonché la prima neve in assoluto nella vita di Dani) a chiamarli paradossalmente allo scoperto, a costringerli a fare i conti con il passato. Quando tutto è coperto dal manto bianco Michele e Dani possono finalmente guardare in faccia il proprio mondo interiore e dare un nome al proprio dolore per tornare a guardare avanti.

Quello di Segre è un film che parla di cose semplici e insieme universali, e lo fa con altrettanta semplicità, che è probabilmente la forza e nello stesso tempo la debolezza di questo suo secondo lavoro. Io sono Li era un film di una sincerità e di una verità disarmanti nel suo essere implicito come la vita, La prima neve non riesce invece a sfuggire del tutto alla trappola dell’essere didascalico, pur mantenendosi aderente al senso profondo dei sentimenti.

Resta un film che non lascia indifferenti, impreziosito dalle belle musiche originali composte dalla Piccola Bottega Baltazar.

Voto: 3/5

lunedì 4 novembre 2013

Plantman, Black Market, Unplugged in Monti, 17 ottobre 2013


Forse qualcuno si ricorderà che ero stata al Black Market qualche tempo fa per ascoltare il concerto di Maximilian Hecker in quella che poi era diventata una serata davvero esilarante insieme al mio amico M.

Visti i precedenti, dovevo aspettarmi che la mia seconda volta alla rassegna Unplugged in Monti non potesse essere molto diversa, sebbene ormai fossi preparata al tipo di ambiente.

Anche questa volta dovevo andarci da sola e avevo prenotato un unico posto per i Plantman, nell’idea che non fosse facile convincere qualcuno a seguirmi in questa cosa.

E invece si scopre che un’amica di recente acquisizione, V., non solo ama la musica ed è lei stessa musicista (chissà magari prima o poi scriverò un post dopo aver visto un suo concerto!), ma ascolta fondamentalmente il mio stesso tipo di musica, e così si “autoinvita” al concerto, cosa che mi fa molto piacere perché andare ai concerti è sempre bello, ma in compagnia è ancora più bello.

Ovviamente arriviamo là senza sapere se faranno entrare V., perché il concerto è sold out, ma come già era successo la volta precedente in realtà qualche posto c’è e V. può entrare tranquillamente. Birra e bicchiere di vino non possono mancare prima di prendere posto, ma forse ci affacciamo alla saletta troppo tardi, cosicché sono rimasti due posti proprio all’ingresso e due in “piccionaia”, una specie di soppalchino dove trova posto anche il fonico.

Scegliamo la piccionaia, da dove io spero di fare anche qualche foto. Peccato che mi renda subito conto che con le lampade nel mezzo non riuscirò a fotografare quasi nulla e il monopiede che mi porto dietro dalla mattina per l’occasione non servirà a niente. Comunque qualche foto viene fuori lo stesso, mentre i cinque ragazzi della band suonano la loro musica quasi sussurrata.

I Plantman (nelle foto il loro leader Matt Randall) li ho ascoltati parecchio su Spotify e ho comprato anche il loro album, per cui molte canzoni le conosco. Devo dire però che il concerto va avanti senza guizzi, né sobbalzi, su una sonorità un po’ troppo monocorde per poter essere davvero coinvolgente. Come già altre volte mi è capitato di osservare, la musica si divide in due: quella che preferisci ascoltare in cuffia nell’intimo della tua cameretta e che dal vivo rischia di risultare noiosa, e quella che non ti fa tanta voglia di ascoltarla finché la band non ti travolge con il suo carisma. Ovviamente oltre queste due categorie c’è la musica con la M maiuscola, i capolavori o i quasi capolavori.

In questo caso, il concerto risulta gradevole, ma non trascinante e, se non fosse stato per la vicinanza di un fonico che risulta comico nel suo essere completamente perso nei suoi pensieri e per i commenti divertiti di V., la serata avrebbe perso gran parte del suo fascino.

Alla fine, poiché stiamo in piccionaia, non riesco nemmeno ad appropriarmi di uno dei poster realizzati appositamente dalla designer Mynameisbri (aka Sabrina Gabrielli), che sono una delle cose più belle della rassegna Unplugged in Monti.

Usciamo e Roma ancora è pulsante di vita, e così un digestivo al Cavour 313 non ce lo toglie nessuno.

domenica 3 novembre 2013

La vita di Adele


Abdellatif Kechiche è un etnografo del cinema, ovvero - secondo la felice intuizione di S. - un entomologo delle dinamiche umane. Kechiche guarda infatti alle realtà umane con l’occhio di chi ha la necessità di osservarle dall’interno per farle proprie e per farle conoscere al mondo esterno (il che non vuol dire necessariamente comprenderle). Il modo in cui la sua telecamera si appropria delle realtà su cui si poggia è lo stesso con cui un documentario sugli insetti ci fa entrare in un mondo che è normalmente nascosto alla nostra vista e che proprio per questo quando ci viene mostrato così da vicino ci appare al contempo affascinante e mostruoso (nel senso latino di incredibile ma anche di spaventoso).

Chi conosce gli altri film di Kechiche sa che – seppure declinando questo approccio in modi diversi – l’ossessione con cui il regista osserva i suoi soggetti è sempre la stessa ed è il frutto di una tensione conoscitiva che deve sviscerare l’oggetto ed analizzarne ogni sfaccettatura per farne emergere la verità. In questo senso il regista cerca esattamente il contrario della sintesi.

Con La vita di Adele Kechiche - pur ispirandosi al graphic novel di Julie Maroh - si riallaccia ancora di più simbolicamente al suo secondo (e forse più bel) film, La schivata, ambientato in una scuola superiore della banlieu parigina dove una classe deve mettere in scena un’opera di Marivaux, Il gioco del caso e dell’amore, in un rimando continuo e dissonante tra vita vera e vita letteraria.

Anche qui la sottotrama letteraria è molto potente (cui si aggiunge anche qualche contrappunto cinematografico) e Marivaux è uno dei primi autori citati nella classe del liceo che Adele frequenta.

Anche in questo caso tutto comincia (e in fondo tutto finisce) in un contesto scolastico, quello dove Adele si confronta per la prima volta con la sua sessualità e i suoi desideri, e quello dove la stessa ha scelto di realizzarsi come persona adulta.

Anche stavolta Kechiche sta addosso ai suoi personaggi, soprattutto ad Adele, per percepire e far percepire l’odore della vita vera.

E Adèle Exarchopoulos è l’essenza stessa del suo personaggio, al contempo infantile e seducente, spaurita e disinibita, semplice e profondamente complessa.

Forse per tutti questi motivi, la storia di Adele (e di Emma) ha contemporaneamente l’intensità e l’angoscia della vita stessa quando è guardata con un occhio esterno ma fortemente ravvicinato. Forse per questo lo stomaco si stringe fin dal principio e non si distende nemmeno quando la vita regala momenti di felicità.

La ripetitività, l’insistenza, l’abbondanza di dettagli rappresentano per il regista le condizioni necessarie per dare spazio alla vita vera, per superare la finzione cinematografica. E la vita vera può essere anche disturbante, angosciante, oppure per altri versi ridicola o banale.

Ovviamente nel film c’è anche tutto il resto, da un lato quello di cui da settimane i giornali non smettono di parlare con toni tra lo scandalizzato e il pruriginoso. Dall’altro, una sottotrama più intellettuale e sociologica.

A me però tutto questo interessa di meno. Mi interessa invece il modo in cui Kechiche mi fa sentire di fronte ai mondi interiori che racconta. Totalmente catturata e insieme ferocemente estranea, al confine tra un dentro e un fuori, che lascia disorientati e per certi versi insoddisfatti.
Perché l'imprevedibilità del reale può sfuggire anche all’entomologo più attento.

Voto: 3,5/5