All'ultimo fotogramma della pellicola, quando partono i titoli di coda, accade che nessuno degli spettatori della saletta del Cinema dei Piccoli si alza né comincia a chiacchierare col vicino di poltrona. Quando anche i titoli di coda sono terminati e le luci si accendono, sono ancora tutti al loro posto e il silenzio diventa assordante. Molti hanno gli occhi lucidi, compresa me, e appena fuori dalla sala è impossibile trattenere il pianto e non lasciarsi andare a un momento di decompressione emotiva.
Penso che il documentario candidato all'Oscar della giovane regista siriana, Waad al-Kateab, sia una delle testimonianze più potenti fin qui prodotte sulla guerra civile siriana iniziata durante le primavere arabe del 2011-2012.
Waad a quel tempo era una giovane studentessa dell'Università che si era unita alle proteste degli altri studenti contro il regime di Bashar el-Assad e aveva iniziato a filmare le manifestazioni e le altre attività dei gruppi ribelli. Dopo il ritrovamento di decine di giovani torturati e uccisi nel fiume, Waad decide di unirsi stabilmente alla resistenza, accanto all'amico Hamza, giovane medico siriano, che ben presto decide di mettere in piedi un ospedale ad Aleppo. Il rapporto tra Waad e Hamza si trasforma ben presto in amore e da questo amore nasce Sama (una parola che significa "cielo" in siriano).
Il documentario di Waad nasce infatti come una specie di videolettera che questa madre realizza per sua figlia ancora piccola affinché da adulta possa capire che cosa ha spinto i suoi genitori a rimanere ad Aleppo e addirittura a tornarci durante l'assedio, nonostante avessero la possibilità di rimanere in Turchia.
Hamza non solo è un infaticabile medico che coordina le attività dell'ospedale che ha messo in piedi ad Aleppo, ma è anche un punto di riferimento per la resistenza siriana e per i media e gli altri interlocutori. Man mano che il tempo passa, Waad vive l'attività di documentazione filmata della situazione come una vera e propria missione e diventa una delle videogiornaliste più accreditate durante la guerra civile siriana e soprattutto durante l'assedio di Aleppo. Divisa tra il garantire la sicurezza di sua figlia Sama e l'essere presente con la sua telecamera in ogni situazione per farci vivere dall'interno la vita che queste famiglie rimaste ad Aleppo hanno dovuto vivere, tra bombardamenti continui e continue uccisioni di adulti e bambini.
La regista, sebbene non ci risparmi la visione del sangue, della morte, del dolore, della distruzione e della disperazione, attraverso la sua telecamera riesce incredibilmente a non risultare morbosa, senza togliere nulla alla drammaticità della situazione, e facendo filtrare di quando in quando quei piccoli miracoli che la vita ogni tanto riserva anche nelle situazioni più tragiche.
Per chi guarda resta difficile capire le scelte dei protagonisti di questo film, così come qualche disorientamento lo provoca la testardaggine con cui Waad considera l'imperativo di filmare prioritario rispetto ai propri stessi sentimenti, ma alla fine è proprio questa testardaggine che ci consegna un documento eccezionale, capace di raccontarci in presa diretta cosa significa vivere sotto le bombe e sapere che la propria vita e quella delle persone a cui si vuole bene potrebbe finire da un momento all'altro. Il dolore e la frustrazione che si vive sulla propria pelle al termine della visione è il risultato di quello che abbiamo visto, ma anche del senso di impotenza e della constatazione che tutto questo è avvenuto (e avviene) senza che nessuno sia intervenuto (e intervenga).
Voto: 4,5/5
martedì 3 marzo 2020
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