venerdì 15 maggio 2020

Survival family

Siamo a Tokyo, in un piccolo appartamento a un piano parecchio alto di un grande caseggiato dove vive una famiglia come tutte le altre: un padre che lavora in ufficio e la sera pensa solo a mangiare e a stravaccarsi davanti alla televisione, una madre casalinga che però ha il terrore di pulire il pesce che suo padre gli ha mandato, una figlia e un figlio che stanno sempre attaccati ai loro cellulari e con i loro genitori parlano ben poco. All’improvviso la città piomba nel blackout assoluto, tutto quello che funziona utilizzando l’elettricità o le batterie smette di funzionare, e ben presto la vita di questa famiglia e di tutte le altre cambia profondamente, mettendo in luce la completa dipendenza della nostra società dalle “tecnologie”.

Nel giro di pochi giorni quello che inizialmente tutti considerano solo un inconveniente un po’ fastidioso si trasforma in una collettiva lotta per la sopravvivenza, in cui tutte le priorità vengono stravolte nonché il valore delle cose. Quando i membri della famiglia Suzuki comprendono che rimanendo in città rischiano di morire di fame, decidono di raggiungere il paesino di pescatori dove abita il nonno, ma né aerei né macchine li possono condurre lì, cosicché la loro sarà una tragicomica odissea in bicicletta attraversando città deserte e abbandonate, strade e luoghi dall’apparenza post-apocalittica.

Durante questo lunghissimo viaggio che durerà più di 100 giorni i quattro protagonisti si metteranno a nudo e si scopriranno reciprocamente nel bene e nel male, e ognuno di loro farà i conti con i propri punti di forza e di debolezza e sarà chiamato a superare sfide e a mettere in campo tutte le proprie risorse migliori. Durante il percorso incontreranno persone disperate come loro rispetto alle quali metteranno in campo i loro peggiori egoismi, ma a poco a poco comprenderanno anche l’importanza della solidarietà.

Il loro impatto con il mondo rurale dove l’acqua e il cibo non mancano sarà tutt’altro che idilliaco perché comprenderanno che tutto quello che davano per scontato e che arrivava sulle loro tavole già lavorato è frutto di lavoro durissimo e di sapienze antiche ormai dimenticate.

Il film di Shinobu Yaguchi è un’originale forma di commedia apocalittica, in cui è evidente fin dal principio che tutto andrà per il meglio, ma che non risparmia un senso di ansia crescente per le sorti di questi personaggi e profondi interrogativi individuali e sociali. Si tratta – com’è evidente – di un film a tesi, con uno sviluppo tutto sommato didascalico e prevedibile, ma questo non toglie nulla all’importanza della riflessione resa possibile dall’estremizzazione della situazione e alla godibilità della narrazione, che ci rende momento dopo momento sempre più cari i componenti di questa famiglia che al principio potevano risultare insopportabili, per effetto di un’inevitabile empatia.

È chiaro che un film del genere, visto quando ancora tutta l’Italia – e non solo – è in quarantena, non può che parlare al presente e interrogarci su tante reazioni e sentimenti che noi stessi abbiamo provato o che abbiamo visto dispiegarsi intorno a noi in queste settimane. Ma probabilmente, il film, risalente al 2016, rientra in realtà in un filone molto presente nella cinematografia orientale, quello della critica al tempo presente e soprattutto alle nostre vite metropolitane e ipertecnologiche (non a caso mi ha fatto pensare a un altro film del Far East Film Festival visto qualche giorno fa sempre su Mymovies, Little forest), frutto di una crescente consapevolezza della fragilità di questi nostri equilibri e anche degli effetti negativi che su di noi ha prodotto il distacco dalla natura e dalla ruralità.

La campagna e il mondo dei piccoli villaggi sono visti come una specie di Eden al quale ritornare (fors’anche in maniera un po’ semplicistica), o quantomeno come una lezione da non dimenticare se non si vuole rischiare di diventare vittime di quel progresso che noi stessi abbiamo creato.

Voto: 3,5/5

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