Innanzitutto, assicuratevi di avere circa tre ore di tempo a disposizione, prima di decidere di andare a vedere l’ultimo film di Iñárritu. Secondo, se volete vedere The revenant vi consiglio di andare a vederlo al cinema, perché su uno schermo più piccolo e senza il sistema di dolby sorround vi assicuro che perderete una buona parte del piacere di questo film, che è un piacere innanzitutto estetico e sensoriale.
The revenant è – per dirla in maniera modaiola – la versione 2.0 dei film western che vedevamo quando eravamo piccoli, anzi per essere più precisi di quei film western che sono venuti un pochino dopo, in cui non era più del tutto scontato che i buoni stavano tutti dalla parte dei bianchi e i cattivi dalla parte degli indiani.
Nel film di Inárritu gli elementi delle pellicole western classiche ci sono tutti, ma sono in qualche modo rimescolati e amplificati. I bianchi che scorazzano per le infinite lande statunitensi sono inglesi, ma anche francesi, accomunati dall’obiettivo di fare razzie di merci e terre, nonché di donne e schiavi, e dunque in competizione tra di loro. Gli indiani che difendono le loro terre sono in realtà numerose tribu tra loro in conflitto, ma a loro volta tutti minacciati dai bianchi e dunque costretti a difendersi, ad attaccare e in certi casi a fare affari con i loro predatori. Cosicché, alla fine dei conti, non si sa dove stanno i buoni e i cattivi, o meglio i buoni e i cattivi stanno in tutte le comunità umane, perché resta anche il fatto che “siamo tutti selvaggi”, come recita il cartello appeso al collo dell’indiano impiccato dai francesi.
E fin qui non moltissimo di nuovo, se non fosse che il regista messicano ci trasforma da spettatori in protagonisti, perché con il suo girato iperrealistico ci porta in mezzo a queste terre e a questi uomini, e ce ne fa sentire e vedere la sporcizia, la grevità, il sudore, le condizioni di vita estreme e quasi animalesche in questi paesaggi ai confini del mondo. E lo fa in particolare attraverso due personaggi: quello di Glass (Leonardo Di Caprio) e quello di Fitzgerald (Tom Hardy). Glass è un bianco che però ha un figlio indiano, perché ha vissuto per un periodo con una tribu indiana e ha visto sua moglie trucidata dai bianchi e suo figlio quasi bruciato vivo. Ora lavora per gli inglesi e ne è la guida essendo colui che meglio conosce queste terre. Fino a quando viene attaccato da un orso e rimane quasi ucciso. La sua truppa decide di trasportarlo con sé verso il forte, ma impossibilitata a un certo punto ad andare avanti con a seguito la barella dell’uomo, lo lascia indietro custodito da Fitzgerald, insieme a un giovane soldato e al figlio di Glass. Fitzgerald però – interessato primariamente alla sua sopravvivenza e ai suoi soldi – tradisce Glass, uccidendogli il figlio, e torna verso il forte con il giovane soldato, convinto che Glass sia destinato a morire. Inizia così l’epopea che non solo riporterà Glass – tra mille avventure e difficoltà – al forte ma gli farà inseguire Fitzgerald alla ricerca della vendetta.
Dopo due ore e mezzo di paesaggi straordinari, di tempeste di neve, di cieli strepitosi, di notti stellate, nonché un vero e proprio corso accelerato di sopravvivenza in condizioni estreme (sopravvivere al freddo, accendere un fuoco, non morire di fame, difendersi dai predatori ecc.), si arriva alla fine del film sfiancati come il povero Di Caprio, all’ennesima interpretazione epica ed estrema della sua carriera.
Non posso dire che il film non mi sia piaciuto, ma a parte l’effetto straniante che mi hanno prodotto alcuni passaggi secondo me decisamente poco verosimili della vicenda di Glass, personalmente non ci ho trovato grandi significati, messaggi originali ovvero occasioni di riflessione. E la mia cultura cinematografica è troppo povera per riconoscere i riferimenti a Tarkovskij e quelli a Herzog. Per quanto mi riguarda, se in questo film c’è un messaggio, che non sia il piacere registico di una full immersion nell’atmosfera delle guerre di tutti contro tutti per l’accaparramento delle terre americane e nella sempiterna lotta dell’uomo per la sopravvivenza, mi è comunque sembrato un pochino debole e comunque non sufficiente a coinvolgermi sul piano intellettuale. E ciò per me in un film resta un grosso limite. Sarà per questo che tanto – nella sua stranezza - mi aveva intrigato Birdman, quanto mi è invece scivolata un po’ addosso la grandeur di The revenant.
Voto: 3/5
martedì 9 febbraio 2016
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