mercoledì 21 giugno 2017

How to talk to girls at parties

Cosa poteva nascere dall'incontro tra Neil Gaiman (autore del racconto omonimo da cui è tratto il film) e John Cameron Mitchell (il regista di Hedwig - La diva con qualcosa in più e Shortbus)? Ovviamente un film scoppiettante, folle, colorato, e al contempo malinconico e commovente.

How to talk with girls at parties è ambientato a Croydon, in Inghilterra, alla fine degli anni Settanta; il protagonista è Enn (Alex Sharp), un ragazzo che vive da solo con la madre (dopo che il padre li ha abbandonati), è un appassionato di punk e della filosofia di vita che lo anima, disegna fumetti e va in giro con i suoi due amici di sempre.

Un giorno, Enn e i suoi amici mentre cercano una festa punk si perdono e approdano in una casa semiabbandonata, dove vengono in contatto con uno strano gruppo di persone, vestite in sgargianti vestiti di plastica colorata, e con abitudini a dir poco curiose. Si tratta di individui sotto fattezze umane ma che provengono da altri pianeti e sono di passaggio sulla terra. Tutti e tre i ragazzi vivranno esperienze nuove destinate a segnarli in modo diverso.

Qui Enn incontra e fa amicizia con Zan (Elle Fanning), una ragazza aliena che si ribella alle rigide regole della sua comunità e per questo decide di seguire Enn e di scoprire con lui il mondo degli umani.

L'incontro è di quelli che cambiano la vita: sia Enn che Zan - rispecchiandosi l'uno negli occhi dell'altra -capiranno meglio non solo se stessi, bensì anche il mondo che li circonda. Al termine dell'avventura che li vedrà protagonisti entrambi saranno chiamati a prendere le proprie decisioni sul futuro e con questo ad abbandonare l'adolescenza per entrare nel mondo adulto con una nuova consapevolezza, in parte anche dolorosa.

Dentro il film di Cameron Mitchell ci sono tantissimi temi: quelli ambientalisti relativi a come l'umanità stia sfruttando le risorse del pianeta condannandosi all'estinzione, il rapporto tra le generazioni, il rapporto tra i generi e la scoperta della sessualità, il significato dei sentimenti e la loro stretta correlazione con la capacità di vedere la bellezza, la contrapposizione culturale tra Inghilterra e America. Forse troppo per un unico film. Non a caso How to talk to girls at parties si trasforma in un caleidoscopio di personaggi, di situazioni, di colori, di musiche che stordiscono e rendono euforici lo spettatore, trascinandoli in quel crescendo che porterà allo scioglimento della storia.

Al di sotto o al di sopra di tutto questo scorre costantemente una vena ironica che conferisce al film una leggerezza decisamente apprezzabile. Persino Nicole Kidman – che negli ultimi film che avevo visto mi era sempre più sembrata una statua di cera – qui, trasformata in una specie di sacerdotessa del punk, è perfettamente integrata nel contesto e a tratti esilarante.

Un film difficile da classificare, strabordante, probabilmente non del tutto riuscito, fantascientificamente non certo rigoroso, ma che mantiene dall’inizio alla fine la stessa limpidezza e profondità degli occhi ingenui di Enn.

Voto: 3,5/5

lunedì 19 giugno 2017

Le redoutable

Ed eccomi alla tradizionale rassegna Da Cannes a Roma, che porta in anteprima nei cinema romani (e quest'anno anche in regione) una selezione dei film presentati all'ultimo festival di Cannes.

Il mio primo film di quest'anno è Le redoutable, il nuovo lavoro di Michel Hazanavicius, di cui personalmente avevo molto apprezzato The artist. Dunque scelgo il film a scatola quasi chiusa, confidando nel nome del regista.

Le redoutable racconta una fase della vita del regista francese Jean-Luc Godard (magistralmente interpretato da Louis Garrel), per la precisione il periodo che va dal momento in cui sta girando il film La chinoise di cui è interprete la giovanissima Anne Wiazemsky (Stacy Martin), che diventerà sua moglie, alla fondazione del Gruppo Dziga Vertov. Il tutto guardato dagli occhi di Anne, autrice del libro autobiografico Un an après da cui è tratta la sceneggiatura del film.

Il titolo del film fa riferimento al nome del sottomarino nucleare francese che nel 1967 ebbe il battesimo del mare alla presenza del generale De Gaulle e di cui Godard e la moglie sentono parlare un giorno alla radio. La frase con cui si conclude il servizio radiofonico "Ainsi va la vie à bord du Redoutable" diventerà per la coppia una specie di messaggio in codice che i due amanti si lanceranno in momenti topici della loro relazione.

Come al solito, mi sento completamente impreparata a un film di questo tipo, da cui trasudano linguaggio meta cinematografico, cinefilia e uso ironico del mezzo. Conosco Godard solo di nome - anche se so che è l'iniziatore nonché il maggior interprete della Nouvelle Vague francese - e dei suoi film conosco solo Fino all'ultimo respiro (A bout de souffle) che pure non ho visto.

Mi dico che i veri intenditori avrebbero più elementi di me per cogliere i riferimenti, il gioco con lo spettatore e l'ironia del regista. Ma al contempo man mano che il film si dispiega davanti ai miei occhi mi rendo conto che in fondo anche la naiveté con cui mi ci accosto può essere un punto di forza, in quanto mi sottrae all'inevitabile rispetto quasi reverenziale di cui chi conosce l'opera di Godard è certamente vittima e il probabile senso di fastidio rispetto alla quasi "ridicolizzazione" del protagonista, che forse non rende merito all'artista.

Jean-Luc viene rappresentato come un regista dall'ego smisurato, anticonformista a prescindere, un po' misantropo, sicuro di sé, ma al contempo fragile, testardo e rigido, ma insieme manipolabile, a tratti ingenuo fino appunto a sfiorare il ridicolo.

Anne si innamora del Godard che ha cambiato il cinema, ma si trova di fronte un uomo affascinato dal maoismo e dagli ideali della rivoluzione, che a un certo punto gli sembrano sul punto di realizzarsi durante le manifestazioni imponenti del maggio francese cui parteciperà in prima persona. Jean-Luc non avrà però in questa circostanza la lucidità per accorgersi che la rivoluzione non porterà da nessuna parte se non al punto di partenza, e andrà avanti cocciutamente per la sua strada alienandosi amici e colleghi del mondo del cinema per inseguire il sogno di un cinema realizzato in maniera comunitaria e collettiva, democraticamente e senza gerarchie. In questa parabola si alienerà anche l'amore di sua moglie Anne, da cui è profondamente dipendente sul piano emotivo.

Ma il racconto di Hazanavicius non è una ricostruzione seriosa e drammatica, bensì una specie di commedia frizzante, piena di invenzioni e di giochi di pura cinematografia, in parte ispirati allo stesso cinema di Godard (uso del bianco e nero alternato al colore, uso della pellicola in negativo, battute pronunciate rivolgendosi alla camera), cui si aggiungono esilaranti momenti di metacinematografia (come nella scena in macchina in cui si parla male del Festival di Cannes in un film in competizione per la Palma d'oro, o quando il protagonista dice di essere talmente lontano da "Godard" da sentirsi un attore che lo interpreta, o quando in un dialogo con la moglie, mentre sono nudi prima di andare a dormire, i due parlano delle inutili scene di nudo di alcuni film ecc.).

L'immagine di Godard che ne viene fuori è macchiettistica (e volutamente tale per alcune scelte di regia e sceneggiatura, ad esempio la situazione ricorrente per cui ogni volta che Godard partecipa a una manifestazione cade o viene travolto e gli si rompono gli occhiali, nonché l'articolazione del film in capitoli introdotti da titoli che sono in parte riletture di titoli di suoi film); e certamente non rende merito alla complessità e alla molteplicità delle sfaccettature di un personaggio del mondo del cinema che non si può ridurre a quest'unica dimensione.

Ma d'altronde fin dal principio è chiaro che questo film parla di un periodo della sua vita e lo fa da un punto di vista molto particolare, quello della moglie da cui si è poi separato.

Quello di Hazanavicius è un film irriverente e anticonformista, o forse - strizzando l'occhio allo spettatore con il suo tono ludico e le sue invenzioni - è in realtà un film molto meno dirompente e originale di quanto non voglia apparire. Ma non è forse questo il medesimo paradosso che il regista vuole mettere in evidenza del suo protagonista?

Voto: 4/5

venerdì 16 giugno 2017

Somewhere only we know

Il weekend dal 9 all'11 giugno è stato dedicato dalla Casa del Cinema alla rassegna China-International Co-Production Film Screenings in Italy, un evento dedicato al cinema cinese e sostenuto dall'Ambasciata Cinese a Roma.

Nell'ambito della rassegna vengono proiettati film difficilmente visibili in Italia, ad eccezione di Al di là delle montagne di Jia Zhangke che aveva raggiunto il circuito cinematografico italiano un po' di tempo fa.

Scegliamo di andare a vedere una commedia romantica, perché il genere è talmente fuori standard per il cinema cinese (o almeno così appare a noi che lo conosciamo poco) che riteniamo interessante fare questo tentativo.

Somewhere only we know è la storia di Jin Tian (Wang Likun), una giovane donna cinese che, dopo essere stata lasciata dal fidanzato e aver perso la nonna, decide di trasferirsi per un periodo a vivere a Praga, dove la nonna aveva vissuto per un lungo periodo della sua vita. Qui incontra Peng Zeyang (Kris Wu), un giovane violoncellista e padre della piccola Ni Ni. Tra i due nasce un sentimento d'amore che si intreccia con la storia della nonna sulle cui tracce Jin Tian si è messa dopo essere entrata in possesso di una lettera a lei indirizzata da un tale dottor Novak nel 1979.

Il film si muove così tra commedia romantica contemporanea e melodrammone sentimentale a sfondo storico. La cosa più interessante non è la storia in sé, ma il curioso mix tra alcuni stilemi tipici della sensibilità e della cultura cinese e la forza dei modelli occidentali (europei ed americani), in particolare musiche, ambientazioni, stereotipi, tradizioni.

La regista, Xu Jinglei, che interpreta anche la nonna della protagonista da giovane, dimostra non solo di saper pienamente riprodurre i gusti tipici del cinema occidentale, ma anche di saper mescolare input culturali diversi in modo fluido e intellegibile.

Definirei il risultato interessante più che qualitativamente alto dal punto di vista cinematografico.

In questo caso il valore aggiunto è la possibilità di poter accedere a una cinematografia che di solito non arriva nelle nostre sale, nonché qualche sorriso strappato dalla presenza di sottotitoli probabilmente realizzati un po' in fretta per l'occasione e che dunque contengono alcune ingenuità e qualche divertente errore.

Voto: 3/5

mercoledì 14 giugno 2017

La musica è pericolosa / Nicola Piovani. Teatro Argentina, 9 giugno 2017

Alla proposta di andare a vedere al Teatro Argentina lo spettacolo La musica è pericolosa di Nicola Piovani avrei detto normalmente di no, ma visto che il prezzo del biglietto è veramente popolare mi dico che forse ne può valere la pena.

E così eccomi nella balconata di platea per questo concerto che sostanzialmente è un'antologia della carriera pluridecennale del musicista romano, famoso soprattutto come compositore di musiche per film.

Sul palco insieme a Piovani ci sono Rossano Baldini (tastiere, fisarmonica), Marina Cesari (sax, clarinetto), Pasquale Filastò (violoncello, chitarra, mandoloncello), Ivan Gambini (batteria, percussioni) e Marco Loddo (contrabbasso).

Ma chiamarlo concerto forse è troppo riduttivo, perché il musicista introduce ogni parte di esso con un monologo, diciamo una conversazione con il pubblico, in cui ci racconta gli antefatti, gli aneddoti, le occasioni, le motivazioni che hanno originato i brani e le canzoni che si appresta ad eseguire.

Si comincia con la storia del suo rapporto con Fellini, si passa poi ai brani ispirati alla mitologia, fino ad arrivare alle lunghe collaborazioni con Vincenzo Cerami e Roberto Benigni.

Intanto sullo sfondo scorrono le locandine e le immagini di scena dei film per i quali le musiche sono state utilizzate e i disegni che Milo Manara ha appositamente realizzato per questo spettacolo.

Nel suo complesso si tratta di un'ora e mezza di spettacolo musicale gradevole e il pubblico risponde con affetto al punto che il musicista concede diversi bis.

Personalmente, non posso dire che sia il genere di spettacolo e di musica che suscita in me grandi entusiasmi. Il tono autocelebrativo e autocompiaciuto dello spettacolo (che pure è comprensibile e anche giustificato per un musicista come Piovani, insignito di numerosissimi premi), unito a una musica un po' monocorde per un verso e fortemente popolare per l'altro, fanno fatica a conquistarmi e a stimolarmi una vera partecipazione, che non sia il ripetersi ossessivo nel mio cervello di alcune melodie famosissime come ad esempio quella de La vita è bella.

Votro: 3/5

lunedì 12 giugno 2017

I am not your negro

Dopo i commenti entusiastici di diversi amici e le varie occasioni mancate, finalmente riesco a cogliere al volo l'opportunità di vedere questo film al Detour (un piccolo cineclub in via Urbana in cui in 15 anni romani non ero mai stata).

I am not your negro è un'operazione cinematografica piuttosto complessa. Il regista Raoul Peck ha deciso infatti di portare sullo schermo - dopo averne acquisito i diritti - il manoscritto incompleto e non pubblicato, dal titolo Remember this house, di James Baldwin.

Cominciamo dal principio: io arrivo al cinema senza neanche sapere chi è James Baldwin, uno scrittore statunitense di colore morto nel 1987, anche se devo dire che il suo viso mi dice qualcosa ed è di quei visi che certamente non si dimenticano.

Il regista affida alla voce di Samuel L. Jackson l'interpretazione dei passi del libro e tutto quello che è attribuibile a James Baldwin e che non si è tramandato sotto forma di registrazione audio o audio video.

Il manoscritto è una specie di riflessione intellettuale profonda sulla questione dei neri d'America, tema che aveva appassionato Baldwin per tutta la vita e su cui si era espresso più volte in occasione di dibattiti televisivi e lezioni universitarie, di cui il film mostra alcune sequenze particolarmente significative.

Il manoscritto di Baldwin prendeva spunto da tre figure centrali nella lunga battaglia politica dei neri per la parità dei diritti, Medgar Evers, Malcom X e Martin Luther King, persone che Baldwin aveva conosciuto personalmente e di cui mette in evidenza le differenze, anche nella strategia politica prescelta.

Ma la riflessione di Baldwin ha qualcosa di profondamente dirompente e originale rispetto a quello che abbiamo sentito sin qui sull'argomento. Infatti, lo scrittore, che aveva vissuto a lungo a Parigi prima di rientrare in America per partecipare al movimento per i diritti civili, considera il razzismo verso i neri una costruzione sociale - basata su un presupposto inesistente - necessaria all'America per la definizione della propria identità culturale e delle proprie dinamiche di potere.

Baldwin sostiene che la contrapposizione tra neri e bianchi sia strutturale e quasi insuperabile per la cultura americana, e il regista rafforza questa convinzione riportandoci con le immagini al presente e al recente passato che hanno dimostrato quanto tale ferita sia ancora totalmente aperta in un paese apparentemente basato sulla democrazia e l'uguaglianza dei cittadini.

Utilizzando spezzoni di film che hanno fatto la storia della cinematografia americana e hanno costruito l'immaginario del popolo americano, Baldwin e attraverso di lui Peck mettono in evidenza come - anche in alcuni lavori che in teoria dovevano sancire la condanna del razzismo e aprire la società all'integrazione, come ad esempio il famosissimo Indovina chi viene a cena? - in realtà il punto di vista è sempre e totalmente della componente bianca della società che dunque decide in che modo rappresentare e che spazio dare all'altro, al diverso, e che è sua facoltà accettare nel proprio mondo.

Personalmente, l'ho trovato un film spiazzante e proprio per questo di grande impatto. Perché i presunti intellettuali occidentali emancipati pensano di sapere tutto della questione razziale americana, e invece è evidente dalla visione di questo film che è difficile se non impossibile assumere il punto di vista di un nero americano per chi non appartiene a tale gruppo.

Il punto di vista di Baldwin è fortemente radicale e quasi disturbante per chi legge o ascolta, e certamente riflette l'esasperazione di un uomo che si è sentito manipolato, preso in giro e umiliato da una cultura che professa dei valori che applica solo a una parte dei suoi cittadini. La sua è una critica potente alla società americana nel suo complesso che mostra tutta la debolezza e la fragilità che la caratterizzano nel momento in cui è costantemente alla ricerca di un altro da sé, un diverso, un inferiore da cancellare, distruggere, colonizzare.

Personalmente devo ringraziare Raoul Peck per questa operazione cinematografica che non solo mi ha messo di fronte alla mia ignoranza e mi ha fatto conoscere un personaggio incredibile come Baldwin, ma ha portato alla luce la ristrettezza dei nostri punti di vista anche quando pensiamo di avere la mente aperta.

Voto: 4/5