martedì 24 settembre 2013

The spirit of '45

Cos'altro dire? Ken Loach è davvero un combattente, animato da un'energia che gli dà sempre la forza di non rassegnarsi. All'età di 77 anni ha ancora voglia di lottare per un futuro migliore, per una società nella quale non sia il profitto a farla da padrone né il mercato a dettare le regole, bensì la gente che lavora.

E lo fa mediante un film documentario molto bello, che mescola interviste, immagini di repertorio, notizie di stampa, per ricostruire la Gran Bretagna del dopoguerra, quella che, uscita vittoriosa dalle macerie della guerra, voleva a tutti i costi evitare di ricadere nella diffusa povertà prebellica e superare la profonda disuguaglianza sociale. E lo fece prima dando fiducia ai laburisti che registrarono una vittoria schiacciante alle elezioni, poi assecondando la politica del nuovo governo che nel giro di meno di 10 anni costruì le basi di un welfare diffuso e solido, toccando quasi tutti gli ambiti della vita dei suoi cittadini (la salute con la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, i trasporti con la nazionalizzazione delle ferrovie, l'acqua, la luce, il gas con la nazionalizzazione della distribuzione, l'industria con interventi nei settori delle miniere di carbone e della produzione dell'acciaio, la casa con un vastissimo programma di case popolari).

Chi quegli anni li ha vissuti racconta di un tempo nel quale si percepiva uno spirito comunitario e una condivisione di finalità che rappresentarono il cuore del successo di questo modello e che poterono anche contare su politici dotati di un forte idealismo e profondamente convinti di portare avanti una politica socialista.

Il film di Loach ci racconta non solo come nacque la civile Inghilterra contemporanea, ma anche come tutto quello che fu costruito in quegli anni è stato più o meno gradualmente smantellato a partire dal governo della Thatcher in nome del profitto individuale e di una presunta efficienza del mercato, complice anche la crisi economica degli anni ’70.

Oggi, di fronte a una nuova crisi economica di portata mondiale, un ennesimo e forse definitivo attacco al welfare viene mosso in tutte le nazioni, compresa la Gran Bretagna. Ecco perché Ken Loach sembra suggerire, attraverso le parole degli intervistati, che è necessario un nuovo patto generazionale, che consenta ai giovani di oggi – che già dimostrano sensibilità a questi temi attraverso i vari movimenti Occupy che si stanno sviluppando a livello internazionale – di capire che oggi come allora è necessario credere in questi ideali, per evitare che quei bisogni che non producono profitto vengano trascurati definitivamente dal mercato.

Bisogna dunque recuperare lo spirito comunitario, di ricostruzione dal basso che caratterizzò la Gran Bretagna negli anni del secondo dopoguerra, per alzare baluardi contro l’avanzata inarrestabile del capitalismo e preservare i beni comuni.

La scelta del bianco e nero che accomuna le immagini di repertorio a quelle del presente sembra sancire anche visivamente questa continuità che Loach riconosce come essenziale per un dignitoso futuro. E le sequenze finali - che ripropongono la vittoria dei laburisti nelle elezioni del ’45 e le scene di gioia nelle strade - nel riacquistare improvvisamente colore ci trasmettono l’idea che esiste ancora una speranza.

Quello di Loach è uno di quei film che strappano l’applauso, anche se non si è a un festival. Di quelli che vorresti che tutti condividessero quello che hanno visto, che davvero ci fossero i margini per cambiare le tristi sorti dell’umanità.

Forse il problema sta proprio qui, nell’elevato grado di disillusione che caratterizza la contemporaneità e le giovani generazioni. Forse i giovani del ’45 erano per certi versi più ingenui e dunque anche più capaci di credere in ideali di cambiamento.

Oggi ci si sente schiacciati da una dinamica economica globale che va al di là non solo della volontà dei singoli, ma anche di quella dei governi. La lettura che Loach fa del dopoguerra del resto è essa stessa un po’ romantica. Gli storici contemporanei sostengono che in realtà in quegli anni si crearono le condizioni per un gioco win-win; ossia i governi avevano in qualche modo tutto l’interesse a costruire un sistema di welfare per la classe operaia, e non soltanto per consentirle condizioni di vita migliori, ma anche per traghettarla almeno in parte verso la classe media e per liberare risorse personali che ne facessero i clienti e acquirenti dei prodotti e dei servizi dell’industria manifatturiera, innescando così un circolo virtuoso di grande importanza per il sistema economico complessivo.

È dunque evidente che oggi di fronte a un’economia che non si alimenta attraverso il sistema manifatturiero e le altri componenti dell’economia reale, bensì attraverso le dinamiche volatili della finanza, e che travalica i confini nazionali rendendo i governi attori deboli, l’interesse a mantenere in piedi un sistema di welfare come quello degli anni ’50 e ’60 è molto basso, se non inesistente. E dunque le risorse investite nello stato sociale vengono considerate non più sostenibili, nella presunzione che il mercato è in grado di fornire gli stessi servizi meglio e a prezzi più bassi e che la classe media pur proletarizzandosi può accedere comunque ai beni e servizi grazie all’economia del low cost.

Ci hanno voluto convincere che il servizio pubblico è per sua natura il luogo degli sprechi e della bassa produttività per farci dimenticare che questo è il risultato del fatto che è stato ed è il luogo privilegiato degli scambi a fini elettorali e del ricatto istituzionale. Il pubblico potrebbe essere virtuoso quanto e direi più del privato in una valutazione di insieme, se solo non fosse pesantemente inquinato.

Dovremmo ricordare che l'umanità è la stessa ovunque e in qualunque contesto, e i suoi bassi istinti attendono solo l'occasione per potersi manifestare. Dall'altro lato, però, anche le sue idealità - come ci mostra Loach - possono trovare espressione se le condizioni lo favoriscono.

È chiaro, sono discorsi complessi e io non sono un’economista. Ma Loach fa benissimo a sollevarli e a ricordarci che esiste un’alternativa a quello che stiamo vivendo e che per questa alternativa vale ancora la pena lottare.

Grazie Ken.

Voto: 4/5


giovedì 19 settembre 2013

L'arbitro


In questi ultimissimi anni sembra che si stia assistendo a una specie di rinascita (o nascita?) del cinema sardo, grazie ad autori e registi che finalmente riescono a uscire da nicchie di produzione e di distribuzione per arrivare al grande cinema.

Uno di questi è certamente Paolo Zucca, che dopo un certo numero di cortometraggi approda al grande schermo con L'arbitro, che affonda le proprie radici proprio in uno dei suoi cortometraggi.

La struttura narrativa si articola su due vicende parallele. Da un lato quella di Cruciani (Stefano Accorsi), un arbitro internazionale integralmente votato al suo lavoro con l’ambizione di arrivare a dirigere la finale degli Europei. Dall’altro, quella di due squadre scalcinate del Nord Est della Sardegna, il Montecristu e l’Atletico Pabarile, impegnate in una competizione senza esclusione di colpi che coinvolge l’intera cittadinanza dei due paesini.

Mentre per Cruciani le cose non vanno esattamente come aveva sperato, le due squadre locali arrivano alla sfida finale, anche grazie al fatto che il Pabarile si rafforza per il ritorno a casa di un emigrato sardo in Argentina, Matzutzi (Jacopo Cullin). In questo percorso a ostacoli, le storie dell’arbitro Cruciani e quella delle due squadre sarde si incroceranno in un esito del tutto inaspettato.

L’intero film è girato in bianco e nero, scelta che – come è naturale – conferisce un sapore epico e al contempo malinconico alla storia. Il registro narrativo – che si avvale parzialmente dell’uso del dialetto sardo  – si muove tra uno stile quasi da fotoromanzo e uno da neorealismo, tra una dimensione epica e una prosaica, tra una linea drammatica e una comica. Il tutto declinato in modo tale da risultare costantemente sopra le righe, tanto da ricordare a tratti lo stile di Ciprì e Maresco.

Ne viene fuori un ritratto sostanzialmente impietoso non solo del calcio, ma dell’umanità tutta, rispetto alla quale il calcio rappresenta solo uno specchio amplificato. Ecco perché Paolo Zucca sceglie di aprire il suo film con una citazione di Albert Camus che recita: “Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio”.

Il tono per certi versi da operetta ridimensiona l’amarezza di fondo che questa vicenda ci trasmette, ma non nasconde nulla della meschinità e dell’immoralità umana, pur mitigata dallo sguardo affettuoso e comprensivo con cui il regista guarda ai suoi personaggi, che in fondo hanno una genuina aspirazione all’idealità.

Il film ne risulta complessivamente dotato di originalità e freschezza (grazie anche al contributo della spumeggiante Geppi Cucciari), pur non avendo particolari pretese. E di questo credo che il cinema italiano abbia profondamente bisogno.

Voto: 3,5/5

lunedì 16 settembre 2013

La religiosa


Complice una recensione un po' ambigua de L'internazionale, sono andata a vedere La religiosa, un film che si inserisce appieno nel filone di quelli che raccontano la vita all'interno dei conventi femminili con tutte le sue costrizioni di carattere psicologico e fisico.

In questo caso, lo spunto arriva addirittura da uno scritto settecentesco di Denis Diderot che racconta la storia di Suzanne (Pauline Etienne), una giovanissima che viene spinta dalla famiglia a prendere i voti. Suzanne è profondamente credente, ma nel cominciare il suo percorso di vita monastica si rende conto che questa strada non è quella a cui è chiamata, che non ha la vocazione.

Da quel momento comincia una specie di battaglia di affermazione di sé e delle proprie scelte che si scontrerà con le reazioni di vario tipo delle madri superiori che incontrerà: la prima molto materna e comprensiva che la spinge all'accettazione silenziosa del suo destino (pur essendo essa stessa in difficoltà con la propria vocazione), la seconda sadica e crudele che la sottoporrà a ogni tipo di punizione, la terza affettuosa in maniera morbosa fino a diventare soffocante.

Che dire? Innanzitutto, mi pare che il film non aggiunga molto a quanto già visto sullo schermo, se non la posizione della protagonista, la sua tenacia e la scelta di non rassegnarsi.

Per il resto, la sensazione più forte è di vedere una fiction televisiva. Ricostruzione pulita, attori bravi (c'è anche Isabelle Huppert nel ruolo della madre superiora morbosa), ma niente di più.

Sono uscita dal cinema con la sensazione di un'occasione sprecata.

La prossima volta leggerò con più attenzione le recensioni per cogliere tra le righe quanto non è immediatamente esplicito.

Voto: 2,5/5


mercoledì 11 settembre 2013

L’amica geniale / Elena Ferrante


L’amica geniale: Infanzia, adolescenza / Elena Ferrante. Roma: Edizioni e/o, 2011.

Avete presente quando vi tuffate dentro un romanzo e non riuscite più a mettere il naso fuori, nemmeno quando lo scintillio circostante avrebbe tutte le carte in regola per catturare la vostra attenzione? Ebbene, questo è quanto accade leggendo il primo romanzo della trilogia (in realtà ho scoperto solo dopo che i libri sono quattro!) che Elena Ferrante (scrittrice misteriosa, la cui vera identità non è ancora dato di conoscere, a parte per pochi fortunati) sta dedicando a due personaggi che resteranno senza ombra di dubbio indimenticabili: Elena Greco, detta Lena o Lenuccia, e Lina Cerullo, chiamata Lila solo dalla sua amica Elena.

Lo scenario di questa amicizia è Napoli, anzi più precisamente un rione povero di Napoli, dove nascono e vivono la loro infanzia e adolescenza sia Lena che Lila.

Tutto comincia dalla fine, ossia dalla telefonata di Rino, il figlio ormai adulto di Lila, ad Elena in cui le annuncia che sua madre è introvabile e le chiede di aiutarlo nella ricerca. Da qui il flusso dei ricordi e il racconto di Elena che inizia dai primissimi anni di vita delle due amiche e dalla costruzione dei loro rapporti con il rione, sia con il mondo dei loro coetanei (i vari Pasquale, Enzo, Alfonso, Michele, Stefano, Marisa, Nino ecc.), sia con quello degli adulti, tra cui spiccano figure memorabili come quella di don Achille.

Lila si delinea fin da subito come il vero deus ex machina della vita del rione, quella che - con la sua genialità e i suoi comportamenti capricciosi e imprevedibili - è capace di innescare processi, di attivare meccanismi, di determinare i comportamenti degli altri, innanzitutto di Elena che a Lila è legata da un rapporto profondo e controverso, una specie di amore-odio, in cui almeno apparentemente Elena è sempre costretta a inseguire e in qualche modo a subire i capricci e a volte i comportamenti scorretti dell’amica.

Man mano però che si procede nella lettura diventa sempre più chiaro che le cose non sono così semplici e che il rapporto tra le due amiche è molto più articolato, una specie di ying e yang nel quale nessuna delle due si può dire veramente compiuta senza l’altra, in quanto ciascuna si rispecchia nell’altra e nell’altra trova il senso di sé.

Il racconto in prima persona di Elena fa sì che non esista uno sguardo esterno a questa amicizia, non si possa far conto su una distanza minima che consenta di guardare agli eventi in maniera oggettiva. Il lettore deve rassegnarsi – e lo fa presto con grande disponibilità – a entrare nel cuore e nella mente di Elena e a seguirne le evoluzioni, i salti mortali, i tuffi e il graduale processo di comprensione di se stessa proprio attraverso la lettura del mondo circostante, in primis di Lila.

Parallelo al rapporto tra Elena e Lila è quello che lega le due amiche alla vita del rione. Anche in questo caso, tale rapporto non è dato una volta per tutte, né collocato in uno spazio facilmente identificabile. Fin da piccole, sia Elena che Lila guardano al mondo fuori dal rione come all’occasione della loro libertà e del loro affrancamento dalla miseria e dalla grettezza. È presto evidente per entrambe però che non basta allontanarsi fisicamente dal quartiere per essere libere, così come non basta allontanarsi dalle persone cui ci unisce un sentimento per dimenticarsene. Il rione con tutte le sue dinamiche è dentro qualunque scelta di vita, perché è parte della sostanza di cui sono fatte le due ragazze.

Questo primo romanzo non ha alcuna vera conclusione; è solo la prima tappa nella vicenda di queste due giovani donne e si conclude con il matrimonio di Lila con Stefano, il figlio di don Achille.

Arrivati all’ultima riga l’unico desiderio è quello di non staccarsi da Elena e Lila, di continuare a stare immersi nella loro storia, nei pensieri di Elena, nei suoi tentativi di comprendere le azioni e i pensieri dell’amica. Si ha netta la percezione che il futuro è destinato ad allontanare le due donne, ma che i loro destini continueranno ad essere profondamente intrecciati.

La scrittura di Elena Ferrante è pulita e perfettamente aderente al mondo e al momento storico che racconta (la storia comincia alla fine degli anni Quaranta), ma ha anche qualcosa di profondamente moderno, di intensamente visivo, di genuinamente sentimentale che ci dà mille indizi sugli esiti di questa amicizia, trasmettendoci un'idea di quello che Elena diventerà, quando ancora non lo sappiamo.

Voto: 4/5

sabato 7 settembre 2013

Royal affair


A me i filmoni in costume piacciono moltissimo. E mi piacciono ancora di più se si sommano ad amori ed intrighi di corte. Dunque, quando mi hanno proposto di andare a vedere Royal affair, già solo per questo ho accettato di buon grado.

In realtà, però, Royal Affair è molto di più di un intrigo amoroso a corte ed è molto diverso dai film cui siamo abituati. Innanzitutto è ambientato in Danimarca e ci racconta una fase molto importante della storia danese, della quale sappiamo poco, per non dire niente.

Siamo nella seconda metà del '700 e Christian VII (Mikkel Følsgaard) a 17 anni è già re e gli viene data in sposa la principessa inglese Carolina Mathilde (Alicia Vikander). Christian è tormentato e psicologicamente disturbato, cosicché - dopo la nascita del primo figlio Friedrich - il loro rapporto è già in crisi. Intanto, la situazione in Danimarca è drammatica per le condizioni sanitarie e igieniche della popolazione, nonché per la povertà diffusa e le politiche che prevedono censura e torture.

Tutto sembra cambiare quando arriva a corte il medico tedesco Johann Friedrich Struensee (Mads Mikkelsen, l'eccellente interprete de Il sospetto) che è un seguace dell'Illuminismo e - una volta conquistata la fiducia del re - riesce a far passare, attraverso il Consiglio di Stato, una serie di riforme che renderanno la Danimarca in poco tempo uno dei paesi più all'avanguardia d'Europa.

Quando Struensee e Carolina si innamorano (e quest'ultima resta incinta), la corte - scontenta dei cambiamenti introdotti - approfitta della debolezza di Christian per attuare un colpo di stato ed estromettere Struensee che viene mandato a morte. I semi gettati dal medico col sostegno di Carolina e in buona parte anche di Christian saranno raccolti dai figli, in particolare da Friedrich che governerà per cinquant'anni la Danimarca ripristinando molte delle riforme attuate in precedenza e andando anche oltre, e dunque porrà le basi della moderna Danimarca, uno dei paesi più avanzati per le politiche sociali e dei diritti.

Insomma, gli intrighi non mancano, i balli a corte nemmeno, le grandi passioni neanche, ma c'è anche dell'altro che consente a questo film di non essere rapidamente archiviato come l'ennesimo film di genere.

Voto: 3,5/5

mercoledì 4 settembre 2013

Drift - Cavalca l'onda


In una calda serata agostana, dopo aver mangiato panzerotti e frittelle alla relativa sagra, io e C. decidiamo che siamo nel mood giusto per un film senza pretese. E così, sfrecciando per le strade di campagna che collegano Conversano a Casamassima, arriviamo appena in tempo per l’ultimo spettacolo di Drift – Cavalca l’onda, che abbiamo preferito a Wolverine perché più in linea con il clima estivo.

Che dire? Il film veniva annunciato come il Point Break del nuovo millennio, nato dalla passione dei due registi (Benn Nott e Morgan O'Neall) per il surf che in Australia non è solo un passatempo, ma l’espressione di una scelta di vita.

I protagonisti sono due fratelli, Andy (Myles Pollard) e Jimmy (Xavier Samuel), che dopo essersi trasferiti da piccoli in un paesino della costa australiana con la mamma in seguito alla separazione dal marito, qui hanno la possibilità di dedicarsi alla loro passione per il surf. Il più grande è più posato e interessato a garantire alla famiglia il denaro necessario a sopravvivere degnamente, il piccolo è più scapestrato ma anche assolutamente geniale sulla tavola da surf. I due si inventeranno una linea di abbigliamento per il surf (grazie anche alle competenze sartoriali della madre) e produrranno tavole di nuova generazione, oltre a sperimentare grazie a un amico hippie (Sam Worthington) una nuova modalità di fare marketing dei prodotti, basata su foto scattate ai surfisti in azione.

Nella sceneggiatura c’è di tutto: l’amore, la droga, l’amicizia, la rivalità. E sinceramente la tenuta dell’insieme lascia molto a desiderare. Sceneggiatori e registi sembrano poco convinti di quale sia l’aspetto su cui puntare di più e per raccogliere più pubblico mettono troppa carne al fuoco. Alla fine del film la sensazione di aver assistito a una boiata è forte.

Però le scene dei surfisti che cavalcano le onde e le immagini dell’oceano e delle sue onde gigantesche sono assolutamente eccezionali. Grazie alla tecnica registica utilizzata, si entra nell’onda insieme al surfista e a tratti si ha la sua visione in soggettiva. Insomma, un videogiochi più che un film.

Dunque se volete divertirvi un po’ a surfare virtualmente andate al cinema, ma non vi aspettate molto altro.

Voto: 2,5/5