Haneke continua la sua analisi impietosa e dolorosa dell’animo umano.
Happy end si collega idealmente al precedente, bellissimo, Amour, visto che alcuni protagonisti sono interpretati dagli stessi attori in ruoli simili. Il caso eclatante è il patriarca di questa famiglia, Georges Laurent (Jean Louis Trintignant), chiaramente lo stesso Georges di Amour, quello che ha assistito alla malattia della moglie e ha poi deciso di prendere una decisione dolorosa. In questo film Georges vive in una grande casa, dove abitano in appartamenti differenti anche i suoi figli, Anne (Isabelle Huppert, che interpretava la figlia anche nel film precedente), e il figlio Thomas (Mathieu Kassovitz).
Georges è ancora più vecchio e stanco, apparentemente un po’ rimbambito e disconnesso; in realtà perfettamente consapevole di tutto, capace di leggere il cuore degli altri, di coglierne le caratteristiche, e determinato nel cercare la persona giusta per raggiungere il suo scopo.
La famiglia Laurent viene messa a nudo nel momento in cui la ex moglie di Thomas va in coma per aver preso troppi farmaci e sua figlia Eve (anche questo un nome che ritorna dal film precedente, dove questo era il nome della figlia di George) deve trasferirsi nell’appartamento dove il padre vive insieme alla seconda moglie e al figlio piccolo, mentre ha un relazione extraconiugale e di contenuto primariamente sessuale con un’altra donna.
Intanto Anne gestisce insieme al figlio l’azienda edile di famiglia; ed è alle prese con il rischio di fallimento della stessa, che sta gestendo insieme al suo fidanzato banchiere inglese, e con l’inettitudine del figlio che non vuole prendere su di sé l’eredità dell’azienda di famiglia.
In questo quadro che potremmo definire “di ordinaria infelicità e anaffettività” a poco a poco l’attenzione si concentra sui due personaggi alle estremità del quadro generazionale: il vecchio Georges e la piccola Eve (Fantine Harduin), il primo alla ricerca di qualcuno che gli permetta di mettere fine alla sua vita, la seconda inquietantemente indifferente e quasi morbosamente attratta dalla morte, al punto da poterla filmare con il suo cellulare.
Due personaggi certamente sensibili, ma in modo non certo rassicurante, in quanto entrambi attirati dalla danza con la morte; di mezzo una generazione assente, senza scrupoli, senza sentimenti, che sopravvive illudendosi di essere viva.
Un quadro desolante e inquietante quello tratteggiato da Haneke, sempre più pessimista, sempre più compresso in una condizione che è schiacciata tra un mondo esterno che diventa man mano più complesso e un mondo interiore e degli affetti del tutto distaccato e autoreferenziale.
Il film però mette forse troppa carne al fuoco, troppi personaggi vengono portati sotto i riflettori per un tempo troppo breve per capirne la condizione e soprattutto le cause dei comportamenti. E anche la visione del presente risulta infine troppo luddista e superficiale nell’utilizzare la tecnologia come specchio della povertà emotiva delle generazioni che stanno crescendo.
Voto: 3/5
lunedì 3 luglio 2017
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Non è il miglior Haneke, ma è un sunto perfetto dell' Haneke-pensiero: un film che condensa tutto il suo cinema, nonchè la sua visione del mondo. Sceneggiatura meno perfetta del solito e qualche caricatura di troppo, ma certo non merita le stroncature che gli hanno tributato a Cannes. Un Autore come lui merita sempre la visione.
RispondiEliminaSono d'accordo con te. A me non ha fatto impazzire, ma i film di Haneke non lasciano mai del tutto indifferenti.
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