Direbbe Marzullo: "La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?"
Per quanto paradossale, non c'è dubbio che nel suo ultimo film, Inception, Christopher Nolan si ponga la stessa domanda e interroghi in proposito i suoi spettatori.
Il protagonista, Cobb (Leonardo Di Caprio), è un esperto nell'accedere e navigare la mente e i sogni altrui per rubare idee e preziose informazioni. Ma questa volta Satio (Ken Watanabe) gli chiede un'impresa apparentemente impossibile: entrare nella mente di Fischer (Cillian Murphy) per impiantare un'idea (appunto, inception) che al risveglio egli sentirà come sua. Per questa pericolosa operazione, Cobb sarà accompagnato da una squadra eccezionale, Arthur (Joseph Gordon-Levitt), colui che ha il compito di determinare lo choc necessario al risveglio, Ariadne (Ellen Page), l'architetto dei sogni, Eames (Tom Hardy), capace di assumere nei sogni altre identità, Yusef (Dileep Rao), il farmacista che somministrerà il potente sedativo necessario ad attraversare i confini di tre livelli dell'inconscio nel sogno di Fischer.
E qui mi fermo. Non sarebbe giusto, né comprensibile rivelarvi altro.
Immaginatevi Il cavaliere oscuro mescolato con la visionarietà onirica di Memento. Questo è Inception. Nolan non risparmia certo sui mezzi: effetti speciali a go-go, ambientazioni realizzate in ogni parte del pianeta, costruzione di ambienti virtuali assolutamente raffinati... Ma fin qui probabilmente sarebbe un blockbuster come tutti gli altri. Nolan, però, ha un interesse del tutto originale per la mente umana e un gusto speciale nel sorprendere i suoi spettatori.
Qui ci fa addentrare nei meandri della mente di Fischer e di coloro che condividono il suo sogno, soprattutto Cobb, il cui subconscio si porta dentro verità e sensi di colpa complessi, la cui protagonista è sua moglie Mal (Marion Cotillard).
Il film è tutto paradossi spazio-temporali, labirinti della mente senza uscita, metafore e costruzioni mentali originali. Alla fine qualche dubbio ci rimane su alcuni passaggi della sceneggiatura e non tutto è chiaro fino in fondo (o almeno così pare!). Ma, del resto, come potrebbe esserlo quando ci addentriamo nella complessità della mente umana, capace di raggirare se stessa, di fare capriole e tripli salti mortali del tutto incontrollabili? La nostra mente è quello che abbiamo per decodificare la realtà. Cartesio diceva "Penso, dunque sono". Ma poiché la realtà in cui viviamo la percepiamo attraverso la nostra mente come possiamo essere sicuri che non sia tutto una sua proiezione? E il sogno non è forse l'unica situazione nella quale sperimentiamo la stratificazione dei livelli di coscienza, dove la nostra realtà viene costantemente smontata e ricostruita? È per questo che da sempre i sogni suscitano l'interesse dell'umanità, perché in qualche modo ci sembra che essi rappresentino una porta verso una dimensione che la nostra mente da svegli ci preclude.
È di qualche giorno fa la notizia che gli scienziati americani siano in grado di applicare delle terapie per aiutare coloro che sono perseguitati da incubi, guidando i contenuti dei loro sogni.
Ma non solo la scienza, anche la letteratura è da sempre affascinata dalla dimensione onirica dell'uomo e dal suo rapporto con i sogni. Si veda tra tutti Doppio sogno di Arthur Schnitzler.
Nolan aggiunge un altro tassello, intrigante, a queste riflessioni.
Il film uscirà in Italia a settembre e vi consiglio di andarlo a vedere, perché i film di Nolan rappresentano sempre un'esperienza cinematografica da non perdere.
Non posso dire che sia il suo film migliore. Personalmente lo preferisco quando ha meno mezzi a disposizione (vedi Memento, ma in parte anche The prestige), e dunque deve affidarsi alla sola sceneggiatura per trascinare lo spettatore in un gioco, una sfida mentale capace di lasciarci a bocca aperta. Speriamo che Nolan non si perda nell'inseguire sogni tecnologici.
Altri registi su cui personalmente avevo puntato in passato, considerandoli voci realmente originali e speranze per il futuro cinematografico, come M. Night Shyamalan, François Ozon e Baz Luhrmann ultimamente mi hanno deluso un po' proprio perché hanno scelto la grandeur simil-hollywodiana, dimenticando la loro qualità migliore: la capacità di raccontare storie in maniera originale.
In ogni caso, poiché non penso ci siano molte menti pensanti di questa qualità nell'attuale panorama cinematografico, resto fiduciosa.
Voto: 4/5
P.S. Intanto devo aver fatto qualche progresso nel mio rapporto con le lingue e i doppi sottotitoli al cinema, visto che non ho avuto problemi a seguire questo film nonostante la complessità della storia... :-)
venerdì 30 luglio 2010
giovedì 29 luglio 2010
Riti di morte / Alicia Giménez-Bartlett
Riti di morte / Alicia Giménez-Bartlett; trad. di Maria Nicola. Palermo, Sellerio, 2002.
Lo dichiaro immediatamente, così chi non è d'accordo magari si evita di leggere l'intero post. Il libro non mi è molto piaciuto. Ma non tanto e non soltanto per il giallo, che pure ho trovato un po' forzato e scontato, bensì soprattutto per i due protagonisti.
L'ispettrice Petra Delicado, prima destinata a una triste mansione negli archivi (!) della polizia, poi catapultata in un caso di stupri seriali, e il viceispettore Firmin Garzón, non più giovane, mai stato atletico, poliziotto normalmente impegnato a dipanare reti di contrabbandieri, questa volta affiancato a Petra nella risoluzione di questo caso quasi disperato.
Non so. Che dire? Semplicemente non mi sono simpatici. Non mi comunicano molto, le loro vite e i loro pensieri non mi risultano particolarmente interessanti. Il fatto è che non risultano né sufficientemente e realisticamente spontanei per produrre empatia, né sufficientemente romanzati da appassionare.
Personaggi secondo me complessivamente un po' grigi, che solo a tratti riescono realmente a risvegliare il mio interesse. Ogni tanto Petra (qualcuno ci ha pure fatto una tesi a riguardo) mi risulta simpatica, quasi familiare, soprattutto quando tira fuori dal cilindro riflessioni come queste:
«[...] lei ha detto che nella sua vita tutto funziona bene e, all'improvviso, salta fuori un cambiamento inaspettato che distrugge tutto. Per me è esattamente il contrario, la mia vita non funziona mai bene. E appena arrivo a un punto statico in cui le cose si ripetono, mi viene voglia di cambiarla. Ma non in modo consapevole e meditato: con un gran rivolgimento emozionale. E allora cambio lavoro, cambio marito, cambio casa... non so, è come una permanente irrequietezza, sento il bisogno di dare un calcio al castello di carte che mi sono costruita.» (p. 145)
«[...] rimettersi in discussione è molto più nocivo del fumo, dei grassi animali e del caffè. È di questo che muore la gente in realtà: del colpo ricevuto nel domandarsi un bel giorno se le convinzioni di tutta una vita valessero la pena o no.» (p. 142-143)
«Ero giunta alla conclusione che sbagliare è l'unica cosa che l'essere umano può fare con una certa libertà.» (p. 385)
Ma, alla fine, non riesco ad apprezzare realmente la dinamica della relazione tra Petra e Firmin. In più non sento quasi per niente l'ambientazione catalana. Non riesco a sorridere a sufficienza dell'ironia che pure pervade il romanzo.
Che ne so? Sarò diventata arida tutt'a un tratto... Oppure con i libri è come con le persone. Ci si prende oppure no, per via di quelle inspiegabili reazioni chimiche che non hanno a che vedere con i pregi e i difetti reali di chi ci sta di fronte, ma semplicemente con la fase di vita che viviamo, con quello che stiamo cercando, con la nostra personale capacità di amalgamarci opportunamente con l'altro.
Con Alicia Gimenez-Bartlett niente colpo di fulmine. Succede.
Voto: 2,5/5
Lo dichiaro immediatamente, così chi non è d'accordo magari si evita di leggere l'intero post. Il libro non mi è molto piaciuto. Ma non tanto e non soltanto per il giallo, che pure ho trovato un po' forzato e scontato, bensì soprattutto per i due protagonisti.
L'ispettrice Petra Delicado, prima destinata a una triste mansione negli archivi (!) della polizia, poi catapultata in un caso di stupri seriali, e il viceispettore Firmin Garzón, non più giovane, mai stato atletico, poliziotto normalmente impegnato a dipanare reti di contrabbandieri, questa volta affiancato a Petra nella risoluzione di questo caso quasi disperato.
Non so. Che dire? Semplicemente non mi sono simpatici. Non mi comunicano molto, le loro vite e i loro pensieri non mi risultano particolarmente interessanti. Il fatto è che non risultano né sufficientemente e realisticamente spontanei per produrre empatia, né sufficientemente romanzati da appassionare.
Personaggi secondo me complessivamente un po' grigi, che solo a tratti riescono realmente a risvegliare il mio interesse. Ogni tanto Petra (qualcuno ci ha pure fatto una tesi a riguardo) mi risulta simpatica, quasi familiare, soprattutto quando tira fuori dal cilindro riflessioni come queste:
«[...] lei ha detto che nella sua vita tutto funziona bene e, all'improvviso, salta fuori un cambiamento inaspettato che distrugge tutto. Per me è esattamente il contrario, la mia vita non funziona mai bene. E appena arrivo a un punto statico in cui le cose si ripetono, mi viene voglia di cambiarla. Ma non in modo consapevole e meditato: con un gran rivolgimento emozionale. E allora cambio lavoro, cambio marito, cambio casa... non so, è come una permanente irrequietezza, sento il bisogno di dare un calcio al castello di carte che mi sono costruita.» (p. 145)
«[...] rimettersi in discussione è molto più nocivo del fumo, dei grassi animali e del caffè. È di questo che muore la gente in realtà: del colpo ricevuto nel domandarsi un bel giorno se le convinzioni di tutta una vita valessero la pena o no.» (p. 142-143)
«Ero giunta alla conclusione che sbagliare è l'unica cosa che l'essere umano può fare con una certa libertà.» (p. 385)
Ma, alla fine, non riesco ad apprezzare realmente la dinamica della relazione tra Petra e Firmin. In più non sento quasi per niente l'ambientazione catalana. Non riesco a sorridere a sufficienza dell'ironia che pure pervade il romanzo.
Che ne so? Sarò diventata arida tutt'a un tratto... Oppure con i libri è come con le persone. Ci si prende oppure no, per via di quelle inspiegabili reazioni chimiche che non hanno a che vedere con i pregi e i difetti reali di chi ci sta di fronte, ma semplicemente con la fase di vita che viviamo, con quello che stiamo cercando, con la nostra personale capacità di amalgamarci opportunamente con l'altro.
Con Alicia Gimenez-Bartlett niente colpo di fulmine. Succede.
Voto: 2,5/5
martedì 27 luglio 2010
FUORI TEMA: Il rit(m)o della salsa
Stasera non è proprio serata di puzzle (ma di questo vi parlerò più avanti!). Sarà perché sono un po' e tutto sommato inspiegabilmente su di giri. Sarà perchè sono un po' alticcia per il vino bevuto a cena e rido per ogni nonnulla...
Però mi sento incredibilmente creativa ed ho deciso di celebrare uno di questi (rari!) momenti con un post. In realtà, l'ispirazione me l'ha data stamattina una collega, V., che ringrazio, quando parlando della serata di salsa di domenica (cui non sono andata per eccesso di stanchezza, ma pare che io non mi sia persa granché) ha richiamato alla mia mente un universo di ricordi, di pensieri, di emozioni, che col ballo caraibico non c'entrano assolutamente nulla.
Le comuni origini pugliesi e il periodo estivo hanno fatto sì che la parola "salsa" evocasse alla nostra mente tutt'altro: ossia il rito della salsa, con i suoi ritmi e il suo folcklore assolutamente unici.
Per noi pugliesi la salsa è esclusivamente la salsa di pomodoro, quasi che non possa esistere altra salsa possibile (e non lo dite, per favore, qui in Belgio!). E "fare la salsa" si riferisce non a quel momento possibile ovunque in cui una mamma volenterosa decide di non comprare la passata pronta, ma di ottenerla dalla materia prima, il pomodoro; bensì a un rito indimenticabile di tutte le estati della mia infanzia, quando tra luglio e agosto tutte le famiglie del paese cominciavano ad organizzare la giornata (o le giornate!) della salsa.
Se ne cominciava a parlare giorni e giorni prima. Sì, perché di pomodori ce ne sono di varie qualità ed ognuno ha le sue teorie su quale sia il pomodoro migliore per "fare la salsa". E anche di piccoli produttori ce ne sono tanti in zona, e ovviamente bisogna scegliere allo stesso tempo il migliore e il più economico. Si andava nei paesi vicini a comprare da 1 a 2 quintali di pomodori.
Poi si era pronti per il grande evento. Per alcune famiglie il momento della salsa era un momento collettivo; l'allestimento veniva fatto nei cortili interni ed esterni e poteva prevedere anche la partecipazione di persone non appartenenti alla famiglia (nel qual caso le quantità di salsa prodotte a vantaggio di tutti i partecipanti erano a dir poco impressionanti!). In generale, però, fare la salsa era un'attività intorno alla quale la famiglia si riuniva e ognuno aveva il suo ruolo. Di solito era la mamma a dirigere i lavori (padrona della cucina e della casa nella nostra tradizione), il papà invece era costretto ai lavori di fatica: trasportare i fornelloni e i bidoni per la cottura, montare la macchinetta per macinare i pomodori e poi - in caso di macchinetta manuale e non elettrica (quella è venuta dopo!) - macinare appunto i pomodori, a volte aiutato dal figlio maschio in età almeno adolescenziale.
La figlia femmina più grande si occupava di lavare i contenitori della salsa (quelli che per noi sono i "boccacci"), di chiudere le bottiglie, di trasportarle nella dispensa man mano che erano pronte.
A me, la piccola di casa, toccava al massimo svuotare il secchio dove i residui del pomodoro macinato si accumulavano nel corso della giornata. A volte aiutavo la mamma a lavare i pomodori... Attività semplici e in cui non potevo fare danni. Avrei voluto sostituire il papà nell'uso della macchinetta e ogni tanto mi veniva consentito, salvo che dopo pochi minuti il mio braccino non ce la faceva più e cominciavo a far traboccare le bottiglie con conseguente arrabbiatura di tutti.
Qualche volta (quando ancora usavamo le bottiglie con i tappi a corona, e non le bottiglie con il collo largo del succo di frutta - grande rivoluzione nel rito della salsa) mi facevano chiudere le bottiglie con l'apposito attrezzo, ma anche lì ero abbastanza un disastro.
Prevalentemente scorazzavo in qua e in là, come se si trattasse di una festa, osservando le diatribe familiari causate non tanto dalla complessità dell'organizzazione del lavoro, ma dal fatto che la famiglia non era abituata a stare tutta insieme intorno a un tavolo per ottenere un risultato collettivo. Ogni tanto mi incantavo a guardare il meccanismo di quella misteriosa macchinetta, che non ho mai capito come faceva a separare la polpa del pomodoro da buccia e semi. Poi, senza farmi vedere (perché era assolutamente proibito), passavo vicino ai grandi bidoni pieni d'acqua e poggiati su enormi fornelli in cui la salsa nei barattoli era messa a cuocere e ad andare sottovuoto.
E tutto questo grandioso spettacolo durava almeno una giornata intera. Il giorno della salsa ci si alzava presto (io a dire la verità non mi alzavo mai prima delle nove, e trovavo già tutti indaffarati che mi dicevano di togliermi di mezzo) e si andava avanti tutto il giorno con queste operazioni ripetitive ma di grande soddisfazione. La sera poi restavano i grandi bidoni con tutti i "boccacci" dentro e ancora la fiamma accesa.
I giorni successivi si assaggiava la salsa nuova. E lì subito la mamma a dire che la scelta dei pomodori era stata ottima e che il metodo che avevano utilizzato (far bollire i "boccacci" con la passata e non i pomodori prima) era certamente il migliore - mica come altri che producevano quella salsa stracotta! - e che menomale che avevamo fatto la salsa nuova, visto che ultimamente era costretta a comprare i pomodori tutti i giorni, perché a lei la salsa vecchia di un anno non piace (nel tempo le idee cambiano, anche quelle delle mamme, che continuano a fare la salsa, ma solo una cinquantina di chili, ché, dopo, quando arriva la stagione dei pomodori è meglio farla fresca tutti i giorni la salsa!).
Certo, molte cose sono cambiate da allora. Sempre meno persone fanno la salsa (i miei ancora sì, ma la fanno in solitudine e più che macinare preferiscono "dare il bollo" ai pomodori interi nei "boccacci"); soprattutto sempre meno si tratta di un rito, e non scandisce più l'estate con il suo frenetico ritmo e con i suoi irresistibili profumi.
Del resto, non abitiamo più nella casa col grande terrazzo (dove ha vissuto per un po' anche il nostro cane trovatello e anche lui partecipe di tante sessioni di salsa), e anche se ci vivessimo la strada di casa non è più un vicolo cieco, e il nostro edificio non guarda più a una vigna (teatro di tante avventure dell'infanzia!). Tutto è cambiato. In meglio, in peggio, non so... Come dice Sabina Guzzanti in uno dei suoi recenti post in riferimento agli indiani, chissà "Se sanno che il tempo darà ragione a loro".
Insomma, un flusso infinito di ricordi. La mia Puglia. Quella terra che ho imparato ad amare profondamente e sinceramente solo dopo averla lasciata e averla a lungo, in parte, odiata. Forse è così che accade con le proprie origini.
Forse è per questo che mi affascina sentire parlare Vendola. Profeta postmoderno di una terra antica. Lo so, non esageriamo. Ma mi riferisco all'eloquio. Il resto non so.
Alla prossima puntata. Puglia arrivo.
Firmato
Una pugliese postmoderna.
Però mi sento incredibilmente creativa ed ho deciso di celebrare uno di questi (rari!) momenti con un post. In realtà, l'ispirazione me l'ha data stamattina una collega, V., che ringrazio, quando parlando della serata di salsa di domenica (cui non sono andata per eccesso di stanchezza, ma pare che io non mi sia persa granché) ha richiamato alla mia mente un universo di ricordi, di pensieri, di emozioni, che col ballo caraibico non c'entrano assolutamente nulla.
Le comuni origini pugliesi e il periodo estivo hanno fatto sì che la parola "salsa" evocasse alla nostra mente tutt'altro: ossia il rito della salsa, con i suoi ritmi e il suo folcklore assolutamente unici.
Per noi pugliesi la salsa è esclusivamente la salsa di pomodoro, quasi che non possa esistere altra salsa possibile (e non lo dite, per favore, qui in Belgio!). E "fare la salsa" si riferisce non a quel momento possibile ovunque in cui una mamma volenterosa decide di non comprare la passata pronta, ma di ottenerla dalla materia prima, il pomodoro; bensì a un rito indimenticabile di tutte le estati della mia infanzia, quando tra luglio e agosto tutte le famiglie del paese cominciavano ad organizzare la giornata (o le giornate!) della salsa.
Se ne cominciava a parlare giorni e giorni prima. Sì, perché di pomodori ce ne sono di varie qualità ed ognuno ha le sue teorie su quale sia il pomodoro migliore per "fare la salsa". E anche di piccoli produttori ce ne sono tanti in zona, e ovviamente bisogna scegliere allo stesso tempo il migliore e il più economico. Si andava nei paesi vicini a comprare da 1 a 2 quintali di pomodori.
Poi si era pronti per il grande evento. Per alcune famiglie il momento della salsa era un momento collettivo; l'allestimento veniva fatto nei cortili interni ed esterni e poteva prevedere anche la partecipazione di persone non appartenenti alla famiglia (nel qual caso le quantità di salsa prodotte a vantaggio di tutti i partecipanti erano a dir poco impressionanti!). In generale, però, fare la salsa era un'attività intorno alla quale la famiglia si riuniva e ognuno aveva il suo ruolo. Di solito era la mamma a dirigere i lavori (padrona della cucina e della casa nella nostra tradizione), il papà invece era costretto ai lavori di fatica: trasportare i fornelloni e i bidoni per la cottura, montare la macchinetta per macinare i pomodori e poi - in caso di macchinetta manuale e non elettrica (quella è venuta dopo!) - macinare appunto i pomodori, a volte aiutato dal figlio maschio in età almeno adolescenziale.
La figlia femmina più grande si occupava di lavare i contenitori della salsa (quelli che per noi sono i "boccacci"), di chiudere le bottiglie, di trasportarle nella dispensa man mano che erano pronte.
A me, la piccola di casa, toccava al massimo svuotare il secchio dove i residui del pomodoro macinato si accumulavano nel corso della giornata. A volte aiutavo la mamma a lavare i pomodori... Attività semplici e in cui non potevo fare danni. Avrei voluto sostituire il papà nell'uso della macchinetta e ogni tanto mi veniva consentito, salvo che dopo pochi minuti il mio braccino non ce la faceva più e cominciavo a far traboccare le bottiglie con conseguente arrabbiatura di tutti.
Qualche volta (quando ancora usavamo le bottiglie con i tappi a corona, e non le bottiglie con il collo largo del succo di frutta - grande rivoluzione nel rito della salsa) mi facevano chiudere le bottiglie con l'apposito attrezzo, ma anche lì ero abbastanza un disastro.
Prevalentemente scorazzavo in qua e in là, come se si trattasse di una festa, osservando le diatribe familiari causate non tanto dalla complessità dell'organizzazione del lavoro, ma dal fatto che la famiglia non era abituata a stare tutta insieme intorno a un tavolo per ottenere un risultato collettivo. Ogni tanto mi incantavo a guardare il meccanismo di quella misteriosa macchinetta, che non ho mai capito come faceva a separare la polpa del pomodoro da buccia e semi. Poi, senza farmi vedere (perché era assolutamente proibito), passavo vicino ai grandi bidoni pieni d'acqua e poggiati su enormi fornelli in cui la salsa nei barattoli era messa a cuocere e ad andare sottovuoto.
E tutto questo grandioso spettacolo durava almeno una giornata intera. Il giorno della salsa ci si alzava presto (io a dire la verità non mi alzavo mai prima delle nove, e trovavo già tutti indaffarati che mi dicevano di togliermi di mezzo) e si andava avanti tutto il giorno con queste operazioni ripetitive ma di grande soddisfazione. La sera poi restavano i grandi bidoni con tutti i "boccacci" dentro e ancora la fiamma accesa.
I giorni successivi si assaggiava la salsa nuova. E lì subito la mamma a dire che la scelta dei pomodori era stata ottima e che il metodo che avevano utilizzato (far bollire i "boccacci" con la passata e non i pomodori prima) era certamente il migliore - mica come altri che producevano quella salsa stracotta! - e che menomale che avevamo fatto la salsa nuova, visto che ultimamente era costretta a comprare i pomodori tutti i giorni, perché a lei la salsa vecchia di un anno non piace (nel tempo le idee cambiano, anche quelle delle mamme, che continuano a fare la salsa, ma solo una cinquantina di chili, ché, dopo, quando arriva la stagione dei pomodori è meglio farla fresca tutti i giorni la salsa!).
Certo, molte cose sono cambiate da allora. Sempre meno persone fanno la salsa (i miei ancora sì, ma la fanno in solitudine e più che macinare preferiscono "dare il bollo" ai pomodori interi nei "boccacci"); soprattutto sempre meno si tratta di un rito, e non scandisce più l'estate con il suo frenetico ritmo e con i suoi irresistibili profumi.
Del resto, non abitiamo più nella casa col grande terrazzo (dove ha vissuto per un po' anche il nostro cane trovatello e anche lui partecipe di tante sessioni di salsa), e anche se ci vivessimo la strada di casa non è più un vicolo cieco, e il nostro edificio non guarda più a una vigna (teatro di tante avventure dell'infanzia!). Tutto è cambiato. In meglio, in peggio, non so... Come dice Sabina Guzzanti in uno dei suoi recenti post in riferimento agli indiani, chissà "Se sanno che il tempo darà ragione a loro".
Insomma, un flusso infinito di ricordi. La mia Puglia. Quella terra che ho imparato ad amare profondamente e sinceramente solo dopo averla lasciata e averla a lungo, in parte, odiata. Forse è così che accade con le proprie origini.
Forse è per questo che mi affascina sentire parlare Vendola. Profeta postmoderno di una terra antica. Lo so, non esageriamo. Ma mi riferisco all'eloquio. Il resto non so.
Alla prossima puntata. Puglia arrivo.
Firmato
Una pugliese postmoderna.
sabato 17 luglio 2010
Shrek 4 - Forever after
Ed eccoci a quello che sembrerebbe essere davvero l'ultimo capitolo della saga di Shrek (e d'altra parte non vedo cos'altro potrebbero inventarsi i suoi creatori che già in questo mi sono sembrati piuttosto a corto di idee. Un po' come i mitici sceneggiatori rappresentati in Boris!).
In sostanza, Shrek 4 (Forever after, in italiano E vissero felici e contenti) ci fa vedere cosa sarebbe potuto accadere se il nostro mitico orco non avesse salvato Fiona dalla maledizione e il regno di Molto molto lontano fosse finito nelle mani del perfido Rumpelstiltskin (il nano Tremotino in italiano) e delle sue streghe.
Il fatto è che all'incauto Shrek, durante la sua felice vita da orco buono, con una moglie che lo ama e tre piccoli adorabili orchi, ma condannata a una inevitabile routine, viene la nostalgia dei tempi che furono e accetta un accordo con Rumpelstiltskin per tornare a vivere un giorno da vero orco; ovviamente il contratto si rivela ben presto fraudolento.
E così, il povero Shrek si ritrova in un mondo in cui Fiona è un'orchessa guerriera a capo di un gruppo di orchi ribelli e non è innamorata di lui, Ciuchino traina carri, canta, ma non lo riconosce, il gatto con gli stivali è diventato ciccione e col fiocchetto al collo.
Insomma, niente è come dovrebbe, ma - come si potrà immaginare - l'amore di Shrek per Fiona e il suo animo grande rimetteranno tutto a posto, in un finale che a me personalmente una piccola lacrimuccia l'ha strappata.
Shrek e la sua allegra combriccola sono sempre divertenti e godibilissimi. Il 3D è veramente spettacolare e probabilmente vale il film; alla Dreamworks dimostrano di saper lavorare splendidamente con le nuove tecnologie; semmai mi pare stiano un po' arrancando in fatto di originalità.
Così, in questo Shrek ci sono un paio di scene memorabili (tra l'altro già viste in parte nei trailers) - direi su tutte il gatto con gli stivali ciccione che, non riuscendo a leccarsi, chiede a Ciuchino di prestargli la lingua!! - ma non molto di più. Quindi, se andate a vederlo, lasciatevi trasportare dalla magia del 3D come se saliste su una giostra e, quando scendete, certamente penserete che è stato bello, ma dopo pochi minuti starete già pensando a quale altra giostra sperimentare.
Voto: 2,5/5
In sostanza, Shrek 4 (Forever after, in italiano E vissero felici e contenti) ci fa vedere cosa sarebbe potuto accadere se il nostro mitico orco non avesse salvato Fiona dalla maledizione e il regno di Molto molto lontano fosse finito nelle mani del perfido Rumpelstiltskin (il nano Tremotino in italiano) e delle sue streghe.
Il fatto è che all'incauto Shrek, durante la sua felice vita da orco buono, con una moglie che lo ama e tre piccoli adorabili orchi, ma condannata a una inevitabile routine, viene la nostalgia dei tempi che furono e accetta un accordo con Rumpelstiltskin per tornare a vivere un giorno da vero orco; ovviamente il contratto si rivela ben presto fraudolento.
E così, il povero Shrek si ritrova in un mondo in cui Fiona è un'orchessa guerriera a capo di un gruppo di orchi ribelli e non è innamorata di lui, Ciuchino traina carri, canta, ma non lo riconosce, il gatto con gli stivali è diventato ciccione e col fiocchetto al collo.
Insomma, niente è come dovrebbe, ma - come si potrà immaginare - l'amore di Shrek per Fiona e il suo animo grande rimetteranno tutto a posto, in un finale che a me personalmente una piccola lacrimuccia l'ha strappata.
Shrek e la sua allegra combriccola sono sempre divertenti e godibilissimi. Il 3D è veramente spettacolare e probabilmente vale il film; alla Dreamworks dimostrano di saper lavorare splendidamente con le nuove tecnologie; semmai mi pare stiano un po' arrancando in fatto di originalità.
Così, in questo Shrek ci sono un paio di scene memorabili (tra l'altro già viste in parte nei trailers) - direi su tutte il gatto con gli stivali ciccione che, non riuscendo a leccarsi, chiede a Ciuchino di prestargli la lingua!! - ma non molto di più. Quindi, se andate a vederlo, lasciatevi trasportare dalla magia del 3D come se saliste su una giostra e, quando scendete, certamente penserete che è stato bello, ma dopo pochi minuti starete già pensando a quale altra giostra sperimentare.
Voto: 2,5/5
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3D,
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Fiona,
Shrek
martedì 6 luglio 2010
Aline et les autres / Guy Delisle
Aline et les autres / Guy Delisle. Paris, L'Association, 1999.
Come annunciato, una volta finito di leggere Pyongyang, mi è immediatamente venuto il desiderio di comprare e leggere qualcos'altro di Guy Delisle. Detto. Fatto.
In una delle tante librerie specializzate in fumetti di Bruxelles (che bellezza!), ho comprato questo Aline et les autres e Shenzen. Facilmente si viene inghiottini da Aline perché, praticamente, si tratta di un fumetto senza parole, articolato in episodi, dedicati ciascuno ad un personaggio femminile (e in particolare alle sue relazioni sentimentali) ed articolati a mo' di abbecedario. Si comincia infatti con Aline per terminare con Zoe.
E così, una volta catturata dal primo episodio non sono riuscita a fermarmi e sono andata avanti a scoprire tutte queste curiose storie, questi personaggi bizzarri, questi disegni solo in piccola parte realistici. Ogni tanto si sorride, altre volte si resta interdetti; in generale, si ha la sensazione che la materia non sia leggera e che molti degli stereotipi, delle idiosincrasie, dei difetti comportamentali, dei desideri reconditi che emergono da queste pagine non sono solo il frutto di una mente di cui - come ha detto qualcuno - sarebbe interessante approfondire le turbe psichiche, ma realtà che emotivamente riconosciamo. Certo, rimane una visione maschile dell'universo sentimentale femminile e, in questo senso, va interpretato. Ma forse, anche per questo, ci fa riflettere.
In Italia non credo che Aline et les autres sia uscito. Forse per noi bacchettoni è un prodotto troppo ardito, quasi pornografico, ma al contempo troppo intellettuale per esserlo realmente. E d'altra parte sul fumetto in Italia ci si muove soltanto tra due estremi: quello per bambini e quello per adulti, nel senso più stretto del termine. Altrimenti, prodotti da edicola, quasi sempre considerati quasi indegni di approdare sugli scaffali di una libreria.
Insomma, approfitterò di questa mia parentesi belga per avvicinarmi al fumetto come forse in Italia non sarebbe altrettanto facile fare.
Voto: 3,5/5
Come annunciato, una volta finito di leggere Pyongyang, mi è immediatamente venuto il desiderio di comprare e leggere qualcos'altro di Guy Delisle. Detto. Fatto.
In una delle tante librerie specializzate in fumetti di Bruxelles (che bellezza!), ho comprato questo Aline et les autres e Shenzen. Facilmente si viene inghiottini da Aline perché, praticamente, si tratta di un fumetto senza parole, articolato in episodi, dedicati ciascuno ad un personaggio femminile (e in particolare alle sue relazioni sentimentali) ed articolati a mo' di abbecedario. Si comincia infatti con Aline per terminare con Zoe.
E così, una volta catturata dal primo episodio non sono riuscita a fermarmi e sono andata avanti a scoprire tutte queste curiose storie, questi personaggi bizzarri, questi disegni solo in piccola parte realistici. Ogni tanto si sorride, altre volte si resta interdetti; in generale, si ha la sensazione che la materia non sia leggera e che molti degli stereotipi, delle idiosincrasie, dei difetti comportamentali, dei desideri reconditi che emergono da queste pagine non sono solo il frutto di una mente di cui - come ha detto qualcuno - sarebbe interessante approfondire le turbe psichiche, ma realtà che emotivamente riconosciamo. Certo, rimane una visione maschile dell'universo sentimentale femminile e, in questo senso, va interpretato. Ma forse, anche per questo, ci fa riflettere.
In Italia non credo che Aline et les autres sia uscito. Forse per noi bacchettoni è un prodotto troppo ardito, quasi pornografico, ma al contempo troppo intellettuale per esserlo realmente. E d'altra parte sul fumetto in Italia ci si muove soltanto tra due estremi: quello per bambini e quello per adulti, nel senso più stretto del termine. Altrimenti, prodotti da edicola, quasi sempre considerati quasi indegni di approdare sugli scaffali di una libreria.
Insomma, approfitterò di questa mia parentesi belga per avvicinarmi al fumetto come forse in Italia non sarebbe altrettanto facile fare.
Voto: 3,5/5
domenica 4 luglio 2010
Toy story 3 - La grande fuga
Devo dire che questi signori della Pixar sono veramente geniali! Mi danno davvero l'impressione di lavorare per un'azienda che ha deciso di puntare su capacità e creatività. E il risultato è che - sul fronte del cartone animato moderno - sono una spanna al di sopra di tutti.
Anche questo Toy Story 3 - La grande fuga secondo me è assolutamente all'altezza delle aspettative. Inizia in modo perfetto: un'ambientazione del Far West con Woody impegnato a salvare un treno dai cattivi. Presto però intervengono personaggi strani e non certo in linea con l'ambientazione: Mr e Mrs Patata, Buzz Lightyear, Rex dinosauro, il porcellino salvadanaio. E si capisce presto che siamo nella fantasia di Andy che inventa storie con i suoi giocattoli, mescolandoli e rendendoli assolutamente coerenti l'uno con l'altro, anche quando non lo sono, come solo un bambino può fare.
In realtà, si tratta del racconto retrospettivo di Andy bambino e dei tempi felici in cui giocava; ora che sta per andare al college è venuto il momento di decidere il destino dei suoi giocattoli, che - più o meno per sbaglio - finiranno prima all'asilo Sunnyside (un vero e proprio lager per giocattoli), ma riusciranno alla fine a tornare a casa e trovare un nuovo, commovente, destino.
I personaggi principali sono fedeli a se stessi e divertenti come sempre (sempre molto azzeccata la dinamica tra Woody e Buzz Lightyear, quest'ultimo anche in versione spagnola), ma anche i nuovi personaggi che si uniscono alla combriccola, in particolare Barbie e Ken, sono assolutamente esilaranti, in particolare per la mia generazione che a suo tempo ci ha giocato moltissimo.
Praticamente si ride di cuore per tutto il film. E ci si emoziona pure. E soprattutto si ha la sensazione di quanto tutto sia realistico, pur non essendolo affatto.
Il 3D aggiunge fascino all'insieme, ma devo dire che non fa la differenza, perché la forza del film sta nella qualità della storia e della sceneggiatura. E nell'eccezionalità tecnica dell'animazione.
A questo punto, devo, però, assolutamente menzionare il corto che precede il film. Avevo amato Partly cloudy, che precedeva il film Up. Devo dire che anche questo Day & night è superbo. Due personaggi bidimensionali, il cui corpo contiene paesaggi tridimensionali che rispecchiano la loro natura e le loro emozioni. Uno dei due esprime tutto ciò che c'è di bello nel giorno (la spiaggia con la gente, la campagna con i fiori, il sole, le passeggiate etc.), l'altro rappresenta un mondo e un umore in notturna (la spiaggia vuota, la luna, le lucciole, ma anche i fuochi di artificio, la vita nei casinò etc.). All'inizio, non si capiscono e si azzuffano; in un secondo momento, in parte si invidiano. Alla fine, riescono a godere della loro diversità e unicità, fino a incontrarsi e scambiarsi addirittura i ruoli.
A parte l'uso del tridimensionale per una volta finalizzato a veicolare un significato, trovo che questi corti siano in grado nella loro semplicità di toccare davvero livelli di animazione altissimi e di comunicare, senza fatica, significati universali.
Godetevi di seguito il Making of del corto:
Voto: 4/5
Anche questo Toy Story 3 - La grande fuga secondo me è assolutamente all'altezza delle aspettative. Inizia in modo perfetto: un'ambientazione del Far West con Woody impegnato a salvare un treno dai cattivi. Presto però intervengono personaggi strani e non certo in linea con l'ambientazione: Mr e Mrs Patata, Buzz Lightyear, Rex dinosauro, il porcellino salvadanaio. E si capisce presto che siamo nella fantasia di Andy che inventa storie con i suoi giocattoli, mescolandoli e rendendoli assolutamente coerenti l'uno con l'altro, anche quando non lo sono, come solo un bambino può fare.
In realtà, si tratta del racconto retrospettivo di Andy bambino e dei tempi felici in cui giocava; ora che sta per andare al college è venuto il momento di decidere il destino dei suoi giocattoli, che - più o meno per sbaglio - finiranno prima all'asilo Sunnyside (un vero e proprio lager per giocattoli), ma riusciranno alla fine a tornare a casa e trovare un nuovo, commovente, destino.
I personaggi principali sono fedeli a se stessi e divertenti come sempre (sempre molto azzeccata la dinamica tra Woody e Buzz Lightyear, quest'ultimo anche in versione spagnola), ma anche i nuovi personaggi che si uniscono alla combriccola, in particolare Barbie e Ken, sono assolutamente esilaranti, in particolare per la mia generazione che a suo tempo ci ha giocato moltissimo.
Praticamente si ride di cuore per tutto il film. E ci si emoziona pure. E soprattutto si ha la sensazione di quanto tutto sia realistico, pur non essendolo affatto.
Il 3D aggiunge fascino all'insieme, ma devo dire che non fa la differenza, perché la forza del film sta nella qualità della storia e della sceneggiatura. E nell'eccezionalità tecnica dell'animazione.
A questo punto, devo, però, assolutamente menzionare il corto che precede il film. Avevo amato Partly cloudy, che precedeva il film Up. Devo dire che anche questo Day & night è superbo. Due personaggi bidimensionali, il cui corpo contiene paesaggi tridimensionali che rispecchiano la loro natura e le loro emozioni. Uno dei due esprime tutto ciò che c'è di bello nel giorno (la spiaggia con la gente, la campagna con i fiori, il sole, le passeggiate etc.), l'altro rappresenta un mondo e un umore in notturna (la spiaggia vuota, la luna, le lucciole, ma anche i fuochi di artificio, la vita nei casinò etc.). All'inizio, non si capiscono e si azzuffano; in un secondo momento, in parte si invidiano. Alla fine, riescono a godere della loro diversità e unicità, fino a incontrarsi e scambiarsi addirittura i ruoli.
A parte l'uso del tridimensionale per una volta finalizzato a veicolare un significato, trovo che questi corti siano in grado nella loro semplicità di toccare davvero livelli di animazione altissimi e di comunicare, senza fatica, significati universali.
Godetevi di seguito il Making of del corto:
Voto: 4/5
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venerdì 2 luglio 2010
Le perfezioni provvisorie
Le perfezioni provvisorie / Gianrico Carofiglio. Palermo, Sellerio, 2010.
Ed eccoci all’ultimo capitolo – almeno per il momento – della saga dell’avvocato Guido Guerrieri, questa volta coinvolto in una vera e propria indagine investigativa piuttosto che in un caso già giunto alle aule dei tribunali: la scomparsa di una giovane ragazza di buona famiglia.
Archiviata ormai definitivamente la storia con Margherita – con mia grande delusione! – Guido ormai si barcamena faticosamente nella sua crisi di mezza età, che lo vede sempre più spesso a colloquio col suo sacco da boxe, sempre più preoccupato del tempo che passa velocemente, sempre più disincantato dal punto di vista sentimentale, direi quasi facilmente confuso dalle apparenze.
Ancora una volta Guido Guerrieri, avvocato barese quarantacinquenne, non ci sembra un personaggio di un romanzo, ma ha tutte le caratteristiche delle persone vere. E forse proprio per questo ci angoscia una certa sua parabola, che lo rende sempre meno leggero e autoironico per virare verso il cinico e l’amareggiato.
Del resto, lo stesso – ancora una volta bellissimo – titolo del romanzo Le perfezioni provvisorie contiene questa sensazione di precarietà, questo senso di disillusione che forse, passata la metà della vita, diventa praticamente inevitabile.
«Un pensiero assurdo che […] ne mise in moto altri, inclusa l’idea di lasciar perdere tutto. Per qualche minuto, anzi, mi parve di averlo proprio deciso, di lasciar perdere tutto, e per quei minuti provai un senso di totale padronanza, di equilibrio instabile e perfetto. Il senso di perfezione che hanno solo le cose provvisorie e destinare a finire presto.» (p. 310)
Non che Guido abbia perso i suoi ideali (è bellissimo il passaggio in cui racconta il senso del suo essere avvocato), non che il suo percorso sia meno affascinante e la sua mente meno brillante. Tant’è che continua a distillarci perle di saggezza e di verità:
«Ha detto qualcuno che gli uomini si dividono nelle categorie degli intelligenti o dei cretini, e dei pigri o degli intraprendenti. Ci sono i cretini pigri, normalmente irrilevanti e innocui, e ci sono gli intelligenti ambiziosi, cui possono essere assegnati compiti importanti, anche se le più grandi imprese, in tutti i campi, vengono quasi sempre realizzate dagli intelligenti pigri. Una cosa però va tenuta a mente: la categoria più pericolosa, da cui ci si possono aspettare i più gravi disastri e da cui bisogna guardarsi con la massima circospezione, è quella dei cretini intraprendenti.» (p. 124-125)
Così, continua ad essere divertente e appassionante seguirlo per le strade della città (con tutti i cambiamenti che la caratterizzano e che Carofiglio non manca di farci notare) e della Puglia (quanto mi sono sentita a casa quando ci racconta del pranzo a base di ricci di mare in località Forcatella, vicino Savelletri!).
Continuano ad essere interessanti i personaggi di contorno ed equilibrata la scrittura.
Eppure, non so... Rispetto al movimento emotivo ed interiore dei primi due romanzi, mi pare che si cominci a riscontrare una qualche forma di appiattimento, che forse è propria della vita, ma che certamente ci fa sperare di ritrovare presto un Guerrieri emotivamente più vivo e coinvolto.
Il che non vuol certo dire che questo romanzo non meriti di essere letto. Anzi.
Voto: 3/5
Ed eccoci all’ultimo capitolo – almeno per il momento – della saga dell’avvocato Guido Guerrieri, questa volta coinvolto in una vera e propria indagine investigativa piuttosto che in un caso già giunto alle aule dei tribunali: la scomparsa di una giovane ragazza di buona famiglia.
Archiviata ormai definitivamente la storia con Margherita – con mia grande delusione! – Guido ormai si barcamena faticosamente nella sua crisi di mezza età, che lo vede sempre più spesso a colloquio col suo sacco da boxe, sempre più preoccupato del tempo che passa velocemente, sempre più disincantato dal punto di vista sentimentale, direi quasi facilmente confuso dalle apparenze.
Ancora una volta Guido Guerrieri, avvocato barese quarantacinquenne, non ci sembra un personaggio di un romanzo, ma ha tutte le caratteristiche delle persone vere. E forse proprio per questo ci angoscia una certa sua parabola, che lo rende sempre meno leggero e autoironico per virare verso il cinico e l’amareggiato.
Del resto, lo stesso – ancora una volta bellissimo – titolo del romanzo Le perfezioni provvisorie contiene questa sensazione di precarietà, questo senso di disillusione che forse, passata la metà della vita, diventa praticamente inevitabile.
«Un pensiero assurdo che […] ne mise in moto altri, inclusa l’idea di lasciar perdere tutto. Per qualche minuto, anzi, mi parve di averlo proprio deciso, di lasciar perdere tutto, e per quei minuti provai un senso di totale padronanza, di equilibrio instabile e perfetto. Il senso di perfezione che hanno solo le cose provvisorie e destinare a finire presto.» (p. 310)
Non che Guido abbia perso i suoi ideali (è bellissimo il passaggio in cui racconta il senso del suo essere avvocato), non che il suo percorso sia meno affascinante e la sua mente meno brillante. Tant’è che continua a distillarci perle di saggezza e di verità:
«Ha detto qualcuno che gli uomini si dividono nelle categorie degli intelligenti o dei cretini, e dei pigri o degli intraprendenti. Ci sono i cretini pigri, normalmente irrilevanti e innocui, e ci sono gli intelligenti ambiziosi, cui possono essere assegnati compiti importanti, anche se le più grandi imprese, in tutti i campi, vengono quasi sempre realizzate dagli intelligenti pigri. Una cosa però va tenuta a mente: la categoria più pericolosa, da cui ci si possono aspettare i più gravi disastri e da cui bisogna guardarsi con la massima circospezione, è quella dei cretini intraprendenti.» (p. 124-125)
Così, continua ad essere divertente e appassionante seguirlo per le strade della città (con tutti i cambiamenti che la caratterizzano e che Carofiglio non manca di farci notare) e della Puglia (quanto mi sono sentita a casa quando ci racconta del pranzo a base di ricci di mare in località Forcatella, vicino Savelletri!).
Continuano ad essere interessanti i personaggi di contorno ed equilibrata la scrittura.
Eppure, non so... Rispetto al movimento emotivo ed interiore dei primi due romanzi, mi pare che si cominci a riscontrare una qualche forma di appiattimento, che forse è propria della vita, ma che certamente ci fa sperare di ritrovare presto un Guerrieri emotivamente più vivo e coinvolto.
Il che non vuol certo dire che questo romanzo non meriti di essere letto. Anzi.
Voto: 3/5
giovedì 1 luglio 2010
L'illusionniste
Vi ricordate Appuntamento a Belleville? Quel film bellissimo e tristissimo che aveva come protagonista un ragazzino senza genitori che vive con la nonna e la cui unica passione è andare in bicicletta. Con dei disegni bellissimi. E dei colori assolutamente inconsueti.
Il genio che stava dietro quel film è Sylvain Chomet, che ora torna al cinema con questo suo nuovo lavoro, dal titolo L'illusionniste. Questa volta Chomet è andato a pescare una sceneggiatura inedita di Jacques Tati, una specie di icona del cinema francese, regista ed attore di film come Les vacances de Monsieur Hulot e Mon oncle, e l'ha fatta rivivere nel delicato e buffo protagonista di questo cartone, riproducendone le movenze e la tragicomica natura.
Qui il protagonista è un illusionista tradizionale, di quelli che tirano fuori i conigli dai cappelli, fanno spuntare oggetti dal niente, e che negli anni Cinquanta è praticamente al top della sua carriera, riempie i teatri e diverte la gente. Poi, però, arrivano gli anni Sessanta e con l'avvento del rock e della "modernità", il nostro povero mago deve fare i conti con la scarsità e la modestia dei contesti lavorativi che gli vengono offerti.
E così, dai grandi teatri, deve via via adattarsi alle feste private, ai pub, alle vetrine dei negozi. È assolutamente esilarante e, al contempo, tragicamente commovente il viaggio che il nostro povero eroe deve fare dalla Francia fino a uno sperduto paesino della Scozia, dove gli viene chiesto di fare qualche spettacolo per i frequentatori di un pub, lì cioè dove il mondo sembra essersi fermato e c'è ancora posto per lui. Ma anche lì arriverà presto il juke-box e i suoi giochi di prestigio non attireranno più nessuno, salvo una ragazzina che, affascinata da quest'uomo capace di far comparire delle scarpe nuove al posto di quelle rotte, deciderà di seguirlo nel suo viaggio. Finiranno a Edimburgo, in un triste albergo dove sembrano aver trovato ricovero tutti gli artisti che la società contemporanea non vuole più o di cui non ha più bisogno: ventriloqui, clown, acrobati, ridotti ormai alla depressione o ad adattarsi ad altri lavori o a chiedere l'elemosina per strada.
Lo stesso accadrà progressivamente al nostro illusionista, tanto più nel suo tenero tentativo di dare alla ragazza, trattata e amata come una figlia, tutto quello che desidera per non sentirsi povera ed essere in linea con il mondo che la circonda. Peccato che anche lei si dimenticherà di quello che era, da dove proviene, in questo smanioso inseguimento della moda e della modernità.
E così, il nostro antieroe, quando vede sgretolarsi intorno a sé tutto il mondo in cui ha vissuto e creduto e finisce disilluso anche dalla speranza di futuro che questa quasi-figlia ha rappresentato, consapevole di essere uno sconfitto ("i maghi non esistono"), decide di rimettersi in viaggio, per chissà dove, con la sua unica valigia in mano.
Il tutto in un'atmosfera di disegni e di colori veramente magica - senza quasi parole -, capace di veicolare sentimenti ed emozioni con la sola forza dell'immagine, talvolta associata alla musica.
Che metafora triste questa dell'illusionista! Certo, autobiografica se riferita a Jacques Tati (tant'è che la ragazza pare essere ispirata alla figlia illegittima e ritrovata dallo stesso), ma universale in quel messaggio un po' conservatore che porta con sé, ossia quell'idea lacerante che il passare del tempo e l'accelerazione della modernità risucchiano cose, persone, vite e, per certi versi, abbrutiscono l'umanità, privandola di quella dignità che è certamente la caratteristica più rilevante del nostro illusionista.
Sylvain Chomet, che pure può essere considerato un giovane regista (classe 1963), sembra privilegiare questa vena un po' malinconica e triste, in cui l'ironia è superbamente presente, ma che ci lascia sempre un senso di profonda disillusione e un pessimistico sguardo sul futuro.
Devo dire, però, che personalmente amo la magia che Chomet riesce a creare con i suoi film di animazione. Li considero puro godimento per tutti i sensi. E in qualche modo anche per l'anima.
Andatelo assolutamente a vedere quando finalmente uscirà in Italia.
Voto: 4,5/5
Il genio che stava dietro quel film è Sylvain Chomet, che ora torna al cinema con questo suo nuovo lavoro, dal titolo L'illusionniste. Questa volta Chomet è andato a pescare una sceneggiatura inedita di Jacques Tati, una specie di icona del cinema francese, regista ed attore di film come Les vacances de Monsieur Hulot e Mon oncle, e l'ha fatta rivivere nel delicato e buffo protagonista di questo cartone, riproducendone le movenze e la tragicomica natura.
Qui il protagonista è un illusionista tradizionale, di quelli che tirano fuori i conigli dai cappelli, fanno spuntare oggetti dal niente, e che negli anni Cinquanta è praticamente al top della sua carriera, riempie i teatri e diverte la gente. Poi, però, arrivano gli anni Sessanta e con l'avvento del rock e della "modernità", il nostro povero mago deve fare i conti con la scarsità e la modestia dei contesti lavorativi che gli vengono offerti.
E così, dai grandi teatri, deve via via adattarsi alle feste private, ai pub, alle vetrine dei negozi. È assolutamente esilarante e, al contempo, tragicamente commovente il viaggio che il nostro povero eroe deve fare dalla Francia fino a uno sperduto paesino della Scozia, dove gli viene chiesto di fare qualche spettacolo per i frequentatori di un pub, lì cioè dove il mondo sembra essersi fermato e c'è ancora posto per lui. Ma anche lì arriverà presto il juke-box e i suoi giochi di prestigio non attireranno più nessuno, salvo una ragazzina che, affascinata da quest'uomo capace di far comparire delle scarpe nuove al posto di quelle rotte, deciderà di seguirlo nel suo viaggio. Finiranno a Edimburgo, in un triste albergo dove sembrano aver trovato ricovero tutti gli artisti che la società contemporanea non vuole più o di cui non ha più bisogno: ventriloqui, clown, acrobati, ridotti ormai alla depressione o ad adattarsi ad altri lavori o a chiedere l'elemosina per strada.
Lo stesso accadrà progressivamente al nostro illusionista, tanto più nel suo tenero tentativo di dare alla ragazza, trattata e amata come una figlia, tutto quello che desidera per non sentirsi povera ed essere in linea con il mondo che la circonda. Peccato che anche lei si dimenticherà di quello che era, da dove proviene, in questo smanioso inseguimento della moda e della modernità.
E così, il nostro antieroe, quando vede sgretolarsi intorno a sé tutto il mondo in cui ha vissuto e creduto e finisce disilluso anche dalla speranza di futuro che questa quasi-figlia ha rappresentato, consapevole di essere uno sconfitto ("i maghi non esistono"), decide di rimettersi in viaggio, per chissà dove, con la sua unica valigia in mano.
Il tutto in un'atmosfera di disegni e di colori veramente magica - senza quasi parole -, capace di veicolare sentimenti ed emozioni con la sola forza dell'immagine, talvolta associata alla musica.
Che metafora triste questa dell'illusionista! Certo, autobiografica se riferita a Jacques Tati (tant'è che la ragazza pare essere ispirata alla figlia illegittima e ritrovata dallo stesso), ma universale in quel messaggio un po' conservatore che porta con sé, ossia quell'idea lacerante che il passare del tempo e l'accelerazione della modernità risucchiano cose, persone, vite e, per certi versi, abbrutiscono l'umanità, privandola di quella dignità che è certamente la caratteristica più rilevante del nostro illusionista.
Sylvain Chomet, che pure può essere considerato un giovane regista (classe 1963), sembra privilegiare questa vena un po' malinconica e triste, in cui l'ironia è superbamente presente, ma che ci lascia sempre un senso di profonda disillusione e un pessimistico sguardo sul futuro.
Devo dire, però, che personalmente amo la magia che Chomet riesce a creare con i suoi film di animazione. Li considero puro godimento per tutti i sensi. E in qualche modo anche per l'anima.
Andatelo assolutamente a vedere quando finalmente uscirà in Italia.
Voto: 4,5/5
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