domenica 29 dicembre 2013

Open / Andre Agassi


Open: La mia storia / Andre Agassi; trad. di Giuliana Lupi. Torino: Einaudi, 2011.

In questo libro si sono incontrati una storia personale straordinaria, quella di Andre Agassi, e una grandissima empatia che ha consentito al suo biografo, J.R. Moehringer, di tradurre in parole e in immagini questa vicenda. Senza una di queste due componenti il libro non esisterebbe e per questo trovo particolarmente commovente il tributo che Andre riserva al suo personale scrittore nelle ultime pagine del libro, un racconto nel racconto che non fa altro che confermarci quel senso di verità che sembra respirare da ogni pagina dello stesso.

Forse Agassi, quel cattivo ragazzo che si è ritirato dalla scuola in prima liceo, non sarebbe stato in grado di scrivere la sua biografia, certamente non in questo modo, ma ad ogni parola l’opera straordinaria di mimesi realizzata da J.R. ci fa pensare che se avesse saputo farlo l’avrebbe scritta esattamente così.

Andre Agassi appartiene fortemente ai miei ricordi dell’adolescenza e della prima giovinezza. Erano gli anni in cui seguivo moltissimo il tennis. Ero una fan senza riserve di Steffi Graf. Durante le partite decisive degli Slam mi raccoglievo in religioso silenzio di fronte alla tv e seguivo con il fiato sospeso ogni scambio, esplodendo in una gioia incontenibile ad ogni punto vincente e cadendo nella più profonda depressione a seguito degli errori e delle sconfitte più brucianti. Tutto questo di fronte allo sguardo allibito di mia madre.

Ho sempre pensato al tennis come a uno sport di una bellezza e di una crudeltà estreme, uno sport che ti costringe a metterti di fronte a te stesso, alle tue paure, alle tue debolezze come forse nessun altro sport è in grado di fare, perché buona parte delle vittorie e delle sconfitte nascono dalla tenuta o dal crollo psicologico dell’atleta e spesso si decidono anche solo con uno scambio. Ho sempre pensato che nel tennis la gioia di una vittoria non pesi mai veramente quanto il dolore di una sconfitta.

Il tennis maschile l’ho sempre seguito meno; erano gli anni in cui i progressi della tecnica portavano sul campo atleti capaci di un gioco fatto sempre più di potenza piuttosto che di cesello. Ovviamente però ricordo tutti i protagonisti di quelli anni. Il mio preferito era lo svedese Stefan Edberg, modello di leggerezza ed eleganza sul campo, espressione forse di un tennis che andava scomparendo.

E chiaramente mi ricordo l’affacciarsi sulla scena del tennis mondiale di questo ragazzaccio di Las Vegas, Andre Agassi, con il suo straordinario rovescio a due mani (che devo ammettere non mi è mai piaciuto, mentre ho sempre preferito l’eleganza del rovescio a una mano), con i suoi colpi giocati sempre d’anticipo quando la palla ha appena cominciato a risalire dopo aver toccato terra, con i suoi capelli lunghi ossigenati, con le sue tenute improbabili, con i suoi eccessi in campo e fuori dal campo.

Mi ha sempre incuriosito, non l’ho mai amato. Troppo lontano dalla compostezza e dalla dignità sul campo di Steffi Graf, troppo sbruffone e poco rispettoso delle regole del tennis.

E così poi quando a distanza di anni me lo ritrovo sposato con la Graf e padre di due figli sono rimasta veramente sorpresa.

Nella sua bellissima autobiografia, Open, ho finalmente trovato tutte le risposte.

La bellezza di questo libro sta nel fatto che, pur parlando per il 90% di tennis, non è un libro sul tennis. È, invece, l’emozionante romanzo di formazione di un ragazzo fragile che ha impiegato trent’anni a trovare un senso alla propria esistenza. Andre Agassi ci permette di guardare dietro l’apparenza di quello che i giornali e la televisione ci hanno fatto vedere di lui per capire le difficoltà del suo percorso, le sue cadute, i suoi tentativi di rialzarsi, le sue profonde fragilità, il suo essere continuamente in conflitto con se stesso e la propria vita e il suo desiderio di trovare composizione a questa frattura. Ci permette inoltre di guardare le sue sconfitte e le sue vittorie da un altro punto di vista, che non è quello che emerge dal campo, ma quello della vita di una persona che per qualche ora si aggruma su un rettangolo diviso da una rete producendo esiti inattesi oppure prevedibili, ma solo per chi ne possieda il quadro completo.

Ne viene fuori l’immagine di una persona dotata di un cuore grande, di un’istintiva generosità, di una grande empatia con il mondo circostante, ma totalmente sopraffatto dalla vita e da un’emotività quasi ingovernabile, bisognoso di figure paterne capaci di proteggerlo da se stesso.

La storia di Agassi è la storia di chi ha avuto la fortuna di rinascere, o meglio di nascere quella seconda volta che è poi l’unica che conta sul serio. È la storia di chi non ha altro modo di vivere i sentimenti e le emozioni se non in maniera estrema, ma che è stato in grado di riconoscere sulla propria strada chi avrebbe potuto incanalare questa straordinaria energia emotiva in qualcosa di positivo. È la storia di chi deve passare attraverso quasi tutto prima di afferrare se stesso, ma che solo quando trova se stesso sa finalmente cosa vuole veramente.

Il libro di Agassi è coinvolgente e commovente. È diventato per qualche giorno il compagno di ogni istante di libertà, mi ha catturato con la forza della sua verità. E alle ultime pagine non ho potuto fare a meno di versare qualche lacrimuccia.

Da leggere assolutamente. Per chiunque. Anche per chi il tennis lo odia e l’ha sempre odiato. Esattamente come Agassi.

Voto: 4/5

domenica 22 dicembre 2013

Il desiderio di essere come tutti / Francesco Piccolo


Il desiderio di essere come tutti / Francesco Piccolo. Torino: Einaudi, 2013.

Quello di Francesco Piccolo è un libro difficilmente classificabile. Non è un romanzo in senso stretto, non è propriamente un saggio, non è neppure un’autobiografia. È qualcosa di nuovo e originale, un racconto della sinistra italiana negli ultimi quarant’anni, visti attraverso la personale lente di uno che ha vissuto la propria infanzia e giovinezza a Caserta, è diventato comunista durante una partita di calcio, ha creduto nel sogno berlingueriano, poi si è ritrovato a Roma nel ventennio berlusconiano e ha deciso di fare i conti con l’eredità che la sinistra ha lasciato all’Italia.

La prima metà del libro - che si intitola “La vita pura: io e Berlinguer” - è dal mio punto di vista quella più bella ed emozionante. Autoironica, poetica, ispirata. Ci racconta un pezzo della storia personale dell’autore e il suo intrecciarsi con le vicende piccole e grandi del nostro paese: l’epidemia di colera, il terremoto in Campania, la politica di Berlinguer, il tentativo del compromesso storico, il rapimento di Moro e il suo assassinio, la fine delle prospettive di governo della sinistra, l’ascesa di Craxi. Questi sono per l’autore gli anni della formazione come persona e come cittadino, gli anni in cui nella vita di ciascuno si formano le convinzioni, ci si interroga su chi siamo e cosa vogliamo fare di noi stessi, si fanno i conti con la propria inadeguatezza, si confrontano le idealità e le nostre effettive possibilità. Questi sono però anche gli anni in cui anche l’Italia si è guardata allo specchio per decidere in quale direzione andare e la sinistra italiana ha provato a diventare adulta e matura, senza però riuscirci a causa delle contingenze più o meno fortuite che ne hanno investito il percorso.

La seconda parte del libro – che va sotto il titolo “La vita impura: io e Berlusconi – racconta l’età adulta dell’autore che - dopo essere passata attraverso l’allontanamento dalle origini e l’adesione a un modello sociale e culturale solo apparentemente conseguente alla propria storia precedente – approda alla consapevolezza del proprio fallimento ideale e del tradimento dell’etica della responsabilità, che anche in questo caso coincidono con il fallimento di un’intera classe politica e con il tradimento delle promesse di una sinistra che si è fatta sempre più snob e autoreferenziale, lasciando campo aperto a Berlusconi e abbandonando il paese a se stesso.

Nelle pagine di Piccolo è facile riconoscersi, non tanto nelle vicende che racconta e che appartengono a una specifica generazione, quanto nel modo di essere cittadini di questo paese. Francesco Piccolo ci chiama tutti a raccolta, ci mette in discussione, ci costringe a fare autocritica, ci costringe a guardarci allo specchio e a chiederci “ma noi cosa abbiamo fatto per impedire che tutto ciò accadesse?”.

Personalmente non so se le conclusioni dell’autore mi convincono, anzi direi che non mi convincono: forse mi manca il suo incrollabile ottimismo sul fatto che esista una possibilità e che questa possibilità possa essere perseguita per il bene della nostra comunità civile; anzi, dirò di più, a tratti i suoi richiami mi paiono velleitari e per certi versi pericolosi ad una lettura semplicistica.

Però condivido l’urgenza da cui sembra nascere questo libro, ossia ripartire da noi stessi, ciascuno di noi, per comprendere il presente di questo paese e accettare che la sua identità non riguarda solo “gli altri”, perché nessuno può chiamarsi fuori ed ognuno deve riconoscersi la propria parte di responsabilità.

Voto: 3,5/5

martedì 17 dicembre 2013

Storia di chi fugge e di chi resta / Elena Ferrante


Storia di chi fugge e di chi resta / Elena Ferrante. Roma: Edizioni e/o, 2013.

Quando ho finito di leggere questo terzo volume, convinta che quella della Ferrante fosse una trilogia, mi è venuto il panico e non ho potuto fare a meno di pensare: Ditemi che questo non è l’ultimo romanzo della serie!! Ditemi che “Elena Ferrante” ha cambiato idea e ha deciso che in tre volumi la storia di Lila ed Elena non ci poteva stare!!

E lo dico innanzitutto perché come sempre accade per le storie che ci accompagnano a lungo e ci entrano nel cuore è dura vivere senza queste due bellissime figure femminili, non sapere cosa è successo dopo, non accompagnarle fino alla fine nel loro percorso umano.

In secondo luogo lo dico perché questo terzo volume ha chiaramente la struttura di un romanzo di mezzo, cosicché io che mi aspettavo di vedere chiudere il cerchio apertosi quando ne L'amica geniale il figlio di Lila, Gennaro, ormai grande, sta cercando la madre scomparsa e telefona a Elena sono rimasta spiazzata nel non trovare alcuna risposta.

In questo volume mi è un po' mancata Lila, colei che, dopo un centinaio di pagine da un inizio un po’ in sordina, arriva ad illuminare la scena, a sparigliare le carte, a portare la sua personalità dirompente sul palcoscenico della vita di Elena.

Siamo negli anni Settanta, un periodo confuso, in cui le vite individuali finiscono inevitabilmente con lo scontrarsi con le tensioni del mondo circostante. Ed è quanto accade a Elena e Lila, sebbene il rumore del mondo a volte si avverta di più, altre volte di meno, quando le due sono ripiegate sulla propria esistenza.

Certamente si avverte nella storia, nonché nella scrittura, qualche ripetizione, qualche monotonia, il ripetersi dei meccanismi già conosciuti nei romanzi precedenti. Ma è quello che ci accade con gli amici e con le persone a cui vogliamo bene, di riconoscerne le idiosincrasie e le dinamiche interiori, quelle che per quanto si possa crescere e cambiare restano là a segnare quello che siamo e da dove veniamo.

Al centro di questa terza parte della storia di Lila ed Elena in qualche modo c’è di meno il loro rapporto personale, o meglio tale rapporto è mediato da quello che ciascuna di loro ha con le proprie origini, la prima riassorbita nel quartiere sebbene con tutt’altra consapevolezza, la seconda fisicamente sempre più distante ma senza avere del tutto compiuto il suo percorso individuale verso una personalità autonoma e indipendente.

In realtà, come sempre, questo è ciò che appare dalle parole di Elena, visto che tutta la realtà viene filtrata attraverso i suoi occhi e letta attraverso le sue interpretazioni. E così Lila resta un personaggio mitico verso il quale la fascinazione di Elena e la nostra non potrà mai venir meno, mentre Elena ci appare fragile, incompiuta come ognuno di noi si sente.

Comunque per fortuna è in arrivo il quarto e, a questo punto, ultimo volume della serie che racconta di Elena e Lila dagli anni Ottanta a oggi. Così potrò soddisfare la curiosità e l’ansia di sapere cosa ne sarà di Elena che ha fatto una scelta sicuramente densa di conseguenze, qual è il destino del suo nuovo libro, cosa c'è nel futuro di Lila e che ruolo avrà Nino in tutto questo.

Voto: 3,5/5

venerdì 13 dicembre 2013

Elizabeth Morris + Ola Innset, Black Market, Unplugged in Monti, 21 novembre 2013


Ormai sono diventata quasi una habituè di questa rassegna. Il posto mi piace, l'atmosfera è gradevole e divertente e la scelta musicale è perfettamente nelle mie corde.

E così torno anche questo 21 novembre ad ascoltare Elizabeth Morris (cantante degli Allo Darlin') e Ola Innset (cantante dei Making Marks).

Mi ero chiesta come mai questa strana accoppiata e cosa ci facessero questi due ragazzi in tour insieme.

La risposta arriva quasi subito. Appena entro al Black Market vedo i due seduti a un tavolino che bevono una birra e si scambiano tenerezze. Dunque stanno insieme. Poi alla fine del loro concerto ci raccontano che vivono a Firenze per un po' per motivi di studio, e dunque approfittano per girare l'Italia con le loro canzoni.

Il concerto inizia come sempre puntuale e il primo a farci ascoltare alcune canzoni del suo gruppo (nonché una canzone natalizia) è Ola Innset con la sua chitarra. Carino e un po' timido. Ci dice che siccome viene dalla Norvegia ci canterà anche una canzone in norvegese.

Nel frattempo Elizabeth è seduta da una parte del palco con il suo ukulele in mano e scalza.

Poi anche lei è sul palco e i due ci propongono alcuni duetti, a partire dai quali si capisce che, se Ola ci aveva gradevolmente tenuto compagnia, Elizabeth ci conquisterà con la sua voce piena e il suo modo di suonare chitarra e ukulele.

Nella seconda metà del concerto sarà Ola a stare seduto sul palco ad ascoltare mentre tutti noi siamo rapiti dalla voce di Elizabeth.

Il pubblico chiederà un bis e poi anche un tris cui i due si sottrarranno imbarazzati.

Questa volta sono seduta in prima fila e quindi non solo posso fotografare quanto voglio, ma appena il concerto finisce mi catapulto a prendere uno dei poster di Sabrina Gabrielli (mynameisbri) per farmeli autografare da entrambi. Sia Ola che Elisabeth scrivono la loro dedica in italiano (del resto hanno già dato segnali di conoscere discretamente la nostra lingua) e scambiamo due chiacchiere in inglese.

Poi ovviamente una birra non me la toglie nessuno. E per fortuna fuori ha smesso di piovere, perché arrivando ho dovuto parcheggiare il motorino e prendere la metro a causa dello scatenamento degli elementi.

mercoledì 11 dicembre 2013

Le colpe dei padri / Alessandro Perissinotto


Le colpe dei padri / Alessandro Perissinotto. Milano: Piemme, 2013.

Il romanzo di Perissinotto rappresenta un'esperienza di lettura molto originale.

Innanzitutto, perché è difficilmente classificabile dal punto di vista del genere, a metà strada tra il giallo psicologico, il romanzo a sfondo storico-sociale, l'inchiesta giornalistica.

Un altro aspetto particolare riguarda il ruolo dell'autore all'interno del romanzo. Lo scrittore infatti non è nascosto, ma apertamente presente nel racconto, prima in modo un po' criptico, poi rivelandosi poco a poco come colui che ha raccolto le memorie del protagonista Guido Marchisio e che non si limita a riferirle bensì interviene anche per commentare e fare digressioni di carattere personale.

Fortissimo è infine il legame del romanzo con il contesto geografico nel quale è ambientato, la città di Torino, che si può considerare a buon diritto protagonista essa stessa della vicenda.

Nella doppia identità di Guido Marchisio c'è una riflessione che si muove tra passato e presente e che mette a confronto più generazioni, ma anche due facce della stessa città.

La prima metà del romanzo può essere definita a buon diritto avvincente. L’alone di mistero che circonda Ernesto Bolle, la voce straniante del narratore, l’animo inquieto di Guido Marchisio tengono il lettore attaccato alle pagine.

Quando uno dei nodi principali dell’intreccio si scioglie, la tensione inevitabilmente cala e il tono del romanzo cambia, perché l’attenzione si concentra sul percorso interiore – e in parte anche esteriore – che travolge la vita di Guido Marchisio e che lo costringe a fare inevitabilmente i conti con il suo passato.

Questa seconda parte è, dal mio punto di vista, ma forse anche volutamente, più trascinata, forse a rappresentare anche narrativamente la fase discendente della parabola che – sia nel romanzo sia nella vita di Marchisio – aveva visto la fase ascendente nella iniziale condizione di inconsapevolezza e raggiunge il suo climax quando la figura di Ernesto Bolle si definisce.

Operazione interessante quella di Perissinotto, anche se a mio parere non sempre del tutto sintonizzata sulle corde emotive del lettore.

Voto: 3/5

lunedì 9 dicembre 2013

Diario del cattivo papà / Guy Delisle


Diario del cattivo papà / Guy Delisle; trad. di Giovanni Zucca. Milano: Rizzoli Lizard, 2013.

Per chi già conosce la splendida autoironia di Delisle, per chi attraverso i suoi lavori di graphic journalism ha imparato ad apprezzare la sua dimensione umana e familiare, per chi ha già avuto degli assaggi dei suoi rapporti prima col piccolo Louis in Cronache birmane e poi con Louis e Alice in Cronache di Gerusalemme, il nuovo lavoro di Guy Delisle, Diario del cattivo papà, è assolutamente imperdibile.

Si tratta di una serie di episodi che ha come protagonisti il fumettista e i suoi due figli, appunto Louis e Alice, il primo un bimbetto di circa sei anni, la seconda una bimba di circa 3-4 anni.

Gli esiti sono esilaranti, perché mettono in evidenza la difficoltà e la fatica di essere genitori che nel caso di Delisle si traducono in particolare nella fatica di mettersi al loro livello, di prestare loro sempre la necessaria attenzione, di tenere conto del loro percorso di sviluppo, di non togliergli le illusioni, ma anche di coltivarne lo spirito critico mettendoli di fronte alla realtà, pur senza spaventarli.

E così ne viene fuori l'immagine di un papà che nasconde i cereali che ha comprato per se perché scopre che piacciono moltissimo alla sua figlioletta, che va a leggere al bar mentre la sua piccola è in piscina convinta che il papà sia sulle gradinate, che fa scherzi di cattivo gusto al figlio Louis, che fraintende le sue domande sulla penetrazione. E così via.

Tutto questo Delisle lo racconta con grande autoironia, ma anche in fondo con altrettanta tolleranza verso se stesso e quasi compiacimento. Il che non ce lo rende né sgradevole né antipatico, perché chi Delisle lo segue sa che ha un rapporto molto speciale e ravvicinato con i suoi figli, dei quali si è dovuto occupare in alcuni periodi quasi in esclusiva, per via della lontananza della moglie impegnata nelle missioni di Medici senza frontiere.

In sostanza, da questo e dai precedenti lavori viene fuori un Delisle che ama teneramente i suoi figli, ma che non nasconde le debolezze che tutti noi abbiamo e le difficoltà – se non addirittura le crisi di coscienza – che tutti i papà del mondo si trovano ad affrontare. Solo che lui ci passa attraverso e le sdrammatizza attraverso il disegno.

Da regalare a tutti i papà del mondo. E forse ancora di più a tutte le mamme, che certamente si faranno delle grassissime risate alle spalle dei papà.

Voto: 4/5

venerdì 6 dicembre 2013

Robert Capa in Italia 1943-1944. Museo di Roma, 3 ottobre 2013-6 gennaio 2014


È in corso al Museo di Roma (Palazzo Braschi in piazza Navona) una mostra dedicata alle foto scattate da Robert Capa durante lo sbarco degli alleati in Italia, dalla Sicilia ad Anzio.

Si tratta per l’esattezza di 78 foto che con la maestria del grande fotografo ungherese raccontano la situazione dell’Italia nel 1943-44 e le fatiche e le brutture di una guerra lunga e faticosa.

Gli spazi espositivi della mostra si articolano in 4 sale, la prima dedicata alla Sicilia, la seconda alla liberazione del piccolo paese di Troina, la terza a Napoli, la quarta all’arrivo in terra laziale e all’avvicinamento alla capitale attraverso Cassino e Anzio.

L’intensità delle foto di guerra di Capa non ha certo bisogno di commenti. Tutti hanno probabilmente stampate nella mente alcune delle sue fotografie più famose che raccontano – come mai prima di allora – le guerre da vicino.

In queste foto del periodo italiano ci si trovano il suo documentarismo, ossia la sua capacità di raccontare quello che accadeva (nella migliore tradizione del fotogiornalismo), ma anche il suo lirismo (alcune foto esteticamente e contenutisticamente di grande effetto) e la sua capacità di raccontare le emozioni e i sentimenti dei protagonisti.

Quella di Palazzo Braschi resta una piccola mostra, per di più il prezzo del biglietto è probabilmente eccessivo rispetto alle sue dimensioni (sebbene dia accesso anche alle altre sale del Museo con le collezioni permanenti e all’altra mostra temporanea in corso) e l’illuminazione delle sale lascia molto a desiderare e non sempre consente di godere appieno della visione delle fotografie.

Certamente però queste 78 foto permettono non solo di entrare in contatto con il mondo di Capa, in parte esplicitato attraverso citazioni tratte dal suo libro Leggermente fuori fuoco (da me prontamente acquistato), ma anche di tuffarsi in un periodo difficile della storia d’Italia, che oggi sembra lontano ma che ha segnato profondamente il destino di questo paese.

Voto: 3/5

lunedì 2 dicembre 2013

Venere in pelliccia


Mai come per questo film, uscita dal cinema, non avrei saputo dire se mi fosse piaciuto o meno. Mai come in questo caso la mia mente non riusciva ad articolare una riflessione strutturata su quanto avevo appena visto.

Non posso dire di essermi annoiata durante la visione, né di non aver apprezzato la schermaglia verbale ed emotiva che sta al centro del racconto, ma mi sembrava di essermi fermata alla superficie, di non essere stata in grado di squarciare il velo di una lettura più complessa.

L’aspetto del film che fin da subito mi ha colpito è stato l’intrecciarsi di numerosi piani narrativi e interpretativi, il gioco delle scatole cinesi nel quale il regista ci cattura, la meta-narrazione che a volte lo diventa al quadrato, se non addirittura al cubo.

Nel film un regista (Mathieu Amalric) – in una giornata di pioggia e temporale, in una città deserta, in un teatro fuori dal tempo - sta facendo le audizioni per il suo spettacolo teatrale, appunto La Venere in pelliccia, riadattando il testo del romanzo omonimo di Leopold von Sacher-Masoch pubblicato alla fine dell’Ottocento. Mentre sta andando via arriva un’aspirante attrice, Vanda (Emmanuelle Seigner), che insiste per poter fare l’audizione fino a convincere il regista e a trascinarlo in un gioco di seduzione nel quale i ruoli si invertono, le parti si scambiano in un crescendo di surreale che raggiunge il suo apice nella scena finale.

Da un lato c’è dunque il testo di von Sacher-Masoch, dall’altro l’adattamento teatrale del regista, il tutto racchiuso nella finzione cinematografica che a sua volta non può che portare con sé molti rimandi alla realtà, visto che Emmanuelle Seigner nella vita è la moglie di Polanski ed è difficile non vedere in Mathieu Amalrich l’alter ego del regista.

Eppure questo gioco delle scatole cinesi non è tutto e non basta a cogliere tutti i piani narrativi che Polanski costruisce, né spiega tutti gli indizi che il regista sembra disseminare per tutto il testo.

E così, 24 ore dopo la visione del film, grazie a una delle felici intuizioni di S., improvvisamente il disegno del regista mi si chiarisce e il personaggio di Vanda, che certamente resta l’elemento più sfuggente ed inafferrabile del film, trova finalmente una sua dimensione.

Vanda non è un personaggio reale, né mai lo appare – a ben guardare - durante tutto il film, visto che sembra sempre recitare e portare in scena molti personaggi diversi. Vanda è l’incarnazione della dea, è proprio lei, Venere in pelliccia, la materializzazione del femminile, scesa sul palco di questo teatro per mettere alla prova il povero regista, per dare una dimostrazione del potere femminile e mostrare al mondo quanto il maschile può essere inerme di fronte alle sue mille incarnazioni.

Vanda/Venere, che inizialmente finge di essere un personaggio del tutto inadeguato e sopra le righe, dimostra a poco a poco di avere mille strumenti (la sua borsa è una specie di straordinaria cassetta degli attrezzi) e mille capacità, che ribalteranno completamente l’impressione iniziale.

E' la personificazione dell’amore femminile che entra rumorosamente ma apparentemente in maniera innocua nella vita del regista, ma presto occupa il palcoscenico e lo rende suo schiavo, plasmandolo a proprio piacimento fino a farlo assomigliare a sé e a prendersi la sua stessa anima.
E tutto questo ha molto a che vedere anche con la storia personale di Roman Polanski.

Cosicché il cerchio si chiude.

Voto: 3,5/5