Siamo in una regione nel nord della Russia che si affaccia sul mare di Barents, in mezzo a una natura straordinaria e un po' spaventosa, con una bellezza e una maestosità talmente soverchiante da dare l'impressione di inglobare e inghiottire tutti i segni della presenza umana.
Qui, in una casa isolata dal resto del paese abita Kolya (Aleksey Serebryakov), un meccanico con un figlio adolescente e una compagna più giovane di lui che non è la madre del ragazzo. Nelle quasi tre ore di film seguiamo le vicissitudini di quest'uomo - che certo non riesce a risultarci simpatico - sul piano personale e sociale.
Il Comune intende espropriargli casa e terreno, ma Kolya è determinato a impedirlo e per questo si affida a un amico avvocato che viene da Mosca, Dmitriy (Vladimir Vdovichenkov). Quest'ultimo però, mentre mette in campo tutte le armi contro le autorità locali per evitare l'esproprio (compreso il ricatto), inizia una storia clandestina con Lilya, la compagna di Kolya, mentre contestualmente aumenta l'astio del figlio di quest'ultimo nei confronti della matrigna.
Progressivamente le cose precipitano. Il tradimento di Lilya e Dmitriy viene scoperto, l'autorità giudiziaria respinge il ricorso contro l'esproprio, Dmitriy viene minacciato dagli sgherri del sindaco ed è costretto a tornare a Mosca, Lilya muore e Kolya viene accusato del suo omicidio.
Il grande Leviathano hobbesiano stringe la sua morsa intorno a Kolya fino a spazzare via non solo la sua casa, ma anche la sua famiglia e la sua libertà. E niente di riconducibile a un potere divino trascendente sembra essere contemplato in questo scenario, in cui tutto è molto immanente all'umanità e alla terra su cui essa abita.
Kolya affonda in un mondo nel quale la corruzione e la meschinità sono dilaganti e attraversano tutti i poteri costituiti (compresa la chiesa ortodossa) e le aggregazioni umane. Mentre intorno la natura incurante ci riempie gli occhi e la mente, in un contrasto che fa quasi male al cuore.
I critici cinematografici parlano di riferimenti alla grande letteratura russa, che io sinceramente - nella mia crassa ignoranza - non sono stata assolutamente in grado di cogliere. Certo si respira un pessimismo cosmico, un senso di sconfitta, un'aria di disfatta e di morte che fa sembrare leggere le più disperanti delle storie che possiamo aver letto o visto.
Il tutto all'interno di una regia (quella magistrale di Andrei Zvyagintsev) e di una costruzione narrativa che più russa non si può, in certe forme di lentezza, di ironia e sarcasmo, di prolissità (non ci vengono risparmiate due sentenze lette per intero e l'omelia integrale di un prete ortodosso) per le quali bisogna andare al cinema preparati se si vuole evitare - come la coppia di mezza età seduta qualche fila davanti a noi - di gettare la spugna a metà del film.
Personalmente non l'ho trovato un capolavoro, ma il mix sorprendente di desolazione umana e grandiosità paesaggistica mi resterà a lungo negli occhi.
Voto: 3/5
sabato 16 maggio 2015
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