giovedì 28 maggio 2015

Youth - La giovinezza

Dopo che un regista vince un premio così importante e al contempo così poco amato dall'intellighenzia radical chic italiana come l'Oscar per il miglior film straniero, il ritorno sul grande schermo è sempre una scommessa. E bene ha fatto Sorrentino a non far aspettare troppo il suo pubblico di sostenitori e detrattori con un nuovo lavoro, evitando il lievitare delle aspettative.

E così eccolo in sala con questo nuovo lavoro, Youth - La giovinezza, per il quale chiama a raccolta un cast internazionale di primo piano in un'ambientazione originale.

Protagonisti sono Fred (Michael Caine), ex compositore e direttore d'orchestra, e Mick (Harvey Keitel), regista famoso che sta scrivendo, insieme a un gruppo di sceneggiatori (che - a tratti - ricordano pericolosamente quelli di Boris!), il suo ultimo film che sarà interpretato dalla star Brenda Morel.

I due anziani amici sono ospiti di un grande albergo extra-lusso in mezzo alle montagne svizzere, in un'ambientazione che trasmette al contempo un senso di bellezza e maestosità, ma suggerisce anche una condizione claustrofobica e asettica.

La vita nel grande albergo scorre uguale tutti i giorni, tra passeggiate, trattamenti estetici, bagni nelle piscine termali, colazioni, pranzi, cene e spettacoli serali di dubbia e varia qualità. Intorno a Fred e Mick si muove un'umanità varia che comprende gli altri ospiti (la figlia di Fred lasciata dal marito (Rachel Weisz), l'attore in cerca di ispirazione (Paul Dano), un famoso calciatore sudamericano che gira con la bombola dell'ossigeno, una anziana e regale coppia che non spiccica una parola, il monaco buddista), nonché il personale dell'albergo (la giovane massaggiatrice che ama ballare musica pop davanti alla tv, la escort bambina che arriva ogni sera accompagnata dalla madre).

La cifra sorrentiniana è evidente nel ricercato mix di estetica visiva e musicale che - soprattutto negli ultimi due film - ha trovato la sua massima espressione. La fotografia di Bigazzi è a tratti rarefatta, ai limiti del manierismo, come piace a Sorrentino, ma tale cifra non è gratuita come il trailer lascerebbe immaginare e fa temere. La musica disperata e malinconica di Mark Kozelek (che compare anche in un cameo iniziale interpretando se stesso) è perfetta nel commentare e riempire quei vuoti che volutamente la storia raccontata non intende colmare.

Ho amato molto i primi due terzi del film, frammenti di vite di persone, illuminate brevemente dallo sguardo del regista, parole, osservazioni sul mondo, sensazioni portate allo scoperto per un attimo, ma spesso senza trovare alcuna spiegazione definitiva e senza voler avere pienamente un senso.

A me Sorrentino questo è sembrato volesse raccontarci: la molteplicità delle nostre identità, quello che si vede e quello che resta nascosto, quello che mostriamo e quello che teniamo per noi, quello che sentiamo e quello che riusciamo a esprimere, quello che agiamo e quello che da cui veniamo agiti, quello che interpretiamo e quello che ci scorre dentro. Ma anche il consesso umano che - anche nelle sue relazioni più forti e più intime - si configura come un pallido compromesso della nostra complessità, e al contempo l'unica possibile occasione che abbiamo per scoprire l'immagine di noi e degli altri che si rivela solo al completamento del puzzle.

Poi però arriva in scena Brenda Morel (una Jane Fonda quasi inossidabile) e tutto - da quello stato rarefatto, frammentato, scomposto in cui si trovava - rapidamente precipita, svelando verità, determinando scelte e rompendo in qualche modo la condizione di sospensione. E da lì in poi ho fatto fatica (un po' come mi era accaduto con This must be the place e in parte anche con La grande bellezza) a mantenere viva la sintonia con Sorrentino e a non percepirne qualche forzatura un po' fastidiosa.

Va però dato atto che la galleria di personaggi maschili dolenti e grotteschi che Sorrentino ha inanellato nei suoi film a partire da L'uomo in più compongono un personale e inconfondibile ritratto umano contemporaneo che - credo - resterà in qualche modo in eredità al cinema italiano e internazionale.

Voto: 3,5/5

martedì 26 maggio 2015

Gli anni al contrario / Nadia Terranova

Gli anni al contrario / Nadia Terranova. Torino: Einaudi, 2015.

Avevo iniziato a leggere Gli anni al contrario con grandi aspettative dopo che A. me l'aveva consigliato essendo anche lei in procinto di leggerlo sulla scia di recensioni entusiastiche.

Ebbene, ci siamo ritrovate dopo qualche settimana - dopo aver finito entrambe di leggere il libro - e abbiamo condiviso tutta la nostra delusione per un libro "senz'anima", come giustamente lo ha definito lei.

E dire che l'inizio mi era sembrato promettente.

Siamo negli anni Settanta e protagonisti sono Aurora, che proviene da una famiglia con un padre di stretta fede fascista e cerca rifugio e libertà nei libri e nello studio, e Giovanni, che invece ha una padre comunista che, per lui che vuole fare la rivoluzione, è troppo conservatore. Aurora e Giovanni si incontrano e si innamorano negli anni dell'università e da lì la loro vita attraverserà anni difficili ("al contrario") sul piano sociale e politico, ma anche personale per due persone che sembrano non voler veramente crescere nonostante le responsabilità che la vita porta con sé.

L'idea è buona, sebbene non del tutto originale, però la sensazione di leggere un resoconto di un'epoca che non appartiene a chi la sta raccontando è molto forte, motivo per cui si avverte e si soffre la mancanza di una reale empatia, di una conoscenza dall'interno, di una partecipazione al mondo di Aurora e Giovanni, che ce li rende estranei e in qualche modo indifferenti.

In più, pur trattandosi di una storia certamente plausibile e probabilmente ispirata a vicende realmente accadute, durante la lettura non ci si riesce a scrollare di dosso la sensazione che la sequenza degli avvenimenti sia più l'espressione di un cliché che di una vita realmente vissuta.

Insomma, per quanto mi riguarda, pur apprezzando l'esperimento e il coraggio letterario di questa giovane scrittrice alla prima prova, avverto forte una mancanza che - nonostante alcuni passaggi molto suggestivi e intensi - non riesce a trasformare la lettura di questo libro in un'esperienza letteraria ed emotiva degna veramente di nota.

Voto: 2,5/5

giovedì 21 maggio 2015

Seconds / Bryan Lee O’Malley

Seconds / Bryan Lee O’Malley; trad. di Mariella Martucci. Milano: Rizzoli Lizard, 2014.

"Basta solo un secondo per cambiare una vita. È per cambiare un secondo che una sola vita non basta".

Questa frase campeggia sulla quarta di copertina dell'edizione italiana del graphic novel di Bryan Lee O' Malley e devo dire che in qualche modo è stata determinante per convincermi a comprarne una copia, oltre alla curiosità per il tipo di disegno che caratterizza questo albo.

Da un punto di vista grafico, come qualcuno ha giustamente fatto notare, quello di O'Malley potrebbe essere definito un fumetto 2.0, ossia un fumetto che cerca soluzioni grafiche nuove, quasi "ipertestuali" nelle connessioni che tenta di costruire tra vignette, pensieri e disegni e per il modo in cui queste componenti vengono messe in relazione.

Il disegno di O'Malley mi pare si ispira al modello cartoon e a quello kawaii, in quanto i personaggi - tutti adulti - vengono rappresentati in maniera piuttosto infantile, con le teste e gli occhioni grandi, e l'espressività a volte esagerata. Sul piano visivo l'effetto è molto gradevole, anche grazie all'uso dei colori saturi e della precisione dei tratti.

Dal punto di vista narrativo, la storia si colloca a metà strada tra realismo e fantasy. Katie - la protagonista - è la chef di un locale che si chiama "Seconds", ma il suo sogno è quello di ristrutturare un edificio - che ha già acquistato - per aprire un locale tutto suo. Nel frattempo la sua vita sociale e sentimentale è complicata e confusa come quella di tutti: è innamorata di Max, ma un episodio del recente passato li ha allontanati, ha una storia con l'aiuto-cuoco, e si barcamena tra amici e colleghi. Fino a quando nel piccolo appartamento dove vive, sopra il Seconds, incontra lo spirito della casa, una strega/fata/folletto dai capelli biondi per mezzo della quale scoprirà la possibilità di poter cambiare alcune scelte della vita e modificare il corso degli eventi.

Questa opportunità inizialmente le apparirà affascinante e le aprirà orizzonti impensati e soluzioni insperate, ma con il passare del tempo prenderà il sopravvento facendole perdere di vista se stessa e i suoi desideri.

Ne viene fuori un risultato non proprio originale, perché non è certo O'Malley che ci dovrà insegnare che la vita è fatta di scelte di cui ognuno di noi si assume responsabilità e conseguenze, consapevole del fatto che scelte diverse avrebbero portato altrove non solo la nostra vita, ma noi stessi, e che è proprio la somma delle nostre scelte a costruire la nostra identità.

Va detto però che il mix tra la modernità e le invenzioni grafiche di questo albo e la simpatia dei personaggi produce un esito divertente e appassionante, che si fa leggere tutto d'un fiato.

Non propriamente il mio genere preferito di graphic novel, ma un'esperienza che valeva la pena di fare.

Voto: 3/5

sabato 16 maggio 2015

Leviathan

Siamo in una regione nel nord della Russia che si affaccia sul mare di Barents, in mezzo a una natura straordinaria e un po' spaventosa, con una bellezza e una maestosità talmente soverchiante da dare l'impressione di inglobare e inghiottire tutti i segni della presenza umana.

Qui, in una casa isolata dal resto del paese abita Kolya (Aleksey Serebryakov), un meccanico con un figlio adolescente e una compagna più giovane di lui che non è la madre del ragazzo. Nelle quasi tre ore di film seguiamo le vicissitudini di quest'uomo - che certo non riesce a risultarci simpatico - sul piano personale e sociale.

Il Comune intende espropriargli casa e terreno, ma Kolya è determinato a impedirlo e per questo si affida a un amico avvocato che viene da Mosca, Dmitriy (Vladimir Vdovichenkov). Quest'ultimo però, mentre mette in campo tutte le armi contro le autorità locali per evitare l'esproprio (compreso il ricatto), inizia una storia clandestina con Lilya, la compagna di Kolya, mentre contestualmente aumenta l'astio del figlio di quest'ultimo nei confronti della matrigna.

Progressivamente le cose precipitano. Il tradimento di Lilya e Dmitriy viene scoperto, l'autorità giudiziaria respinge il ricorso contro l'esproprio, Dmitriy viene minacciato dagli sgherri del sindaco ed è costretto a tornare a Mosca, Lilya muore e Kolya viene accusato del suo omicidio.

Il grande Leviathano hobbesiano stringe la sua morsa intorno a Kolya fino a spazzare via non solo la sua casa, ma anche la sua famiglia e la sua libertà. E niente di riconducibile a un potere divino trascendente sembra essere contemplato in questo scenario, in cui tutto è molto immanente all'umanità e alla terra su cui essa abita.

Kolya affonda in un mondo nel quale la corruzione e la meschinità sono dilaganti e attraversano tutti i poteri costituiti (compresa la chiesa ortodossa) e le aggregazioni umane. Mentre intorno la natura incurante ci riempie gli occhi e la mente, in un contrasto che fa quasi male al cuore.

I critici cinematografici parlano di riferimenti alla grande letteratura russa, che io sinceramente - nella mia crassa ignoranza - non sono stata assolutamente in grado di cogliere. Certo si respira un pessimismo cosmico, un senso di sconfitta, un'aria di disfatta e di morte che fa sembrare leggere le più disperanti delle storie che possiamo aver letto o visto.

Il tutto all'interno di una regia (quella magistrale di Andrei Zvyagintsev) e di una costruzione narrativa che più russa non si può, in certe forme di lentezza, di ironia e sarcasmo, di prolissità (non ci vengono risparmiate due sentenze lette per intero e l'omelia integrale di un prete ortodosso) per le quali bisogna andare al cinema preparati se si vuole evitare - come la coppia di mezza età seduta qualche fila davanti a noi - di gettare la spugna a metà del film.

Personalmente non l'ho trovato un capolavoro, ma il mix sorprendente di desolazione umana e grandiosità paesaggistica mi resterà a lungo negli occhi.

Voto: 3/5

mercoledì 13 maggio 2015

Anello dei colli euganei in bicicletta

Per cominciare a verificare se i lunghi mesi invernali di attività fisica (mai come quest'anno!) hanno prodotto qualche esito positivo anche per la bicicletta e per prepararsi al tradizionale viaggio estivo, io, C. e S. abbiamo organizzato un breve weekend in bicicletta, facile facile dal punto di vista organizzativo.

Partenza direttamente da Padova con le nostre biciclette, perfettamente allestite per l'occasione e con al seguito i nostri zainetti per una notte fuori. Il percorso si svolge quasi tutto in piano, in buona parte su asfalto oppure sullo sterrato degli argini dei fiumi e canali che affianchiamo.

Ovviamente la nostra partenza non è esattamente mattiniera (tra una cosa e un'altra si sono fatte le 10,30), quindi quando arriviamo al Castello del Catajo, prima di Monselice, ci rendiamo conto che non abbiamo tempo a sufficienza per fare la visita guidata. Quindi facciamo qualche foto e ripartiamo.

Dopo Monselice - e per consolarci della mancata visita al Catajo - ci fermiamo a visitare Villa Emo (della famiglia Emo-Capodilista), dove la signora Giuseppina in persona ci fa i biglietti e ci racconta i problemi che ha avuto nel sistemare il giardino dopo il brutto tempo dell'inverno. La villa non si può visitare all'interno, ma il giardino è davvero bello, con due peschiere ai due lati, il giardino all'italiana davanti, il tunnel verde dietro la villa, il boschetto, i roseti e persino due piccoli cimiteri degli animali di casa.

Felici di questa sosta, ripartiamo e per ora di pranzo siamo a Este, dove ci fermiamo a mangiare i nostri buonissimi panini col prosciutto. Il tempo per il momento ci sta graziando: è coperto, ma nemmeno una goccia di pioggia. Dopo un giro nelle strade di Este procediamo verso il monte Lozzo, che abbiamo deciso di aggirare abbandonando per un po' la pista ciclabile E2.

Il giro intorno al monte Lozzo ci consente una sosta e una breve visita al castello di Valbona, dove ci riposiamo un po' nell'ampio giardino e ammiriamo gli splendidi pavoni nella voliera scoperta da C. Completiamo dunque il giro del monte Lozzo e - grazie ai supporti tecnologici di cui è fornita C. e ai suggerimenti della app MyTrails - tagliamo per un improbabile sterrato e entriamo nei colli attraverso Fontanafredda. Qui la strada comincia a salire, prima gradualmente, poi in maniera sempre più decisa, e a un certo punto piove pure... Teniamo duro perché non siamo lontane, ma tutto questo allenamento non sembra aver prodotto grandi risultati!! Ormai a poche centinaia di metri dalla nostra destinazione siamo con i piedi a terra che spingiamo le biciclette. Ed eccoci arrivati all'agriturismo Podere Villa Alessi in località Faedo (appartenente al comune di Cinto Euganeo), dove abbiamo prenotato la nostra stanza tripla per la notte. Il posto lì per lì ci appare buffo e anche la nostra stanza è davvero curiosa con i tre letti su tre pareti e tante finestre intorno... ;-)

Però abbiamo un bagno privato e al piano terra c'è la cucina di uso comune fornita di qualunque cosa.

Il tempo di una doccia e di un cambio di abiti e siamo pronte per una breve passeggiata che ci permetta di meritarci la nostra cena. I colli qui sono bellissimi, verdissimi e poco urbanizzati. Un vero godimento per gli occhi e per la mente.

Tornate all'agriturismo cominciamo a renderci conto di essere capitate in un vero e proprio paradiso per il bere bene. Ivano Giacomin (il gestore dell'agriturismo, persona squisita, esperto conoscitore dei colli, nonché di cibo e vini del territorio) ci fa iniziare la nostra serata con un ottimo Serprino (la versione dei colli del prosecco) bevuto all'aperto. Ci sediamo poi in sala dove inizia la nostra cena luculliana con antipasto, due assaggi di primi, un secondo di carne, contorni, dolci fatti in casa e tisana finale. Il tutto innaffiato da una degustazione di 8 tipi di vino prodotti tutti dall'azienda agrituristica. E alla fine nemmeno un filo di mal di testa. Dopo la cena Ivano ci fa una visita guidata in cui illustrandoci alcuni dipinti sulle pareti ci racconta la storia dei colli euganei dal punto di vista geologico, agricolo e sociale. Che meraviglia!

Dopo il meritato riposo, eccoci in piedi (sempre non prestissimo!). Pensiamo di doverci preparare da sole la colazione nella cucina comune, e invece Ivano è già in sala che ci attende con un tavolo pieno di cornetti, dolci e uova freschissime delle sue galline. Il tempo di fare colazione, di pagare (solo 135 euro in tre per mangiare, bere e dormire), di comprare un pezzo di ottima soppressa ed eccoci di nuovo in sella.

Torniamo sui nostri passi e riprendiamo l'anello, facendo una prima tappa nel bel paesello di Vo' Vecchio dove prendiamo un caffè in un bar ospitato in un bel palazzo con corte.

Poi dopo essere passate per Bastia, tagliamo - sempre seguendo il percorso cicloturistico E2 - un po' all'interno dove ci inoltriamo tra la vegetazione dei colli e su morbide colline. Qualche salitina affrontata questa volta senza particolari difficoltà, poi passiamo accanto a un campo da golf e poi ridiscendiamo in pianura. Piccola deviazione per seguire le indicazioni di un'altra villa e poi in men che non si dica siamo all'ora di pranzo dalle parti di Villa dei Vescovi, dove arriviamo in salita in bici, salvo poi fermarci alla trattoria Liviana a mangiare dei bigoli all'anatra e un galletto al forno (!).

Non proprio leggere, ci muoviamo alla volta di Padova e, dopo aver percorso il cosiddetto sentiero della sobrietà (!) che ci permette una breve sosta all'Abbazia di Praglia,  tristemente ci lasciamo alle spalle il riposante e bel paesaggio dei colli, per ritrovare prima gli argini e poi la città che ci accoglie con il tipico caos del sabato pomeriggio :-(

Purtroppo la nostra piccola gita è finita! Ma siamo molto soddisfatte! Anche se forse non prontissime fisicamente ad affrontare il lungo viaggio estivo!

sabato 9 maggio 2015

Mi chiamo Maya

Come sanno tutti quelli che leggono il mio blog, tendo ad essere piuttosto cauta nei giudizi e difficilmente grido al capolavoro, né mi piace stroncare quello che vedo o leggo. Il mio amico M. mi prende ormai in giro perché sostiene che l’80% dei miei post portano il voto 3 e ogni volta si lamenta perché secondo lui dovrei esprimermi in termini più netti. Forse ha ragione lui, ma io sono fatta così, soprattutto nella manifestazione pubblica delle mie opinioni e dei miei giudizi. E poi il voto – che pure è un modo sintetico efficacissimo per esprimere il proprio giudizio – mi mette sempre in difficoltà e dunque è giusto che chi non si prende anche la briga di leggere quello che scrivo non sia aiutato nella scelta dai voti che metto. In un post di qualche tempo fa, Il perché di tutto sommato avevo anche spiegato che le stroncature di solito nel mio blog non ci sono perché le cose che non mi piacciono spesso ne restano fuori.

Insomma tutta questa lunga premessa per dire che il voto che ho messo a questo film è uno dei più bassi che incontrerete nel mio blog. E vi assicuro che mi è costato tantissimo scriverlo lì in fondo a questa pagina; e anzi – vi dirò – che se dovessi mettere un voto per tutto ciò che si è mosso intorno a questo film gli darei anche 4.

Provo a spiegarmi. Non credo che avrei deciso di andare a vedere Mi chiamo Maya se non me l’avesse consigliato S., consiglio tra l’altro non dovuto a una visione in anteprima dello stesso ma all’affetto verso un amico coinvolto nella sua realizzazione. E vabbè, mi dico, sosteniamo questo povero cinema italiano e i giovani (e nemmeno più tanto giovani) che faticosamente tentano di trovare una strada in questo mondo ultracompetitivo. Leggo la trama e – nonostante le recensioni non proprio entusiasmanti – trovo che possa essere interessante. Convinco L. a venire con me a vederlo e lei a sua volta convince S. Alla fine saremo solo in tre nell’enorme Sala 1 del Cinema Quattro Fontane (probabilmente – me lo auguro – un po’ più di gente arriverà per lo spettacolo successivo, a cui saranno presenti anche il regista e il cast).

Devo dire che la situazione appare ridicola fin dal principio e man mano che il tempo passa diventa sempre più divertente. Sembra di stare in un salotto di casa enorme col maxischermo, cosicché a poco a poco le inibizioni calano e tutt’e tre cominciamo a commentare ad alta voce come in una serata tra amiche un po’ sceme…

Ma insomma, veniamo al film, ché non gli voglio fare troppo torto…

Mi chiamo Maya racconta la storia di Niki (Matilda Lutz), una ragazza sedicenne, che ha una sorella più piccola, Alice (Melissa Monti), con cui condivide (pur non essendo figlia dello stesso padre) una madre piena di vitalità e di energia. Questa però muore all’improvviso in un incidente stradale, cosicché le due ragazze vengono affidate ai servizi sociali, in particolare alla giovane assistente sociale Cecilia (una improbabile, ma sempre bellissima Valeria Solarino, con gonnellone, mocassini e occhialoni).

Niki e Alice scappano e inizia così una specie di viaggio picaresco attraverso una Roma un po’ suburbana ed estrema. Prima il contatto con una compagna di scuola, vera borgatara che balla sul cubo in discoteca con la parrucca azzurra e va in giro con Niki, Alice e le sue amiche con la grande limousine rosa, regalo che qualcuno ha fatto a una sua amica. Poi l’incontro con un’annoiata ragazza di buona famiglia, generosa e viziata, che organizza feste per sballarsi a casa sua mentre i genitori sono via per lavoro. Poi la conoscenza di Marc (Giovanni Anzaldo), un giovane gentile che fa l’artista di strada, ma si guadagna da vivere lavorando come cameriere (al quale Niki si presenta come Maya e con il quale finisce a letto), infine l’avventura - che si conclude con bacio lesbo e vomito da eccesso di alcol (che avevate capito, eh?) - nei bassifondi romani con una giovane dark depressa che fa piercing e tatuaggi. La fuga di Niki - che poi è principalmente una fuga da se stessa - continuerà fino all’incontro e al riconoscimento della vera eredità della madre nella propria vita, e dunque con l’accettazione del proprio destino.

Cos’è che non va in questo film?
L’idea di raccontare la vita degli adolescenti nelle grandi metropoli è interessante (e il film comincia con una scritta in sovraimpressione che ci ricorda che esso è stato realizzato a partire dai risultati di una ricerca sociologica in questo senso), la regia di Tommaso Agnese (anche co-sceneggiatore) è attenta e dimostra mestiere, la fotografia è a tratti molto bella e riesce a offrire anche scorci inediti di una delle città tra le più rappresentate sul grande schermo.

Non reggono però l’impianto narrativo, troppo meccanico e con passaggi troppo bruschi tra i mondi così diversi attraversati da Niki, la sceneggiatura, semplicistica e a tratti decisamente poco realistica (con qualche punta quasi esilarante!), la recitazione, che appare in alcuni momenti piuttosto amatoriale, i simboli utilizzati per rappresentare il percorso psicologico di Niki, davvero troppo banali (il mare  e il cavallo: c'è persino una scena che ricorda quella di una famosa pubblicità di un famoso bagnoschiuma). E – quando il film finisce – non capiamo cosa ci ha trasmesso questa storia e Niki resta un personaggio poco conoscibile esattamente come all’inizio della visione.

Insomma, pur apprezzando le intenzioni, faccio fatica a dire che Mi chiamo Maya sia un film riuscito. La serata però – e nonostante tutto – lo è stata sicuramente.

Voto: 1,5/5


mercoledì 6 maggio 2015

L'energia della vergogna / Fazil' Iskander

L'energia della vergogna / Fazil' Iskander; prefazione di Moni Ovadia; trad. di Emanuela Guercetti. Firenze: Salani, 2013.

Leggere L'energia della vergogna di Fazil' Iskander è uno di quei casi in cui si avverte profondamente la distanza cronologica e soprattutto culturale rispetto al mondo narrato dall'autore, ma al contempo si riconoscono i sentimenti universali di un bambino che deve fare i conti con le piccole e grandi sfide quotidiane nel non facile percorso di avvicinamento all'età adulta.

In questa fase complessa della vita, il piccolo protagonista di questo romanzo ha un rapporto ambivalente con la vergogna, sentimento che più di altri lo mette in difficoltà e al contempo lo rende arguto nel cercare soluzioni e vie di uscita, producendo effetti talvolta di grande ironia se non addirittura esilaranti.

Ed è la lente un po' particolare di questo giovanissimo protagonista che filtra il clima del periodo precedente la seconda guerra mondiale in una periferia (l'Abcasia, una regione affacciata sul mar Nero) della Russia staliniana.

Così, situazioni ed episodi che si fanno via via più drammatici vengono in qualche modo riletti dall'interno dell'orizzonte ristretto del cortile nel quale abita il protagonista e - pur rivelando la loro portata - vengono trattati come fatti quasi privati, anche perché il tono della scrittura è colloquiale, pieno di digressioni, di intermezzi e di racconti di piccole esperienze.

Alla fine ci si ritrova a pensare che si sia trattato di una lettura leggera, nonostante la portata dei temi affrontati. E forse sta proprio qui la forza di Iskander.

Voto: 3/5

lunedì 4 maggio 2015

Il muretto / Céline Fraipont e Pierre Bailly

Il muretto / Céline Fraipont e Pierre Bailly. Torino: Eris edizioni, 2014.

Il fumetto - come si sa - ha una vera e propria ossessione per l'età dell'adolescenza. E di solito guarda a questo periodo della vita con uno sguardo drammatico, alla ricerca di quegli eventi e stati d'animo che hanno in qualche modo cambiato la vita di ciascuno e che hanno segnato il passaggio alla vita adulta. Per lo stesso meccanismo, l'adolescenza viene rappresentata spesso anche come un'età mitica, quella nella quale si sono formate le nostre passioni, i nostri interessi e in cui affonda le radici la nostra personalità.

Per tutti questi motivi, si ha la sensazione che i fumettisti ritengano che l'atto stesso della trasformazione dell'adolescenza in disegni e nuvole rappresenti un necessario passaggio catartico, finalizzato alla comprensione e al superamento definitivo di quell'età della vita.

Questo è quanto accade anche nel graphic novel disegnato da Pierre Bailly in un bianco e nero essenziale e affascinante e sceneggiato da Céline Fraipont per raccontare la storia di Rosie, una ragazza adolescente che - in un'età già difficile e delicata - si trova a fare i conti con l'abbandono. Sua madre è andata a vivere a Dubai con il nuovo compagno e le manda lettere che lei neanche apre; il padre lavora spesso lontano da casa. E così Rosie si ritrova spesso da sola nella sua grande casa, diserta sempre di più la scuola e comincia a bere. Perde così anche l'amica del cuore, che nel frattempo esce con un ragazzo e i cui genitori non vogliono che frequenti Rosie.

Siamo alla fine degli anni Ottanta. E di quegli anni ci sono tutte le componenti essenziali: il muretto (richiamato nel titolo), dove si trascorre il tempo e si fanno incontri, la musica punk e dark dei dischi in vinile, la droga spacciata per strada.

Nello stato di malessere e di vuoto affettivo in cui Rosie si perde (e vorrebbe scomparire come fa quando si immerge completamente nell'acqua della vasca da bagno) e di fronte a un mondo adulto distante, assente o morbosamente interessato, la ragazza incontra Jo, un giovane che vive da solo in una casetta lungo la ferrovia, non fa domande, ama la musica e si mantiene spacciando droga, compiendo piccoli furti o adottando espedienti vari insieme al suo gruppo di amici. Jo però è generoso e tenero, accoglie senza pretendere, è presente senza essere invadente, ama senza chiedere nulla in cambio, e con lui Rosie si sente al sicuro e capita.

È grazie a Jo che Rosie riacquisterà fiducia in se stessa e ritroverà quel percorso individuale che le consentirà di tornare a dare un senso al mondo circostante, anche ad affrontare gli abbandoni e le prove che la vita ci riserva, con uno spirito rinnovato e con uno sguardo capace di vedere la bellezza delle cose, anche in mezzo alla fatica e al dolore.

Una cartolina postale nell'ultima pagina ci sorprende e ci spinge a condividere i nostri ricordi emotivi con chi vogliamo, ma non nel modo effimero e virtuale della rete, bensì nel modo antico che passava attraverso la fisicità.

Voto: 3,5/5