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mercoledì 31 gennaio 2024

Metà di un sole giallo / Chimamanda Ngozi Adichie

Metà di un sole giallo / Chimamanda Ngozi Adichie; trad. di Susanna Basso. Torino: Einaudi, 2016.

Dopo aver amato il suo Americanah, torno a leggere un romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana che vive tra la Nigeria e gli Stati Uniti, dove ha svolto una parte dei suoi studi.

Con Metà di un sole giallo procedo all'indietro nella sua produzione, visto che il romanzo è uscito prima di Americanah, cosicché a questo punto non mi rimane che "chiudere" con la lettura die L'ibisco viola.

Se in Americanah la storia raccontata era quella di una giovane donna nigeriana trasferitasi negli Stati Uniti prima per studio e poi per lavoro e il suo contradditorio e complesso rapporto sia con il paese di origine sia con quello di adozione, in Metà di un sole giallo l'ambientazione è completamente nigeriana.

Siamo negli anni Sessanta in Nigeria. Un primo capitolo è ambientato nei primi anni Sessanta, e un secondo capitolo nella seconda metà del decennio quando scoppia la guerra civile. Poi si ritorna nuovamente ai primi anni Sessanta e poi nuovamente all'epoca della guerra civile.

Protagonisti di questa storia sono Olanna, una giovane e bellissima donna che decide di tornare in Nigeria dopo aver studiato all'estero per amore di Odenigbo, professore all'Università di Nsukka e attivista politico, e sua sorella gemella, Kainene, donna forte e concreta, oggetto dell'amore di Richard, un cittadino britannico appassionato di Africa. Il punto di connessione tra questi personaggi è Ugwu, un giovane di modeste origini, che diventa il domestico in casa di Odenigbo, che sarà poi anche casa di Olanna.

Ognuno di loro rappresenta un modo di essere, un punto di vista sulla Nigeria e sul mondo.

Tutte queste visioni, da quelle colte e raffinate di Olanna, Odenigbo e della stessa Kainene, a quelle ingenue - seppure per motivi diversi - di Richard e Ugwu si scontreranno a un certo punto con lo scoppio della guerra civile, la tristemente nota guerra del Biafra, offrendo uno sguardo interno alla comunità igbo (cui appartengono tutti, tranne ovviamente Richard), protagonista del tentativo di secessione e di indipendenza del Biafra dalla Nigeria.

Come già era stato durante la lettura di Americanah, Chimamanda Ngozi Adichie riesce a farci entrare nella mente dei suoi personaggi - che in questo caso si alternano come protagonisti della storia e a turno raccontano il loro modo di stare e vedere gli eventi - realizzando il non facile obiettivo di empatizzare con ciascuno di essi, ed è fondamentalmente attraverso questa empatia che la scrittrice ci offre anche molti elementi conoscitivi e di documentazione, ci aiuta a mettere insieme dati e idee, per capire quanto accade.

La sua straordinaria capacità sta nell'azzerare qualunque elemento di giudizio semplicistico e nel mettere in evidenza la contradditorietà del reale. Man mano che si prosegue nella lettura è dunque inevitabile per il lettore passare da uno sguardo di contemplazione di una borghesia nigeriana che ci è in buona parte sconosciuta a una vera appropriazione dei loro sentimenti e stati d'animo che produce nel lettore un'amarezza e una sofferenza crescente, man mano che la vita di queste persone - che nel frattempo abbiamo in qualche modo imparato ad amare - viene completamente devastata materialmente e moralmente dalla guerra.

Si esce per l'ennesima volta con la convinzione che la guerra, qualunque guerra, è sempre una tragedia, per i vinti e pure per i vincitori, e lascia ferite enormi, difficili se non impossibili da sanare. In questo caso, poi, emerge potentissimo il tema del post-colonialismo, i danni che i paesi occidentali hanno fatto in territorio africano (e non solo), e che - possiamo aggiungere - continuano a fare, calpestando identità, mancando di rispetto alle culture locali, sfruttando il territorio.

Più leggo Chimamanda e più mi rendo conto della mia ignoranza su questi mondi, e mi scatta il desiderio di leggere ancora, saperne di più e possibilmente capirne di più.

Voto: 4/5

martedì 3 maggio 2022

Klara e il Sole / Kazuo Ishiguro

Klara e il Sole / Kazuo Ishiguro; trad. di Susanna Basso. Torino: Einaudi, 2021.

Come è stato scritto da più parti, con il suo ultimo romanzo, Klara e il Sole, Kazuo Ishiguro torna alle atmosfere di Non lasciarmi che lo hanno portato alla ribalta internazionale.

Siamo sempre in un mondo che in buona parte è simile a quello in cui viviamo, ma che a poco a poco rivela delle caratteristiche che lo collocano temporalmente in un futuro più o meno prossimo che fa virare la narrazione nella direzione della distopia, pur senza darlo pienamente a vedere e senza esserlo totalmente. Personalmente ritengo che questa sia la vera forza della narrazione di Ishiguro, ossia la capacità di instillare un non meglio definito senso di inquietudine che convive con momenti di assoluta normalità e dolcezza e che non trova un pieno scioglimento narrativo. Perché Ishiguro non ama spiegare tutto, né raccontare tutto quello che è necessario per capire, bensì lascia alla intuizione e alla fantasia del lettore il compito di riempire i buchi informativi o di non riempirli se non ne sente la necessità.

In questa storia la protagonista è Klara, un modello piuttosto evoluto (anche se non il più recente realizzato) di AA (Amico Artificiale), che vive - insieme a un certo numero di suoi simili - in un negozio cittadino dove attende che un adolescente la scelga e la porti via con sé. Gli AA - che sono alimentati dall'energia del sole - non sono tutti uguali, e Klara in particolare si distingue dagli altri per una grande capacità di osservazione e una spiccata sensibilità, che la direttrice del negozio non manca mai di sottolineare quando entra un nuovo cliente.

A scegliere Klara sarà Josie, una ragazzina che vive con la madre e la domestica Melania in una grande casa nel verde e che ha una salute precaria e fragile, oltre a condividere con gli altri suoi coetanei una incapacità di instaurare relazioni e una tendenza alla solitudine.

L'unico vero amico di Josie è Rick, che vive in una casa non lontana, anche lui insieme a una madre bizzarra ed emarginata. Scopriremo più avanti che nel mondo di Rick e Josie i bambini vengono potenziati geneticamente nei primi anni di vita, ma non tutti i genitori accettano di farlo in quanto si tratta di un intervento non senza rischi. Rick non è stato potenziato e questo rende il suo futuro molto incerto e le sue possibilità più limitate, sebbene anche il futuro di Josie è messo a rischio dalla sua salute precaria.

È proprio in questo contesto così delicato che Klara gioca un ruolo fondamentale, che andrà ben al di là di quello che ci si aspetterebbe da una macchina, per quanto evoluta.

Non è giusto rivelare di più della trama di Klara e il Sole, che in parte si sviluppa come un thriller e dunque merita di non veder rovinata la sorpresa della scoperta.

Ma - al di là dell'intreccio e dei nodi della narrazione - quello che colpisce e conta di più è la sottesa riflessione su cosa ci differenzia dalle macchine e ci rende umani, su quanto in là si possa spingere l'intelligenza artificiale nel riprodurre le caratteristiche degli esseri umani e se rimarrà davvero qualcosa di non riproducibile. Senza dubbio l'essere umano ha una storica, se non innata propensione a considerarsi speciale e a collocarsi al centro dell'universo, in una posizione di netta superiorità rispetto agli altri esseri viventi. Vero è però che nel caso delle intelligenze artificiali parliamo di un prodotto realizzato dall'umanità stessa che, per la sua stessa ambizione, vuole spingersi sempre oltre fino al limite impensabile di riprodurre sé stessa.

Nel romanzo di Ishiguro si ha a tratti la sensazione che il personaggio più "umano" di tutti sia proprio Klara, che - pur nella sua ingenuità - sembra l'unica non concentrata su sé stessa e disposta al sacrificio personale per il bene di Josie.

Forse la domanda vera che lo scrittore inglese ci sta ponendo non è se i robot diventeranno veramente umani, ma se siamo noi umani che ci stiamo disumanizzando.

Voto: 3,5/5

sabato 16 giugno 2018

Il senso di una fine / Julian Barnes

Il senso di una fine / Julian Barnes; trad. di Susanna Basso. Torino: Einaudi, 2012.

In occasione dell'inaugurazione della mia mostra di fotografia, il mio amico M. mi regala questo libro di Julian Barnes di cui avevo tanto sentito parlare e che era già nella mia lista delle prossime letture.

Così, alla prima occasione, approfittando di un viaggio in treno, lo leggo praticamente tutto d'un fiato.

Del libro mi colpiscono principalmente due temi, che mi sono entrambi molto cari: il rapporto con il tempo e il rapporto tra la realtà e la narrazione di essa.

Quando nelle prime pagine leggo la frase "Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene, eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo " posso dire che il libro mi ha già conquistata.

Tony Webster è un uomo che ha superato da parecchio la mezza età e che ha avuto una vita normale: è separato da sua moglie, di cui però è rimasto amico, ha una figlia e diversi interessi. Nel suo passato c'è però un episodio che in qualche modo lo ha segnato, l'amore finito male per una donna che poi si è messa con il suo migliore amico, Adrian Finn, il quale a sua volta si è poi suicidato molto giovane.

La vita però è andata avanti e questo episodio sembra dimenticato fino a quando Tony riceve la notizia di essere destinatario di una piccola eredità e del diario del suo amico di gioventù.

Questo innesca un percorso a ritroso nella memoria che poggia su una domanda di fondo: quanto i nostri ricordi sono il riflesso della realtà e quanto sono la rielaborazione mentale di frammenti di informazione i cui buchi sono stati riempiti da noi stessi più o meno inconsciamente?

E cosa accade quando a poco a poco dal passato emergono indizi ed evidenze documentarie che contraddicono la nostra ricostruzione degli eventi, nonché la percezione e l'interpretazione che ad essi abbiamo dato?

Esiste dunque la nostra storia personale al di là della ricostruzione che ne facciamo noi stessi e che ne fanno gli altri?

Il tema è per me altamente affascinante e devo dire che Julian Barnes lo rende anche molto accattivante per il lettore che si inoltra tra le pagine come dentro un giallo, in attesa - insieme al protagonista - della rivelazione di una verità che non conosciamo e che si è persa nei meandri del tempo.

Il problema del libro, per quanto mi riguarda, sta nel creare un'aspettativa crescente, facendoci tra l'altro sentire anche un po' stupidi - esattamente come Tony - per il fatto di non riuscire ad intuire qual è la verità che ci è sfuggita. Il fatto è che poi quando questa verità ci viene rivelata, tra l'altro in un modo un pochetto farraginoso, non si può non rimanere delusi. Io talmente non volevo credere che tale verità fosse così banale che mi sono andata a rileggere a ritroso alcune pagine per sincerarmi di aver capito bene.

Insomma, diciamo che sono diventata un po' allergica a tutte le forme di narrazione che sfruttano questo stratagemma per avvincere il fruitore ed inevitabilmente ne sono sempre più delusa e quasi infastidita nel tempo.

Nonostante questo ho certamente apprezzato la scrittura e molta parte della narrazione, così come riconosco le qualità scrittorie di Julian Barnes. Resta una puntina di amarezza per un libro le cui premesse e promesse iniziali mi avevano intrigato molto.

Voto: 3,5/5

venerdì 11 ottobre 2013

Chi ti credi di essere? / Alice Munro


Chi ti credi di essere? / Alice Munro; trad. di Susanna Basso. Milano, Einaudi, 2012.

Non avevo mai letto niente di Alice Munro, forse respinta dalla forma letteraria preferita dalla scrittrice ossia quella dei racconti, che io non ho mai amato particolarmente.

Però, su suggerimento di un amico e collega bibliotecario, mi sono decisa a partire alla scoperta di Alice Munro cominciando da quello che molti considerano il suo libro più bello, Chi ti credi di essere?

Ciò che di più mi ha colpito di questo lavoro è l’originalità della forma letteraria. Si tratta infatti di uno strano mix di romanzo e racconti, dal momento che la narrazione è sostanzialmente organizzata per singole tranches perfettamente autonome e compiute in se stesse, ma la protagonista è sempre la stessa, Rose, della quale alla fine della lettura di tutti i racconti conosciamo sostanzialmente l’intera storia.

Ne viene fuori l’immagine di una donna costantemente alla ricerca di se stessa, all’interno delle numerose esperienze di vita che attraversa, sia dal punto di vista professionale che affettivo: il rapporto con la famiglia di provenienza, in particolare con la matrigna, gli amori sbagliati e quelli dolorosi, gli episodi più o meno importanti, che però tutti insieme contribuiscono a delineare la psicologia di questa donna e a rendercela in qualche modo familiare.

La scrittura della Munro è affascinante e coinvolgente. E soprattutto una narrazione non lineare come quella che ci propone trasforma una vicenda priva di veri e propri colpi di scena in un racconto appassionante in cui il lettore è attivamente impegnato a ricostruire, come in un puzzle, non solo gli elementi e le sfumature che vanno a formare la vita di Rose, ma anche quelle che compongono la sua personalità.

Voto: 3/5

P.S. Il libro l'ho letto quest'estate, ma quale occasione migliore per pubblicare questo post se non l'assegnazione ad Alice Munro del Premio Nobel per la Letteratura 2013?