Asterios Polyp / David Mazzucchelli. Bologna: Coconino Press, 2011.
Alla fine della lettura di questo albo osannato dalla critica italiana e internazionale pensavo di essere diventata improvvisamente stupida. Il primo impulso è stato infatti quello di ripartire con la lettura dalla prima pagina perché nella testa mi frullava il pensiero insistente che mi fosse sfuggito qualcosa. Percepivo in maniera un po’ indistinta e irrazionale la qualità di questo fumetto e la sua originalità estetica e di contenuti, ma avevo la sensazione di non essere in grado di tradurre tutto questo in parole che avessero un senso.
Poi – leggiucchiando in giro su Internet – la consolazione è arrivata dal constatare che tutti suggeriscono di leggere questo albo almeno due volte, ma forse anche di più, perché ad ogni lettura si svela un particolare del quadro che ci era sfuggito, alcuni dettagli acquistano quel senso che sembravano non avere, si chiarisce la struttura di una narrazione complessa in cui si alternano presente, passato, sogno, ricordi, allucinazioni, si definiscono i caratteri dei personaggi.
Asterios Polyp è un architetto di fama, ma i cui progetti sono rimasti sempre esclusivamente sulla carta.
È figlio di un immigrato greco negli Stati Uniti, un uomo tutto d’un pezzo che dopo un ictus è a letto in condizione semivegetativa, assistito dalla moglie.
È fratello di Ignazio, il suo gemello omozigote che è cresciuto con lui nella pancia di sua madre, ma non è mai nato.
È separato da Hana, una giovane artista, timida ed emotivamente fragile, che finisce schiacciata dalla personalità di Asterios.
È un cinquantenne pieno di sé, abituato a interpretare i fenomeni della vita e i sentimenti in modo semplicisticamente dualistico, privo di intelligenza emotiva.
L’albo è il “romanzo di formazione” di questo cinquantenne, come lo è This must be the place per il personaggio di Cheyenne. Se per Cheyenne l’inizio del percorso per ritrovare se stesso è la morte di suo padre, per Asterios è l’abbrutimento che segue alla separazione da Hana e il fulmine che manda in fiamme la sua casa. Entrambi partiranno per nowhere, confrontandosi con i propri incubi, le proprie paure e i propri limiti, costretti alla fine a mettersi di fronte ai propri sentimenti e all’insensatezza della vita con sincerità.
Per Asterios sarà Ignazio – il suo doppio speculare – a incarnare la coscienza di se stesso e la consapevolezza di quello che è diventato, mentre il ritorno da Hana è il compimento ultimo di questo percorso, ciò che dà un senso a una vita umana che di per sé non può che essere insensata.
Dal punto di vista dei contenuti, i particolari spiazzanti, i rimandi interni, le citazioni letterarie, gli ardimenti concettuali sono numerosi, al punto che non tutti possono essere colti a una prima lettura.
Molta della comunicazione dei contenuti e della trasmissione di senso è invece affidata alle scelte grafiche e formali, che sono poi quelle che rendono questo albo davvero originale e che gli hanno garantito commenti entusiastici un po’ ovunque. In particolare, un uso dei colori e delle forme che all’imitazione della realtà e alla ricerca della bellezza estetica sostituisce il rafforzamento dei significati verbali.
L’incapacità di Asterios e Hana di comunicare, le incomprensioni che spesso caratterizzano il loro rapporto sono ben espresse dal fatto che Asterios è disegnato come un insieme di forme geometriche e con le varianti del ciano, mentre Hana è sempre fatta di forme fluide e delle sfumature del magenta. Anche le nuvolette che racchiudono le loro parole hanno forme diverse, squadrate quelle di Asterios, tondeggianti quelle di Hana. Allo stesso modo, i momenti in cui i mondi emotivamente distanti di Asterios e Hana si incontrano e si fondono, sono le loro nuvolette che si intersecano, i loro colori che si uniscono a formare nuove sfumature, le loro forme che trovano armonia.
Le due pagine fitte di brevi riquadri (una specie di fotogrammi di ricordi) che ricostruiscono l’immagine intima e indifesa di Hana nella mente di Asterios sono di una tenerezza e di un’efficacia assolute. Una specie di saggio di bravura che difficilmente si dimentica.
Ma il mondo di invenzioni grafiche di Mazzucchelli non riguarda solo Asterios e Hana, bensì tutti i personaggi e gran parte delle scelte presenti nell’albo. Anche l’articolazione della storia in parti che cominciano sempre con una tavola contenente un unico piccolo particolare che poi si rivelerà essenziale per la comprensione – profonda o superficiale – di quel pezzo di storia appare originale ed azzeccata.
Non c’è dubbio che dietro quest’opera c’è un grande lavoro concettuale e grafico di David Mazzucchelli e l’obiettivo implicito di una vera e propria continua sfida all’intelligenza, alla memoria, all’attenzione e alla capacità di comprensione del lettore si può dire centrato.
Così come si può dire centrato l’obiettivo di far credere al lettore che la vita di Asterios è un percorso di senso, in cui i rimandi interni, le coincidenze e i ritorni abbiano come fine ultimo la felicità. Mentre invece la grande verità di Asterios Polyp è che noi essere umani per tutta la vita cerchiamo di curare le ferite che senza colpa ci portiamo dentro e ci muoviamo – impauriti oppure ostentando sicurezza – in un universo relazionale in cui siamo fondamentalmente soli, monadi incomprese e incomprensibili persino da noi stessi. Non c’è nessuno che cammina realmente accanto a noi, nessuno che guarda le nostre piccole vite, nessuno che chiude il cerchio delle nostre azioni, nessuno che trasforma il caso in destino. Ci siamo solo noi che possiamo guardarci dentro.
Senza che questo ci salvi dall’asteroide ;-)
Voto: 4,5/5
mercoledì 28 dicembre 2011
sabato 24 dicembre 2011
Istanbul: città sospesa tra passato e futuro. III parte
Non posso abbandonare il racconto del viaggio ad Istanbul senza fare anche solo un elenco di ciò che mi ha colpito - in positivo e in negativo - di questa città.
E così di Istanbul ricorderò giovani e vecchi che trasportano le cose più improbabili per strada sui loro carretti, nelle ceste sulle spalle, sui vassoi poggiati sulla testa.
Le sale da thè piene zeppe di soli uomini che chiacchierano e giocano a carte.
I numerosissimi baracchini per strada che vendono cibo di strada: dai simit (le ciambelle ricoperte di sesamo) alle banane, dalle castagne al succo di melograno, dal panino con il filetto di pesce appena pescato nel Bosforo e cotto su una griglietta agli spiedini di cozze fritte.
Le elegantissime donne di Istanbul. Quelle vestite all'occidentale, ma anche quelle con i loro veli acconciati con maestria, fino a quelle coperte di lunghi vestiti neri ma con borse bellissime e occhi truccati.
L'onnipresente Ataturk.
Gli arrotini, i lucidascarpe, i rigattieri e tutti i mestieri che non esistono più.
I bicchierini di thè portati e lasciati ovunque per strada.
La gentilezza non affettata dei turchi.
Gli asciugamani dei barbieri stesi davanti ai loro negozi.
La luce del Bosforo e i suoi riflessi sui palazzi.
Le migliaia di canne da pesca in fila sul ponte di Galata.
I negozi che producono e vendono cose che separate dall'oggetto finale non siamo più abituati a vedere: le etichette dei vestiti, le fibbie delle cinture, i bottoni a pressione, gli anelli delle catene.
I negozi di modernariato che in qualunque altro posto sarebbero radical-chic, ma qui sembrano autentici.
Gli hammam dispersi per la città (i grandi e i piccoli), dove purtroppo non abbiamo fatto in tempo ad andare.
Le scalinate ripidissime che sembrano portare nel nulla.
Le case di legno con i loro bovindi.
I mercati e i negozi organizzati geograficamente per specializzazione di vendita (tutti gli accessori per la casa, tutti gli elettrodomestici, tutti gli apparecchi radiofonici e televisivi ecc.).
Le colazioni con formaggio, olive e cetrioli.
Le onnipresenti maioliche.
Le due anziane signore musulmane che si fanno vicendevolmente le foto con il cellulare.
Il bambino che si butta davanti all'obiettivo per essere fotografato.
La folla che quasi mi calpesta per entrare nella moschea.
Gli sposi che si fanno fare le foto come se stessero su un set cinematografico.
La coppia di mezza età che litiga sul marciapiede con lei che gli si aggrappa e lui che fa volare qualche schiaffo, mentre intorno la gente - passando - li osserva e sembra controllare che la cosa non degeneri.
Il vecchietto che ci vende non-so-quanti asciugamani di cotone e tovaglie in un negozietto così piccolo che in due non ci stiamo e che parla inglese molto meglio di noi.
La donna che prega e piange mentre la luce del tramonto sul Bosforo le illumina gli occhi.
La luna piena sulla città illuminata.
Le donne vestite di bianco messe in vetrina nei ristoranti di Sultanahmet come fossero commensali.
I gettoni di plastica della metropolitana.
Le viste sul Bosforo.
I grandi cartelloni pubblicitari sui palazzi che sembrano usciti direttamente dagli anni '50.
La decadenza e lo splendore fianco a fianco.
L'antico e il moderno mescolati tra di loro.
La tradizione e l'innovazione nelle stesse strade.
Il fatto che solo stando a Istanbul si può leggere Pamuk ;-)
La sensazione che questa città e questo popolo possano andare lontano, se riescono davvero a nutrirsi di Occidente ed Oriente con intelligenza e spirito critico.
E così di Istanbul ricorderò giovani e vecchi che trasportano le cose più improbabili per strada sui loro carretti, nelle ceste sulle spalle, sui vassoi poggiati sulla testa.
Le sale da thè piene zeppe di soli uomini che chiacchierano e giocano a carte.
I numerosissimi baracchini per strada che vendono cibo di strada: dai simit (le ciambelle ricoperte di sesamo) alle banane, dalle castagne al succo di melograno, dal panino con il filetto di pesce appena pescato nel Bosforo e cotto su una griglietta agli spiedini di cozze fritte.
Le elegantissime donne di Istanbul. Quelle vestite all'occidentale, ma anche quelle con i loro veli acconciati con maestria, fino a quelle coperte di lunghi vestiti neri ma con borse bellissime e occhi truccati.
L'onnipresente Ataturk.
Gli arrotini, i lucidascarpe, i rigattieri e tutti i mestieri che non esistono più.
I bicchierini di thè portati e lasciati ovunque per strada.
La gentilezza non affettata dei turchi.
Gli asciugamani dei barbieri stesi davanti ai loro negozi.
La luce del Bosforo e i suoi riflessi sui palazzi.
Le migliaia di canne da pesca in fila sul ponte di Galata.
I negozi che producono e vendono cose che separate dall'oggetto finale non siamo più abituati a vedere: le etichette dei vestiti, le fibbie delle cinture, i bottoni a pressione, gli anelli delle catene.
I negozi di modernariato che in qualunque altro posto sarebbero radical-chic, ma qui sembrano autentici.
Gli hammam dispersi per la città (i grandi e i piccoli), dove purtroppo non abbiamo fatto in tempo ad andare.
Le scalinate ripidissime che sembrano portare nel nulla.
Le case di legno con i loro bovindi.
I mercati e i negozi organizzati geograficamente per specializzazione di vendita (tutti gli accessori per la casa, tutti gli elettrodomestici, tutti gli apparecchi radiofonici e televisivi ecc.).
Le colazioni con formaggio, olive e cetrioli.
Le onnipresenti maioliche.
Le due anziane signore musulmane che si fanno vicendevolmente le foto con il cellulare.
Il bambino che si butta davanti all'obiettivo per essere fotografato.
La folla che quasi mi calpesta per entrare nella moschea.
Gli sposi che si fanno fare le foto come se stessero su un set cinematografico.
La coppia di mezza età che litiga sul marciapiede con lei che gli si aggrappa e lui che fa volare qualche schiaffo, mentre intorno la gente - passando - li osserva e sembra controllare che la cosa non degeneri.
Il vecchietto che ci vende non-so-quanti asciugamani di cotone e tovaglie in un negozietto così piccolo che in due non ci stiamo e che parla inglese molto meglio di noi.
La donna che prega e piange mentre la luce del tramonto sul Bosforo le illumina gli occhi.
La luna piena sulla città illuminata.
Le donne vestite di bianco messe in vetrina nei ristoranti di Sultanahmet come fossero commensali.
I gettoni di plastica della metropolitana.
Le viste sul Bosforo.
I grandi cartelloni pubblicitari sui palazzi che sembrano usciti direttamente dagli anni '50.
La decadenza e lo splendore fianco a fianco.
L'antico e il moderno mescolati tra di loro.
La tradizione e l'innovazione nelle stesse strade.
Il fatto che solo stando a Istanbul si può leggere Pamuk ;-)
La sensazione che questa città e questo popolo possano andare lontano, se riescono davvero a nutrirsi di Occidente ed Oriente con intelligenza e spirito critico.
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venerdì 23 dicembre 2011
Istanbul: città sospesa tra passato e futuro. II parte
Sabato mattina ritorniamo a Sultanahmet per completare la visita. Ci mancano due tappe importanti: la moschea di Santa Sofia (Ayasofya Camii) e il Topkapi (Topkapı Sarayı), il palazzo dei sultani ottomani.
La prima è ormai un museo (e dunque niente velo e niente scarpe in bustina); nata come una chiesa patriarcale (con straordinari mosaici dorati che ricordano quelli di Ravenna), è poi stata convertita in moschea e infine è diventata un museo, e queste sue diverse fasi di vita si vedono benissimo nella sua struttura che da un lato ricorda le chiese cristiane (3 navate e gallerie sovrastanti le navate laterali), dall'altro ha tutte le caratteristiche riconoscibili nelle altre moschee che abbiamo visitato. Bella e ricca, imponente e leggiadra al tempo stesso, segno inconfondibile nello skyline di Istanbul.
Il Topkapi è un posto immenso, tre giardini che si aprono uno nell'altro, disseminati di palazzetti, residenze, spazi di servizio, luoghi di preghiera, biblioteca, poiché l'estro dei sultani che si sono succeduti lo ha nel tempo ingrandito e arricchito. Occupa una posizione straordinaria, l'estrema punta del Corno d'Oro da cui la vista spazia sia verso la costa europea sia verso quella asiatica. Non possiamo perdere la visita (con ingresso separato) alle residenze private dei sultani, quello che noi conosciamo come harem, un luogo affascinante soprattutto per l'organizzazione della vita al suo interno e il racconto degli intrighi che lo caratterizzavano, nonché per la ricchezza delle decorazioni maiolicate con cui ciascun sultano provava a superare per originalità e sfarzo il precedente.
È tempo di lasciare Sultanahmet. Istanbul è anche altro. E io sono curiosissima di visitare i quartieri di Fatih e Fener, che i blogger di Scoprire Istanbul raccomandano caldamente. È il quartiere dei musulmani ortodossi, per gran parte immigrati dall'Est della Turchia, un dedalo di viuzze di cui neppure le mappe più aggiornate della città riescono a tenere esattamente traccia, rendendo l'impresa di visitare da soli questi quartieri non facile.
Noi ci arriviamo costeggiando l'acquedotto romano di Valente (Bozdoğan Kemeri, "Acquedotto del falco grigio") e imboccando l'Itfaiye Caddesi. Superato l'arco dell'acquedotto, ci ritroviamo in una strada/piazza dove sembra essere giornata di mercato. Intorno a noi prevalentemente uomini e poche donne coperte di nero dalla testa ai piedi. I negozi che si sviluppano lungo la strada traboccano di merci, soprattutto gastronomiche: formaggi, frutta secca, carne e teste di capretto in bella mostra. È ora di pranzo.
C'è l'imbarazzo della scelta, ma non riusciamo a individuare immediatamente il posto suggerito da Scoprire Istanbul così entriamo da Ziyafet (con il promettente sottotitolo Büryan e Kebap). C'è una cappa a vista, un banchetto come cassa. Due tavoli sono occupati da uomini che mangiano e parlano. Il menu è su carta plastificata, solo in turco. Per fortuna c'è qualche foto e qualche termine l'abbiamo imparato. Non osiamo troppo; alla fine prendiamo un piatto di içli köfte (polpette in pastella ripiene di carne speziata) e un kebap di pollo al piatto. Ci accompagna sia durante il pasto sia alla fine il thè turco. Temiamo che i contanti che abbiamo non bastino. Ma niente paura. 25 lire turche (10 euro) in due! :-)
Giro per il mercato e poi ci inoltriamo in una stradina da cui arriva un'intera famiglia di musulmani ortodossi (due uomini con sottane lunghe sopra i pantaloni larghi e 3-4 donne completamente coperte), ma non siamo sicure di poterci addentrare senza perderci. Ci sono bambini che giocano a pallone e che quando passi tirano fuori il loro pacchetto di fazzoletti da venderti a una lira. C'è una signora anziana che accende un fuoco per strada mentre i bambini le saltellano intorno. Ci sono due ragazzetti che aggiustano un motorino. Ci sono i panni stesi per strada. Mi ricorda un po' la Bari vecchia della mia infanzia.
Non sappiamo quali strade seguire verso Fener, così rinunciamo e imboccando uno stradone di quelli che si attraversano solo con i sottopassaggi (gli stessi sottopassaggi che si trasformano di giorno in altrettanti mercati coperti organizzati di solito per tipologia di merce: c'è il sottopassaggio dei piccoli elettrodomestici; c'è quello delle vernici e delle carte da parati e così via...) ritorniamo verso Eminönü (quanto mi piace pronunciarlo così: Emignognù).
Io voglio assolutamente comprare delle cose al Mısır Çarşısı, in particolare una tenda separatrice sbrilluccicante per la casa nuova. Compriamo anche dei portabottiglie di paglia, dei mestoli da cucina, mangiamo un Künefe, uno strano dolce che al centro ha del formaggio fuso (buonissimo!) e poi torniamo verso l'albergo. Questa volta troviamo l'ingresso della funicolare a Tünel, ma non capiamo se con lo stesso biglietto possiamo salire anche sul tram che - passando in mezzo alla folla - attraversa la Istiklal Caddesi. Così anche questa volta ce la facciamo a piedi.
Distrutte, decidiamo di andare a cena in un posto praticamente sotto l'albergo, nella Vidinli Tevfik Paşa Caddesi. Qualche turco c'è, ma il target è straniero. Arriva il cameriere che ci chiede se vogliamo vedere gli antipasti. Noi capiamo che dobbiamo seguirlo, ma quando vediamo che si infila in cucina ci viene il dubbio di aver capito male. In realtà ne esce con un vassoio che contiene una porzione di tutti gli antipasti disponibili, da cui scegliere a vista cosa vogliamo. Segue una buonissima carne alla griglia accompagnata da bulgur al pomodoro. Abbiamo ancora voglia di un giretto. Nella stessa strada abbiamo visto un bar molto carino dove l'altra sera non c'era posto. Questa sera riusciamo a sederci. Atmosfera molto molto fashion, arredamento di modernariato che crea un'atmosfera molto rilassata e familiare. Beviamo un bicchiere di raki (sì, è proprio uguale all'ouzo) e poi una tisana alle erbe buonissima e servita in un modo spettacolare accompagna un cheesecake così buono che sembra di stare a New York.
L'ultimo giorno (domenica) abbiamo in programma una gita sulla sponda asiatica, anche perché tutte le guide dicono che bisogna prendere il traghetto sul Bosforo e bisogna vedere Istanbul da lì. Effettivamente lo spettacolo di Istanbul dal Bosforo è straordinario per i numerosi palazzi che sorgono sulle sue rive, come l'enorme Palazzo Dolmabahçe.
Scendiamo a Üsküdar e intanto ci avviamo verso il quartiere di Kuzguncuk, zona residenziale apparentemente piuttosto ricca e ben abitata (sebbene a Istanbul ricchezza e povertà, bellezza e bruttezza spesso convivono a distanze ravvicinate), tanti localini, case di legno, e grandi salite e discese che sembra di stare a San Francisco (sebbene non ci sia mai stata!). Raggiungiamo il cucuzzolo di un colle dove c'è - che te lo dico a fare - una moschea e da lì si vede il Bosforo e il grande ponte che collega la sponda asiatica e quella europea.
Il tempo di scendere di nuovo a riva ed è ora di pranzo. Perché non provare il ristorante Ismet Baba, consigliato da Scoprire Istanbul? Non ce ne pentiamo... Pesce salato, pesto di fave, anelli di calamaro fritti a puntino, un pesce alla griglia buonissimo. Non lontano da noi c'è un tavolo di italiani, accompagnati da una coppia italo-turca. Mi faccio il film che sono la coppia di Scoprire Istanbul; peccato che in questo caso il turco è lui e non lei... ;-)
Prendiamo al volo un autobus dove non sappiamo come pagare il biglietto e scendiamo di nuovo al porto per esplorare a sud del porto. Sosta in un supermercato a fare scorta di spezie, visita a un bellissimo mercato gastronomico e poi lungomare fino alla Kızkulesi, l'isola con la torre che guarda verso il Corno d'oro. È quasi ora del tramonto. Amiche, coppiette, uomini e donne stanno seduti sui tappeti stesi sui gradoni del lungomare e serviti dai baracchini lì vicini, bevono thè, si scambiano effusioni, chiacchierano di fronte allo spettacolo inimitabile della silhouette della città che si staglia nella luce soffusa e un po' malinconica del tramonto di Istanbul. È ora di tornare a Beyoglu.
Che facciamo la nostra ultima sera a Istanbul? Dopo aver girato in tondo per il quartiere di Cucurkuma e aver dato un occhio alla scalinata di Cezaiyr, che qualche guida definisce una specie di Trastevere di Istanbul (in realtà è solo un posto altrettanto finto e pieno di ristoranti), decidiamo che il caffè-ristorante dove abbiamo preso il cheesecake l'altra sera andrà benissimo. E così mangiamo un antipasto, un tortino di verdure al forno e un'altra fetta di cheesecake, beviamo un bicchiere di raki e due tisane e anche per stasera siamo soddisfatte. Domani si parte. Sigh.
La prima è ormai un museo (e dunque niente velo e niente scarpe in bustina); nata come una chiesa patriarcale (con straordinari mosaici dorati che ricordano quelli di Ravenna), è poi stata convertita in moschea e infine è diventata un museo, e queste sue diverse fasi di vita si vedono benissimo nella sua struttura che da un lato ricorda le chiese cristiane (3 navate e gallerie sovrastanti le navate laterali), dall'altro ha tutte le caratteristiche riconoscibili nelle altre moschee che abbiamo visitato. Bella e ricca, imponente e leggiadra al tempo stesso, segno inconfondibile nello skyline di Istanbul.
Il Topkapi è un posto immenso, tre giardini che si aprono uno nell'altro, disseminati di palazzetti, residenze, spazi di servizio, luoghi di preghiera, biblioteca, poiché l'estro dei sultani che si sono succeduti lo ha nel tempo ingrandito e arricchito. Occupa una posizione straordinaria, l'estrema punta del Corno d'Oro da cui la vista spazia sia verso la costa europea sia verso quella asiatica. Non possiamo perdere la visita (con ingresso separato) alle residenze private dei sultani, quello che noi conosciamo come harem, un luogo affascinante soprattutto per l'organizzazione della vita al suo interno e il racconto degli intrighi che lo caratterizzavano, nonché per la ricchezza delle decorazioni maiolicate con cui ciascun sultano provava a superare per originalità e sfarzo il precedente.
È tempo di lasciare Sultanahmet. Istanbul è anche altro. E io sono curiosissima di visitare i quartieri di Fatih e Fener, che i blogger di Scoprire Istanbul raccomandano caldamente. È il quartiere dei musulmani ortodossi, per gran parte immigrati dall'Est della Turchia, un dedalo di viuzze di cui neppure le mappe più aggiornate della città riescono a tenere esattamente traccia, rendendo l'impresa di visitare da soli questi quartieri non facile.
Noi ci arriviamo costeggiando l'acquedotto romano di Valente (Bozdoğan Kemeri, "Acquedotto del falco grigio") e imboccando l'Itfaiye Caddesi. Superato l'arco dell'acquedotto, ci ritroviamo in una strada/piazza dove sembra essere giornata di mercato. Intorno a noi prevalentemente uomini e poche donne coperte di nero dalla testa ai piedi. I negozi che si sviluppano lungo la strada traboccano di merci, soprattutto gastronomiche: formaggi, frutta secca, carne e teste di capretto in bella mostra. È ora di pranzo.
C'è l'imbarazzo della scelta, ma non riusciamo a individuare immediatamente il posto suggerito da Scoprire Istanbul così entriamo da Ziyafet (con il promettente sottotitolo Büryan e Kebap). C'è una cappa a vista, un banchetto come cassa. Due tavoli sono occupati da uomini che mangiano e parlano. Il menu è su carta plastificata, solo in turco. Per fortuna c'è qualche foto e qualche termine l'abbiamo imparato. Non osiamo troppo; alla fine prendiamo un piatto di içli köfte (polpette in pastella ripiene di carne speziata) e un kebap di pollo al piatto. Ci accompagna sia durante il pasto sia alla fine il thè turco. Temiamo che i contanti che abbiamo non bastino. Ma niente paura. 25 lire turche (10 euro) in due! :-)
Giro per il mercato e poi ci inoltriamo in una stradina da cui arriva un'intera famiglia di musulmani ortodossi (due uomini con sottane lunghe sopra i pantaloni larghi e 3-4 donne completamente coperte), ma non siamo sicure di poterci addentrare senza perderci. Ci sono bambini che giocano a pallone e che quando passi tirano fuori il loro pacchetto di fazzoletti da venderti a una lira. C'è una signora anziana che accende un fuoco per strada mentre i bambini le saltellano intorno. Ci sono due ragazzetti che aggiustano un motorino. Ci sono i panni stesi per strada. Mi ricorda un po' la Bari vecchia della mia infanzia.
Non sappiamo quali strade seguire verso Fener, così rinunciamo e imboccando uno stradone di quelli che si attraversano solo con i sottopassaggi (gli stessi sottopassaggi che si trasformano di giorno in altrettanti mercati coperti organizzati di solito per tipologia di merce: c'è il sottopassaggio dei piccoli elettrodomestici; c'è quello delle vernici e delle carte da parati e così via...) ritorniamo verso Eminönü (quanto mi piace pronunciarlo così: Emignognù).
Io voglio assolutamente comprare delle cose al Mısır Çarşısı, in particolare una tenda separatrice sbrilluccicante per la casa nuova. Compriamo anche dei portabottiglie di paglia, dei mestoli da cucina, mangiamo un Künefe, uno strano dolce che al centro ha del formaggio fuso (buonissimo!) e poi torniamo verso l'albergo. Questa volta troviamo l'ingresso della funicolare a Tünel, ma non capiamo se con lo stesso biglietto possiamo salire anche sul tram che - passando in mezzo alla folla - attraversa la Istiklal Caddesi. Così anche questa volta ce la facciamo a piedi.
Distrutte, decidiamo di andare a cena in un posto praticamente sotto l'albergo, nella Vidinli Tevfik Paşa Caddesi. Qualche turco c'è, ma il target è straniero. Arriva il cameriere che ci chiede se vogliamo vedere gli antipasti. Noi capiamo che dobbiamo seguirlo, ma quando vediamo che si infila in cucina ci viene il dubbio di aver capito male. In realtà ne esce con un vassoio che contiene una porzione di tutti gli antipasti disponibili, da cui scegliere a vista cosa vogliamo. Segue una buonissima carne alla griglia accompagnata da bulgur al pomodoro. Abbiamo ancora voglia di un giretto. Nella stessa strada abbiamo visto un bar molto carino dove l'altra sera non c'era posto. Questa sera riusciamo a sederci. Atmosfera molto molto fashion, arredamento di modernariato che crea un'atmosfera molto rilassata e familiare. Beviamo un bicchiere di raki (sì, è proprio uguale all'ouzo) e poi una tisana alle erbe buonissima e servita in un modo spettacolare accompagna un cheesecake così buono che sembra di stare a New York.
L'ultimo giorno (domenica) abbiamo in programma una gita sulla sponda asiatica, anche perché tutte le guide dicono che bisogna prendere il traghetto sul Bosforo e bisogna vedere Istanbul da lì. Effettivamente lo spettacolo di Istanbul dal Bosforo è straordinario per i numerosi palazzi che sorgono sulle sue rive, come l'enorme Palazzo Dolmabahçe.
Scendiamo a Üsküdar e intanto ci avviamo verso il quartiere di Kuzguncuk, zona residenziale apparentemente piuttosto ricca e ben abitata (sebbene a Istanbul ricchezza e povertà, bellezza e bruttezza spesso convivono a distanze ravvicinate), tanti localini, case di legno, e grandi salite e discese che sembra di stare a San Francisco (sebbene non ci sia mai stata!). Raggiungiamo il cucuzzolo di un colle dove c'è - che te lo dico a fare - una moschea e da lì si vede il Bosforo e il grande ponte che collega la sponda asiatica e quella europea.
Il tempo di scendere di nuovo a riva ed è ora di pranzo. Perché non provare il ristorante Ismet Baba, consigliato da Scoprire Istanbul? Non ce ne pentiamo... Pesce salato, pesto di fave, anelli di calamaro fritti a puntino, un pesce alla griglia buonissimo. Non lontano da noi c'è un tavolo di italiani, accompagnati da una coppia italo-turca. Mi faccio il film che sono la coppia di Scoprire Istanbul; peccato che in questo caso il turco è lui e non lei... ;-)
Prendiamo al volo un autobus dove non sappiamo come pagare il biglietto e scendiamo di nuovo al porto per esplorare a sud del porto. Sosta in un supermercato a fare scorta di spezie, visita a un bellissimo mercato gastronomico e poi lungomare fino alla Kızkulesi, l'isola con la torre che guarda verso il Corno d'oro. È quasi ora del tramonto. Amiche, coppiette, uomini e donne stanno seduti sui tappeti stesi sui gradoni del lungomare e serviti dai baracchini lì vicini, bevono thè, si scambiano effusioni, chiacchierano di fronte allo spettacolo inimitabile della silhouette della città che si staglia nella luce soffusa e un po' malinconica del tramonto di Istanbul. È ora di tornare a Beyoglu.
Che facciamo la nostra ultima sera a Istanbul? Dopo aver girato in tondo per il quartiere di Cucurkuma e aver dato un occhio alla scalinata di Cezaiyr, che qualche guida definisce una specie di Trastevere di Istanbul (in realtà è solo un posto altrettanto finto e pieno di ristoranti), decidiamo che il caffè-ristorante dove abbiamo preso il cheesecake l'altra sera andrà benissimo. E così mangiamo un antipasto, un tortino di verdure al forno e un'altra fetta di cheesecake, beviamo un bicchiere di raki e due tisane e anche per stasera siamo soddisfatte. Domani si parte. Sigh.
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martedì 20 dicembre 2011
The artist
Ha ragione la mia amica G. che all'apparire dei titoli di coda ha esclamato: "Questo film ti riconcilia con la vita e con il mondo!".
Il coraggioso film muto e in bianco e nero di Michel Hazanavicius è esattamente il contrario di un film noioso e intellettuale. Cercherò di raccontarvelo con cinque aggettivi: citazionista, malinconico, commovente, ironico, liberatorio.
Citazionista perché - anche se le mie conoscenze cinematografiche non sono così estese da consentirmi un riconoscimento puntuale ed esaustivo - è evidente che The artist è un omaggio a 360° a un cinema che non c'è più, un cinema che riusciva a essere altamente comunicativo pur essendo sostanzialmente privo di mezzi tecnici. George Valentin (Jean Dujardin) che dà fuoco alle pellicole e quasi muore nel rogo che investe tutta la casa mi ha ricordato la scena clou di Fahrenheit 451, la comunicazione non verbale di George e Peppy separati da una tenda mi ha ricordato Accadde una notte di Frank Capra, i balletti finali mi hanno riportato davanti agli occhi Fred Astaire e Ginger Rogers. E poi chissà quanti altri film si potrebbero riconoscere.
Ma - forse proprio in quanto citazionista - The artist è anche un film malinconico perché racconta la storia di una star dei film muti, George Valentin, che - all'avvento del sonoro - cade in disgrazia in quanto non crede nel futuro dei film in cui gli attori parlano e si rifiuta di essere coinvolto da questo nuovo mondo cinematografico che non capisce e lo spaventa. George è dunque presto soppiantato in popolarità dalla scoppiettante Peppy Miller (Bérénice Bejo), la nuova star dei film sonori che è però da sempre innamorata di lui. Il film mi ha ricordato - per l'atmosfera complessiva e per il gusto retrò - L'illusionista di Sylvain Chomet, che pure raccontava la storia di un passaggio d'epoca e la tristezza di chi non trova un proprio ruolo nel mondo nuovo.
The artist è anche commovente perché l'assenza di voce e di suoni, eccetto quelli dell'orchestra che - come ci viene illustrato - accompagnava dal vivo lo svolgersi dei film muti, è per George non una costrizione determinata da un limite tecnico, bensì una specie di scelta culturale ed esistenziale. Non è un caso che il suo migliore amico, quello che più capisce e da cui più è capito è il suo cane. Nel mondo di George non c'è bisogno di sentire e capire tutte le parole degli altri, perché la comunicazione utilizza tutti gli altri canali che non siano la parola. Ed effettivamente niente ci manca realmente per capire i caratteri e i sentimenti dei personaggi.
Non si tratta però di un film lacrimevole, anzi densamente ironico perché - come è nella tradizione dei film muti - molta parte della storia è affidata alle invenzioni visive e all'espressività degli attori la cui recitazione - tutta fisica - deve necessariamente essere un po' sopra le righe per rappresentare il personaggio. E così The artist non annoia mai e riesce a sorprendere lo spettatore a più riprese: come quando nell'assenza totale di suoni che non siano la musica di sottofondo si cominciano a sentire dei rumori, quelli che popolano l'incubo di George Valentin; o quando Peppy Miller intrufolatasi nel camerino di George infila il braccio nella manica della sua giacca su un appendiabiti e finge di scambiare effusioni con lui; o ancora quando George produce e gira il suo ultimo, epico film muto Tears of love ambientato nella giungla e - avendo bevuto troppo - ha le allucinazioni; quando George e Peppy si incontrano su e giù per una scala vista lateralmente per consentirci di ammirarne la sezione geometrica; o infine quando alla fine del film il riconciliarsi di George con il mondo del cinema viene segnato dalla ricomparsa delle parole.
Per concludere, The artist è un film liberatorio, perché ci libera dalla parola e dal rumore, dalla tecnologia e dall'abuso dei mezzi tecnici, dai sentimenti troppo sottotraccia, dall'intellettualismo a tutti i costi, dalle trame ipercomplesse, dalla banalità delle sceneggiature, dalla finta bellezza contemporanea. È un film liberatorio perché ridona alla musica la capacità di raccontare ed è a tratti talmente trascinante da spingerci a ballare.
Forse abbiamo proprio bisogno di riscoprire la semplicità, che sempre di più oggi diventa sinonimo di intelligenza, bellezza e armonia con il mondo circostante.
Voto: 4,5/5
Il coraggioso film muto e in bianco e nero di Michel Hazanavicius è esattamente il contrario di un film noioso e intellettuale. Cercherò di raccontarvelo con cinque aggettivi: citazionista, malinconico, commovente, ironico, liberatorio.
Citazionista perché - anche se le mie conoscenze cinematografiche non sono così estese da consentirmi un riconoscimento puntuale ed esaustivo - è evidente che The artist è un omaggio a 360° a un cinema che non c'è più, un cinema che riusciva a essere altamente comunicativo pur essendo sostanzialmente privo di mezzi tecnici. George Valentin (Jean Dujardin) che dà fuoco alle pellicole e quasi muore nel rogo che investe tutta la casa mi ha ricordato la scena clou di Fahrenheit 451, la comunicazione non verbale di George e Peppy separati da una tenda mi ha ricordato Accadde una notte di Frank Capra, i balletti finali mi hanno riportato davanti agli occhi Fred Astaire e Ginger Rogers. E poi chissà quanti altri film si potrebbero riconoscere.
Ma - forse proprio in quanto citazionista - The artist è anche un film malinconico perché racconta la storia di una star dei film muti, George Valentin, che - all'avvento del sonoro - cade in disgrazia in quanto non crede nel futuro dei film in cui gli attori parlano e si rifiuta di essere coinvolto da questo nuovo mondo cinematografico che non capisce e lo spaventa. George è dunque presto soppiantato in popolarità dalla scoppiettante Peppy Miller (Bérénice Bejo), la nuova star dei film sonori che è però da sempre innamorata di lui. Il film mi ha ricordato - per l'atmosfera complessiva e per il gusto retrò - L'illusionista di Sylvain Chomet, che pure raccontava la storia di un passaggio d'epoca e la tristezza di chi non trova un proprio ruolo nel mondo nuovo.
The artist è anche commovente perché l'assenza di voce e di suoni, eccetto quelli dell'orchestra che - come ci viene illustrato - accompagnava dal vivo lo svolgersi dei film muti, è per George non una costrizione determinata da un limite tecnico, bensì una specie di scelta culturale ed esistenziale. Non è un caso che il suo migliore amico, quello che più capisce e da cui più è capito è il suo cane. Nel mondo di George non c'è bisogno di sentire e capire tutte le parole degli altri, perché la comunicazione utilizza tutti gli altri canali che non siano la parola. Ed effettivamente niente ci manca realmente per capire i caratteri e i sentimenti dei personaggi.
Non si tratta però di un film lacrimevole, anzi densamente ironico perché - come è nella tradizione dei film muti - molta parte della storia è affidata alle invenzioni visive e all'espressività degli attori la cui recitazione - tutta fisica - deve necessariamente essere un po' sopra le righe per rappresentare il personaggio. E così The artist non annoia mai e riesce a sorprendere lo spettatore a più riprese: come quando nell'assenza totale di suoni che non siano la musica di sottofondo si cominciano a sentire dei rumori, quelli che popolano l'incubo di George Valentin; o quando Peppy Miller intrufolatasi nel camerino di George infila il braccio nella manica della sua giacca su un appendiabiti e finge di scambiare effusioni con lui; o ancora quando George produce e gira il suo ultimo, epico film muto Tears of love ambientato nella giungla e - avendo bevuto troppo - ha le allucinazioni; quando George e Peppy si incontrano su e giù per una scala vista lateralmente per consentirci di ammirarne la sezione geometrica; o infine quando alla fine del film il riconciliarsi di George con il mondo del cinema viene segnato dalla ricomparsa delle parole.
Per concludere, The artist è un film liberatorio, perché ci libera dalla parola e dal rumore, dalla tecnologia e dall'abuso dei mezzi tecnici, dai sentimenti troppo sottotraccia, dall'intellettualismo a tutti i costi, dalle trame ipercomplesse, dalla banalità delle sceneggiature, dalla finta bellezza contemporanea. È un film liberatorio perché ridona alla musica la capacità di raccontare ed è a tratti talmente trascinante da spingerci a ballare.
Forse abbiamo proprio bisogno di riscoprire la semplicità, che sempre di più oggi diventa sinonimo di intelligenza, bellezza e armonia con il mondo circostante.
Voto: 4,5/5
lunedì 19 dicembre 2011
Istanbul: città sospesa tra passato e futuro. I parte
Mi accorgo ora che è il primo post che scrivo a dicembre. Non credo sia mai accaduto nella storia di questo blog ;-) Ma - capirete - con lavori in casa e un trasloco in corso sono stata un po' presa. Ho trovato però il tempo di viaggiare seppure soltanto per un fine settimana.
Sono riuscita finalmente ad utilizzare i punti Millemiglia che in parte avevo accumulato durante i sei mesi di lavoro a Bruxelles, in parte avevo ottenuto convertendo i punti Vodafone. In realtà, questi punti Millemiglia sono una mezza sòla (come dicono a Roma), perché devi prenotare con mesi e mesi di anticipo se vuoi sperare di trovare posto su un volo decente e perché devi comunque pagare le tasse aeroportuali che rappresentano una parte significativa del biglietto.
In ogni caso, questi due soffertissimi biglietti Millemiglia Roma-Istanbul AR ci hanno portato a Istanbul durante i 4 giorni del ponte dell'Immacolata e così abbiamo potuto tener fede alla promessa che avevamo fatto dopo il nostro assaggio estivo di Turchia.
Il nostro albergo sta nella zona di Cihangir, nella parte più europea della città. Abbiamo seguito il consiglio della coppia italo-turca che cura il blog Scoprire Istanbul e abbiamo evitato gli alberghi costosi e non sempre all'altezza che stanno nella zona cosiddetta "storica" di Sultanahmet, una zona ormai troppo turistica, sostanzialmente estranea alla vita vera della città e che tende a svuotarsi di sera.
La zona di Cihangir confina con i quartieri di Cucurkuma e Beyoglu, che sono tra i quartieri più vitali e in più rapida evoluzione della città. Siamo su uno dei sette colli su cui si sviluppa Istanbul (preparatevi a salite e discese piuttosto impegnative!), più o meno a metà strada tra la torre di Galata (quella costruita dai genovesi e ora diventata sede di un ristorante di lusso e principale punto di osservazione sulla città) e piazza Taksim.
In quest'area della città passa la Istiklal Caddesi, la strada dello struscio e dei negozi occidentali, dove milioni di persone si riversano ogni giorno dal pomeriggio fino a tarda notte e dove obiettivamente è difficile realizzare di essere a Istanbul piuttosto che a Londra o a Berlino. Anche noi l'abbiamo attraversata in lungo e in largo più volte, di solito prima di imboccare o sbucando dalla Turnacibaşi Caddesi, che, passando attraverso il quartiere dei negozi di modernariato e oggetti vintage e dei locali alla moda, ci portava dritti dritti al nostro albergo.
Ma andiamo per ordine. Atterrate all'aeroporto di Ataturk, la prima cosa che ci colpisce è il sistema dei gettoni per i mezzi pubblici. Avete presenti i gettoni delle giostre? Con un euro ti danno un gettone di plastica che quando infili nell'apposito spazio della macchina da scontro, quella si attiva per un po'. Qui il gettone lo prendi (al costo di 1 o 2 lire) e magicamente fa aprire i tornelli che regolano l'accesso sia alla metropolitana che ai tram e agli autobus! Prendiamo così la comodissima metropolitana per Aksaray e da qui - dopo un po' di strada a piedi - siamo alla fermata del T1 (l'unico mezzo che unisce il Corno d'oro all'altra sponda, attraverso il ponte di Galata).
Dalla fermata la prima sosta è a una lokantasi, una trattoria con i piatti esposti in vetrina, dove il personale sta mangiando perché è quasi ora di chiusura, ma mangiamo abbondante e ci trattano benissimo. Poi ci perdiamo nel dedalo di stradine in salita, ma alla fine siamo in albergo (dove la reception è parcheggiata su una microscrivania in una stanza vuota con i lavori in corso :-D).
Sistemate le valigie, è già ora di cena. Ci siamo dirette alla Nevizade Sokak, la strada ad altissima concentrazione di ristoranti, bar e tavolini dove gli stessi abitanti di Istanbul vanno a trascorrere le loro serate. Si fa fatica a farsi largo tra persone e tavolini, così decidiamo che tutta questa vita sociale la prima sera ad Istanbul non fa per noi e dunque torniamo sui nostri passi verso un ristorante che avevamo notato lungo la strada, Şehir Meyhanesi. In realtà siamo a lungo indecise tra questo e il ristorante vicino, la cui sala - come accade per molti ristoranti di Istanbul - è seminterrata e dove ci sono moltissimi turchi che mangiano. Alla fine decidiamo per l'altro (ma ci è rimasto il dubbio che il primo fosse meglio). Il ristorante ha due sale, una un po' meno fashion al piano rialzato (ovviamente quella dove finiamo noi!) e una molto trendy al piano superiore, dove ci sono stranieri e turchi.
I nostri primi contatti con la gente sono molto positivi. Come dice C., gli abitanti di Istanbul hanno un'aria rilassata, ma attenta che ci mette francamente a nostro agio. Il nostro cameriere ci porta a guardare gli antipasti esposti in vetrina e ce li spiega ad uno ad uno. Scegliamo un po' di cose che avevamo imparato a conoscere durante il nostro viaggio estivo in Grecia e altre il cui aspetto ci attira proprio! Tutto buonissimo. E siamo già sazie. Decidiamo di concludere con delle alicette fritte, ma forse non è la scelta più indovinata. La frittura è un po' moscia e non ci soddisfa molto. L'ouzo che beviamo alla fine del pasto (perché non sappiamo ancora che il raki è praticamente identico) è un vero e proprio tuffo nella vacanza greca.
Il giorno dopo il programma è di andare a Sultanahmet. Sarà pure turistica, ma mica possiamo saltarla... Attraversiamo a piedi il ponte di Galata, dove sostano costantemente decine e decine di pescatori che cercano di sfruttare la ricchezza delle acque del Bosforo a vantaggio dei ristoranti sottostanti, da cui - a dire il vero - non viene un odore favoloso. Passando attraverso il mercato delle spezie (Mısır Çarşısı), saliamo verso la Moschea di Solimano (Sülemaniye camii), dove si sta accumulando moltissima gente. Gli uomini fanno le abluzioni alle fontane, le donne aspettano fuori con i loro scatoloni che - capiremo solo dopo - contengono monoporzioni di cibo destinate a sfamare gli uomini alla fine della preghiera.
Mentre ci togliamo le scarpe e ci mettiamo il velo, una guardia ci ferma perché durante l'ora della preghiera i non musulmani non possono entrare e io resto bloccata sulla soglia mentre una folla inimmaginabile mi travolge (ognuno con la sua busta di scarpe in mano) affrettandosi al richiamo del muezzin.
Che fare mentre i musulmani pregano? Noi occidentali consumisti andremo al Gran Bazar (Kapalıçarşı), facendo attenzione a non starci troppo a lungo e a non essere sorprese dal successivo canto del muezzin. La nostra visita al Gran Bazar - che è un dedalo di stradine (al coperto) straripanti di colori - ha una finalità principale: ritrovare quegli splendidi asciugamani di cotone di cui avevamo fatto scorta - ma non a sufficienza - ad Ayvalik. Effettivamente se ne vedono numerosi in giro, ma a una prima occhiata non si capisce esattamente quanto costano, anche perché - tutte le guide lo dicono - bisogna "contrattare". E noi siamo fortemente negate. C. più di me.
Ci fermiamo alla fine a un banchetto e con una trattativa non esattamente serrata li otteniamo a 17 lire turche a pezzo (circa 7 euro). Siamo soddisfatte, anche se forse si poteva spuntare un prezzo migliore.
Torniamo sui nostri passi verso la moschea. Non c'è quasi più nessuno e anche gli scatoloni pieni di cibo sono finiti mentre i contenitori di alluminio affollano i cestini della spazzatura. Via le scarpe, su il velo. Eccoci nella moschea. Un grande spazio quasi vuoto con grandi candelabri (che oggi portano luci elettriche e non candele), completamente ricoperto di tappeti e con le pareti maiolicate. Qualche musulmano prega nella sua maniera molto fisica. Lo spazio per le donne è limitato a un rettangolo chiuso da un cancelletto. Tutto abbastanza impressionante.
Dopo un pranzo a base di kebap (ma ricordatevi che noi usiamo questo termine del tutto impropriamente, in quanto kebap fa riferimento alla carne arrosto che però può poi essere preparata in mille modi; lo spiedo è il döner kebap, mentre la carne avvolta nella piadina è il dürüm kebap) che ci costerà più di alcune buonissime cene dei giorni successivi, il nostro giro delle moschee prosegue con la Moschea Blu (Sultanahmet camii), che con i suoi sei minareti è riconoscibile da ogni parte della città. Ormai la trafila la conosciamo e a questo punto non ci aspettiamo molto di diverso. E invece l'interno di questa moschea è sorprendente per la straordinarietà delle decorazioni sulle pareti. Il tempo di qualche di qualche foto e siamo di nuovo per le vie della città.
Per oggi basta con le moschee. Ma non molto distante dalla Moschea Blu c'è la Cisterna Basilica (Yerebatan Sarayı), un'immensa cisterna di acqua fatta costruire durante l'impero di Giustiniano. La cisterna è un posto magico, perché si cammina su passerelle in mezzo a centinaia di colonne suggestivamente illuminate che affondano nell'acqua. Il colpo d'occhio è fantastico, così come è sorprendente l'uso delle due teste di Medusa (una capovolta e una di lato) usate come base di altrettante colonne.
Siamo distrutte. È ora di tornare verso l'albergo. Che dici, prendiamo la funicolare dopo il ponte di Galata, così non facciamo la salita? Peccato che non troviamo l'ingresso e facciamo la scarpinata trovandoci ai piedi della torre di Galata. E ora che siamo qui - vabbè che c'è una fila mostruosa - ma tanto vale salire al balcone panoramico. C'è pure la luna piena.
Lo spettacolo è effettivamente straordinario e nonostante io non stia benissimo vale davvero la pena.
Trottiamo fino all'albergo. Stasera siamo a cena con R. e F., due amici italiani che sono anche loro lì per il ponte, da Haci Abdullah, vicino la Istiklal. Antipasto di verdure ripiene (foglie di vite, cavoli, peperoni, pomodori ecc. - buonissimi!), galletto su purea di melanzane (un po' insipido), eccezionali polpette di carne (köfte) con verdure. Infine il thè turco fortissimo. È ora di andare a dormire. Chissà se ci riusciremo...
Sono riuscita finalmente ad utilizzare i punti Millemiglia che in parte avevo accumulato durante i sei mesi di lavoro a Bruxelles, in parte avevo ottenuto convertendo i punti Vodafone. In realtà, questi punti Millemiglia sono una mezza sòla (come dicono a Roma), perché devi prenotare con mesi e mesi di anticipo se vuoi sperare di trovare posto su un volo decente e perché devi comunque pagare le tasse aeroportuali che rappresentano una parte significativa del biglietto.
In ogni caso, questi due soffertissimi biglietti Millemiglia Roma-Istanbul AR ci hanno portato a Istanbul durante i 4 giorni del ponte dell'Immacolata e così abbiamo potuto tener fede alla promessa che avevamo fatto dopo il nostro assaggio estivo di Turchia.
Il nostro albergo sta nella zona di Cihangir, nella parte più europea della città. Abbiamo seguito il consiglio della coppia italo-turca che cura il blog Scoprire Istanbul e abbiamo evitato gli alberghi costosi e non sempre all'altezza che stanno nella zona cosiddetta "storica" di Sultanahmet, una zona ormai troppo turistica, sostanzialmente estranea alla vita vera della città e che tende a svuotarsi di sera.
La zona di Cihangir confina con i quartieri di Cucurkuma e Beyoglu, che sono tra i quartieri più vitali e in più rapida evoluzione della città. Siamo su uno dei sette colli su cui si sviluppa Istanbul (preparatevi a salite e discese piuttosto impegnative!), più o meno a metà strada tra la torre di Galata (quella costruita dai genovesi e ora diventata sede di un ristorante di lusso e principale punto di osservazione sulla città) e piazza Taksim.
In quest'area della città passa la Istiklal Caddesi, la strada dello struscio e dei negozi occidentali, dove milioni di persone si riversano ogni giorno dal pomeriggio fino a tarda notte e dove obiettivamente è difficile realizzare di essere a Istanbul piuttosto che a Londra o a Berlino. Anche noi l'abbiamo attraversata in lungo e in largo più volte, di solito prima di imboccare o sbucando dalla Turnacibaşi Caddesi, che, passando attraverso il quartiere dei negozi di modernariato e oggetti vintage e dei locali alla moda, ci portava dritti dritti al nostro albergo.
Ma andiamo per ordine. Atterrate all'aeroporto di Ataturk, la prima cosa che ci colpisce è il sistema dei gettoni per i mezzi pubblici. Avete presenti i gettoni delle giostre? Con un euro ti danno un gettone di plastica che quando infili nell'apposito spazio della macchina da scontro, quella si attiva per un po'. Qui il gettone lo prendi (al costo di 1 o 2 lire) e magicamente fa aprire i tornelli che regolano l'accesso sia alla metropolitana che ai tram e agli autobus! Prendiamo così la comodissima metropolitana per Aksaray e da qui - dopo un po' di strada a piedi - siamo alla fermata del T1 (l'unico mezzo che unisce il Corno d'oro all'altra sponda, attraverso il ponte di Galata).
Dalla fermata la prima sosta è a una lokantasi, una trattoria con i piatti esposti in vetrina, dove il personale sta mangiando perché è quasi ora di chiusura, ma mangiamo abbondante e ci trattano benissimo. Poi ci perdiamo nel dedalo di stradine in salita, ma alla fine siamo in albergo (dove la reception è parcheggiata su una microscrivania in una stanza vuota con i lavori in corso :-D).
Sistemate le valigie, è già ora di cena. Ci siamo dirette alla Nevizade Sokak, la strada ad altissima concentrazione di ristoranti, bar e tavolini dove gli stessi abitanti di Istanbul vanno a trascorrere le loro serate. Si fa fatica a farsi largo tra persone e tavolini, così decidiamo che tutta questa vita sociale la prima sera ad Istanbul non fa per noi e dunque torniamo sui nostri passi verso un ristorante che avevamo notato lungo la strada, Şehir Meyhanesi. In realtà siamo a lungo indecise tra questo e il ristorante vicino, la cui sala - come accade per molti ristoranti di Istanbul - è seminterrata e dove ci sono moltissimi turchi che mangiano. Alla fine decidiamo per l'altro (ma ci è rimasto il dubbio che il primo fosse meglio). Il ristorante ha due sale, una un po' meno fashion al piano rialzato (ovviamente quella dove finiamo noi!) e una molto trendy al piano superiore, dove ci sono stranieri e turchi.
I nostri primi contatti con la gente sono molto positivi. Come dice C., gli abitanti di Istanbul hanno un'aria rilassata, ma attenta che ci mette francamente a nostro agio. Il nostro cameriere ci porta a guardare gli antipasti esposti in vetrina e ce li spiega ad uno ad uno. Scegliamo un po' di cose che avevamo imparato a conoscere durante il nostro viaggio estivo in Grecia e altre il cui aspetto ci attira proprio! Tutto buonissimo. E siamo già sazie. Decidiamo di concludere con delle alicette fritte, ma forse non è la scelta più indovinata. La frittura è un po' moscia e non ci soddisfa molto. L'ouzo che beviamo alla fine del pasto (perché non sappiamo ancora che il raki è praticamente identico) è un vero e proprio tuffo nella vacanza greca.
Il giorno dopo il programma è di andare a Sultanahmet. Sarà pure turistica, ma mica possiamo saltarla... Attraversiamo a piedi il ponte di Galata, dove sostano costantemente decine e decine di pescatori che cercano di sfruttare la ricchezza delle acque del Bosforo a vantaggio dei ristoranti sottostanti, da cui - a dire il vero - non viene un odore favoloso. Passando attraverso il mercato delle spezie (Mısır Çarşısı), saliamo verso la Moschea di Solimano (Sülemaniye camii), dove si sta accumulando moltissima gente. Gli uomini fanno le abluzioni alle fontane, le donne aspettano fuori con i loro scatoloni che - capiremo solo dopo - contengono monoporzioni di cibo destinate a sfamare gli uomini alla fine della preghiera.
Mentre ci togliamo le scarpe e ci mettiamo il velo, una guardia ci ferma perché durante l'ora della preghiera i non musulmani non possono entrare e io resto bloccata sulla soglia mentre una folla inimmaginabile mi travolge (ognuno con la sua busta di scarpe in mano) affrettandosi al richiamo del muezzin.
Che fare mentre i musulmani pregano? Noi occidentali consumisti andremo al Gran Bazar (Kapalıçarşı), facendo attenzione a non starci troppo a lungo e a non essere sorprese dal successivo canto del muezzin. La nostra visita al Gran Bazar - che è un dedalo di stradine (al coperto) straripanti di colori - ha una finalità principale: ritrovare quegli splendidi asciugamani di cotone di cui avevamo fatto scorta - ma non a sufficienza - ad Ayvalik. Effettivamente se ne vedono numerosi in giro, ma a una prima occhiata non si capisce esattamente quanto costano, anche perché - tutte le guide lo dicono - bisogna "contrattare". E noi siamo fortemente negate. C. più di me.
Ci fermiamo alla fine a un banchetto e con una trattativa non esattamente serrata li otteniamo a 17 lire turche a pezzo (circa 7 euro). Siamo soddisfatte, anche se forse si poteva spuntare un prezzo migliore.
Torniamo sui nostri passi verso la moschea. Non c'è quasi più nessuno e anche gli scatoloni pieni di cibo sono finiti mentre i contenitori di alluminio affollano i cestini della spazzatura. Via le scarpe, su il velo. Eccoci nella moschea. Un grande spazio quasi vuoto con grandi candelabri (che oggi portano luci elettriche e non candele), completamente ricoperto di tappeti e con le pareti maiolicate. Qualche musulmano prega nella sua maniera molto fisica. Lo spazio per le donne è limitato a un rettangolo chiuso da un cancelletto. Tutto abbastanza impressionante.
Dopo un pranzo a base di kebap (ma ricordatevi che noi usiamo questo termine del tutto impropriamente, in quanto kebap fa riferimento alla carne arrosto che però può poi essere preparata in mille modi; lo spiedo è il döner kebap, mentre la carne avvolta nella piadina è il dürüm kebap) che ci costerà più di alcune buonissime cene dei giorni successivi, il nostro giro delle moschee prosegue con la Moschea Blu (Sultanahmet camii), che con i suoi sei minareti è riconoscibile da ogni parte della città. Ormai la trafila la conosciamo e a questo punto non ci aspettiamo molto di diverso. E invece l'interno di questa moschea è sorprendente per la straordinarietà delle decorazioni sulle pareti. Il tempo di qualche di qualche foto e siamo di nuovo per le vie della città.
Per oggi basta con le moschee. Ma non molto distante dalla Moschea Blu c'è la Cisterna Basilica (Yerebatan Sarayı), un'immensa cisterna di acqua fatta costruire durante l'impero di Giustiniano. La cisterna è un posto magico, perché si cammina su passerelle in mezzo a centinaia di colonne suggestivamente illuminate che affondano nell'acqua. Il colpo d'occhio è fantastico, così come è sorprendente l'uso delle due teste di Medusa (una capovolta e una di lato) usate come base di altrettante colonne.
Siamo distrutte. È ora di tornare verso l'albergo. Che dici, prendiamo la funicolare dopo il ponte di Galata, così non facciamo la salita? Peccato che non troviamo l'ingresso e facciamo la scarpinata trovandoci ai piedi della torre di Galata. E ora che siamo qui - vabbè che c'è una fila mostruosa - ma tanto vale salire al balcone panoramico. C'è pure la luna piena.
Lo spettacolo è effettivamente straordinario e nonostante io non stia benissimo vale davvero la pena.
Trottiamo fino all'albergo. Stasera siamo a cena con R. e F., due amici italiani che sono anche loro lì per il ponte, da Haci Abdullah, vicino la Istiklal. Antipasto di verdure ripiene (foglie di vite, cavoli, peperoni, pomodori ecc. - buonissimi!), galletto su purea di melanzane (un po' insipido), eccezionali polpette di carne (köfte) con verdure. Infine il thè turco fortissimo. È ora di andare a dormire. Chissà se ci riusciremo...
lunedì 28 novembre 2011
In giro per mostre a Roma
Stimolata dalla presenza a Roma di un gruppo di amiche non romane, lo scorso è stato un weekend caratterizzato da una full immersion nell'offerta di mostre della Capitale.
Il sabato è stata interamente dedicato al Palazzo delle Esposizioni, che - dopo essere stato chiuso a lungo per lavori di ristrutturazione - è stato riaperto da qualche anno con un'offerta davvero molto interessante e varia, resa possibile anche dai grandi spazi a disposizione.
In questo periodo, con il biglietto d'ingresso - che è possibile ottenere ridotto mostrando di essere titolari di tessere come quella Feltrinelli o Arci - è possibile visitare tre mostre che, obiettivamente, in una giornata è difficile gustarsi con calma e per intero.
La prima che abbiamo visitato è quella dedicata ai Realismi socialisti, ossia alla Grande pittura sovietica 1920 - 1970, che resterà aperta fino all'8 gennaio 2012.
Il percorso della mostra è strettamente cronologico, e le sale che si sviluppano attorno all'atrio centrale offrono ciascuna un approfondimento su un arco cronologico omogeneo dal punto di vista storico e culturale. Questo filone della riscoperta della pittura sovietica non è nuovo per il Palazzo delle Esposizioni, visto che da febbraio a maggio di quest’anno è stata dedicata una mostra monografica ad Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità, del quale nella mostra attualmente in corso sono esposte alcune opere che inseriscono più chiaramente la sua poetica all’interno di una specifica temperie culturale e artistica.
Della pittura sovietica di questo cinquantennio (1920-1970) colpisce l’inevitabile parabola che da un’iniziale fase caratterizzata da una variegata sperimentazione artistica, in linea con le più importanti correnti d’avanguardia europee, vira verso contenuti e stili smaccatamente di propaganda, per effetto delle politiche culturali restrittive del regime, fino a soluzioni più intimistiche e sempre più lontane dai dettami imposti dall’alto. Il che non vuole dire che la pittura di propaganda sia realmente appiattita e ripetitiva, perché gli artisti – pur costretti in maglie molto strette – riescono comunque a esprimere emozioni, sentimenti e punti di vista spesso originali e del tutto personali.
Mentre attraversiamo le sale dedicate alla pittura sovietica l’occhio ci cade sul punto di ingresso – per dire la verità un po’ nascosto – alla seconda mostra in programma, quella dedicata ad Aleksandr Rodčenko.
A me il nome di Rodčenko non diceva assolutamente nulla prima di scoprire – grazie a questa mostra – che si tratta di uno degli artisti più eclettici del Novecento e certamente tra quelli che hanno lasciato un segno forte sul gusto grafico e fotografico contemporaneo. Al punto tale che facilmente balzerà all’occhio del visitatore che l’immagine scelta come locandina della mostra è esplicitamente richiamata nella copertina dell’album You Can Have It So Much Better di uno dei gruppi più di tendenza degli ultimi anni, i Franz Ferdinand.
Girando per le sale e osservando i lavori di Rodčenko, che spaziano dalla composizione tipografica e grafica, ai fotomontaggi, ai ritratti, alle fotografie urbane, ai reportage, mi cade l’occhio su un'altra opera famosissima dell’autore, quel Ritratto di madre che è stato oggetto di studio di molti corsi e ricerche in ambito fotografico.
A me di questa carrellata nel mondo di Rodčenko resteranno impressi i suoi sguardi obliqui, i suoi punti di vista originali, le sue foto ravvicinate di ingranaggi industriali e – sopra tutto – la vastità e varietà delle sue creazioni.
È ormai passata più di mezza giornata dal nostro ingresso al Palazzo delle Esposizioni, ma non possiamo certo perdere la terza delle mostre in corso, che occupa l’intero primo piano, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, la mostra curata da Luigi Cavalli Sforza e Telmo Pievani. Entriamo dalla parte sbagliata cosicché tutto ci sembra incomprensibile, ma quando finalmente chiediamo aiuto e veniamo ricondotte al punto di partenza ci facciamo catturare nell’incredibile viaggio raccontato da questa mostra, il viaggio dell’uomo, quello che ha dato vita alla specie umana cui apparteniamo.
Questo racconto, fatto di introduzioni scritte, di ricostruzioni tridimensionali, di reperti, di video e di soluzioni interattive, mette in discussione tutti i miei convincimenti in merito all’evoluzione e alle origini dell’uomo, visto che a scuola mi avevano insegnato che discendiamo dall’homo sapiens, ma che questo a suo volta aveva avuto come progenitore l’homo neandertalensis. E invece tutto falso, visto che queste due specie probabilmente si sono sviluppate da un ceppo comune ma hanno avuto percorsi evolutivi differenti, a conclusione dei quali non si sa bene perché l’homo sapiens è sopravvissuto e ha popolato la terra e quello neanderthalensis si è estinto. Eppure quest’ultimo pare avesse potenzialità cognitive paragonabili e un livello di adattamento al contesto addirittura superiore al primo.
Il percorso espositivo non solo ci racconta quando e come sono comparsi sulla terra i primi ominidi, ma anche come le diverse specie si sono evolute e in molti casi estinte, dopo aver raggiunto terre lontane migliaia di chilometri dal loro punto di partenza, tutto questo in parallelo con gli straordinari cambiamenti della flora e della fauna sulla terra. Inoltre ci racconta come l’homo sapiens sia sopravvissuto alle glaciazioni e come abbia scoperto l’arte, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, che hanno rappresentato il punto di partenza della crescita della civiltà e di quella che ci hanno insegnato a chiamare storia.
L’ultima sezione della mostra riepiloga la molteplicità e complessità dei contenuti esposti attirando il visitatore in una serie di divertenti giochi interattivi, come quello del riconoscimento delle razze, oppure quello che ci porta a scoprire la provenienza degli oggetti e dei concetti con cui abbiamo a che fare ogni giorno, o ancora il racconto animato e proiettato dell’evoluzione che chiude il percorso.
Personalmente ci avrei passato giorni. E devo dire che - nonostante la complessità della materia e forse l’eccesso di comunicazione scritta che caratterizza la mostra – sono uscita non solo sapendo certamente qualcosa di più sull'evoluzione umana, ma anche con numerosi stimoli alla riflessione sul rapporto tra l’uomo e la natura, sulle presunte differenze razziali, sul mistero profondo e al contempo il senso di casualità a cui è inevitabilmente riconducibile la nostra esistenza umana.
Fatto il pieno di mostre, resta giusto il tempo per qualche fotografia delle vetrine che – nella libreria del Palazzo delle Esposizioni - presentano le opere realizzate da una mia amica siciliana, creatrice del marchio Antico Valore, che realizza artigianalmente piccoli libri che diventano poi protagonisti di orecchini e collane. La sera ci aspetta una cena pugliese che mi vedrà alla prova sulle braciole (piccoli involtini ripieni di aglio, prezzemolo e pecorino) fatti cuocere nella salsa di pomodoro poi utilizzata per condire anche la pasta. Slurp!!!
La domenica il nostro tour culturale continua. Questa volta la destinazione è il MAXXI, il Museo di Arte del XXI secolo, edificio progettato da Zaha Hadid, l’architetto iracheno ormai conosciuto in tutto il mondo. Dal punto di vista architettonico il MAXXI è una realizzazione di grande impatto, con i suoi volumi semplici che si intersecano creando prospettive originali e sorprendenti. Va sottolineato che, a differenza di molte altre capitali europee, Roma è stata sin qui profondamente restia a lasciarsi colonizzare dall’architettura contemporanea. E probabilmente non a torto.
Forse per questo anche lì dove si è consentito agli architetti contemporanei di lasciare il proprio segno sul tessuto urbano si sono scelti progetti di grande qualità, ma al contempo capaci di comunicare con lo spirito e la storia di Roma. Quella del MAXXI è una realizzazione che mi rende orgogliosa della città in cui vivo, perché ha certamente conferito identità a quest’area, creando una continuità geografica ed ideale dal punto di vista architettonico tra l’Auditorium di Renzo Piano, il Palazzetto dello Sport di Perluigi Nervi e il nuovo ponte sul Tevere disegnato da Calatrava.
Ma, come nel caso dell’Auditorium, il segno architettonico non basta a creare un spazio vivibile ed accogliente se mancano i contenuti. E così, se il Parco della Musica è diventato una vera e propria fucina e piazza culturale per la città, il MAXXI si sta già proponendo come vetrina di linguaggi artistici nuovi, spazio di libertà e sperimentazione culturale.
In questo periodo il Museo ospita una mostra dal titolo Indian Highway, dedicata alla produzione (installazioni, grafica, video, pittura, opere polimateriche etc.) di giovani artisti indiani. Ci siamo andate attirate principalmente dal contenitore architettonico e invece la mostra ci ha positivamente sorprese.
Ai nostri occhi si è rivelata un’India in pieno fermento artistico e culturale, un paese che ha assorbito la lezione di stile dell’arte contemporanea occidentale, ma che ha mantenuto forte il legame con le sue radici, un paese con una profonda consapevolezza di sé e delle sue contraddizioni, con un sorprendente senso critico nei confronti del proprio passato e del proprio presente.
Si resta così sbalorditi di fronte all’installazione che ricostruisce un vecchio ufficio pubblico, con le catene che tengono legate e al sicuro dai furti tavoli e sedie e le gavette sotto ogni scrivania, o a quella che rappresenta la densità di una metropoli indiana con materiali di recupero sulle pareti interne di una stanza, o ancora il corridoio decadente in cui strani santini si affacciano dagli strappi nella carta da parati, per non parlare della foresta di incensi, delle serie a fumetti e delle numerose video-installazioni che ci sarebbero voluti due giorni per godersi appieno.
Ancora uno sguardo dall’ideale prua di questo edificio-bastimento, dalla cui vetrata aggettante sembra di essere sospesi nel vuoto, una discesa dalle scale che a tratti sembrano quelle impossibili di un edificio di Escher, una sosta sui divanetti argentati di design al piano terra, e poi eccoci di nuovo nella nostra Pandina del Car Sharing dirette verso la stazione dove ci aspetta il treno che porterà a casa le mie amiche.
Roma è una città faticosa. Non c’è dubbio.
Ma sa presentarsi nella luce migliore a chi la visita. E a volte sa farsi amare anche da chi ci vive.
Come questa volta.
Il sabato è stata interamente dedicato al Palazzo delle Esposizioni, che - dopo essere stato chiuso a lungo per lavori di ristrutturazione - è stato riaperto da qualche anno con un'offerta davvero molto interessante e varia, resa possibile anche dai grandi spazi a disposizione.
In questo periodo, con il biglietto d'ingresso - che è possibile ottenere ridotto mostrando di essere titolari di tessere come quella Feltrinelli o Arci - è possibile visitare tre mostre che, obiettivamente, in una giornata è difficile gustarsi con calma e per intero.
La prima che abbiamo visitato è quella dedicata ai Realismi socialisti, ossia alla Grande pittura sovietica 1920 - 1970, che resterà aperta fino all'8 gennaio 2012.
Il percorso della mostra è strettamente cronologico, e le sale che si sviluppano attorno all'atrio centrale offrono ciascuna un approfondimento su un arco cronologico omogeneo dal punto di vista storico e culturale. Questo filone della riscoperta della pittura sovietica non è nuovo per il Palazzo delle Esposizioni, visto che da febbraio a maggio di quest’anno è stata dedicata una mostra monografica ad Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità, del quale nella mostra attualmente in corso sono esposte alcune opere che inseriscono più chiaramente la sua poetica all’interno di una specifica temperie culturale e artistica.
Della pittura sovietica di questo cinquantennio (1920-1970) colpisce l’inevitabile parabola che da un’iniziale fase caratterizzata da una variegata sperimentazione artistica, in linea con le più importanti correnti d’avanguardia europee, vira verso contenuti e stili smaccatamente di propaganda, per effetto delle politiche culturali restrittive del regime, fino a soluzioni più intimistiche e sempre più lontane dai dettami imposti dall’alto. Il che non vuole dire che la pittura di propaganda sia realmente appiattita e ripetitiva, perché gli artisti – pur costretti in maglie molto strette – riescono comunque a esprimere emozioni, sentimenti e punti di vista spesso originali e del tutto personali.
Mentre attraversiamo le sale dedicate alla pittura sovietica l’occhio ci cade sul punto di ingresso – per dire la verità un po’ nascosto – alla seconda mostra in programma, quella dedicata ad Aleksandr Rodčenko.
A me il nome di Rodčenko non diceva assolutamente nulla prima di scoprire – grazie a questa mostra – che si tratta di uno degli artisti più eclettici del Novecento e certamente tra quelli che hanno lasciato un segno forte sul gusto grafico e fotografico contemporaneo. Al punto tale che facilmente balzerà all’occhio del visitatore che l’immagine scelta come locandina della mostra è esplicitamente richiamata nella copertina dell’album You Can Have It So Much Better di uno dei gruppi più di tendenza degli ultimi anni, i Franz Ferdinand.
Girando per le sale e osservando i lavori di Rodčenko, che spaziano dalla composizione tipografica e grafica, ai fotomontaggi, ai ritratti, alle fotografie urbane, ai reportage, mi cade l’occhio su un'altra opera famosissima dell’autore, quel Ritratto di madre che è stato oggetto di studio di molti corsi e ricerche in ambito fotografico.
A me di questa carrellata nel mondo di Rodčenko resteranno impressi i suoi sguardi obliqui, i suoi punti di vista originali, le sue foto ravvicinate di ingranaggi industriali e – sopra tutto – la vastità e varietà delle sue creazioni.
È ormai passata più di mezza giornata dal nostro ingresso al Palazzo delle Esposizioni, ma non possiamo certo perdere la terza delle mostre in corso, che occupa l’intero primo piano, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, la mostra curata da Luigi Cavalli Sforza e Telmo Pievani. Entriamo dalla parte sbagliata cosicché tutto ci sembra incomprensibile, ma quando finalmente chiediamo aiuto e veniamo ricondotte al punto di partenza ci facciamo catturare nell’incredibile viaggio raccontato da questa mostra, il viaggio dell’uomo, quello che ha dato vita alla specie umana cui apparteniamo.
Questo racconto, fatto di introduzioni scritte, di ricostruzioni tridimensionali, di reperti, di video e di soluzioni interattive, mette in discussione tutti i miei convincimenti in merito all’evoluzione e alle origini dell’uomo, visto che a scuola mi avevano insegnato che discendiamo dall’homo sapiens, ma che questo a suo volta aveva avuto come progenitore l’homo neandertalensis. E invece tutto falso, visto che queste due specie probabilmente si sono sviluppate da un ceppo comune ma hanno avuto percorsi evolutivi differenti, a conclusione dei quali non si sa bene perché l’homo sapiens è sopravvissuto e ha popolato la terra e quello neanderthalensis si è estinto. Eppure quest’ultimo pare avesse potenzialità cognitive paragonabili e un livello di adattamento al contesto addirittura superiore al primo.
Il percorso espositivo non solo ci racconta quando e come sono comparsi sulla terra i primi ominidi, ma anche come le diverse specie si sono evolute e in molti casi estinte, dopo aver raggiunto terre lontane migliaia di chilometri dal loro punto di partenza, tutto questo in parallelo con gli straordinari cambiamenti della flora e della fauna sulla terra. Inoltre ci racconta come l’homo sapiens sia sopravvissuto alle glaciazioni e come abbia scoperto l’arte, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, che hanno rappresentato il punto di partenza della crescita della civiltà e di quella che ci hanno insegnato a chiamare storia.
L’ultima sezione della mostra riepiloga la molteplicità e complessità dei contenuti esposti attirando il visitatore in una serie di divertenti giochi interattivi, come quello del riconoscimento delle razze, oppure quello che ci porta a scoprire la provenienza degli oggetti e dei concetti con cui abbiamo a che fare ogni giorno, o ancora il racconto animato e proiettato dell’evoluzione che chiude il percorso.
Personalmente ci avrei passato giorni. E devo dire che - nonostante la complessità della materia e forse l’eccesso di comunicazione scritta che caratterizza la mostra – sono uscita non solo sapendo certamente qualcosa di più sull'evoluzione umana, ma anche con numerosi stimoli alla riflessione sul rapporto tra l’uomo e la natura, sulle presunte differenze razziali, sul mistero profondo e al contempo il senso di casualità a cui è inevitabilmente riconducibile la nostra esistenza umana.
Fatto il pieno di mostre, resta giusto il tempo per qualche fotografia delle vetrine che – nella libreria del Palazzo delle Esposizioni - presentano le opere realizzate da una mia amica siciliana, creatrice del marchio Antico Valore, che realizza artigianalmente piccoli libri che diventano poi protagonisti di orecchini e collane. La sera ci aspetta una cena pugliese che mi vedrà alla prova sulle braciole (piccoli involtini ripieni di aglio, prezzemolo e pecorino) fatti cuocere nella salsa di pomodoro poi utilizzata per condire anche la pasta. Slurp!!!
La domenica il nostro tour culturale continua. Questa volta la destinazione è il MAXXI, il Museo di Arte del XXI secolo, edificio progettato da Zaha Hadid, l’architetto iracheno ormai conosciuto in tutto il mondo. Dal punto di vista architettonico il MAXXI è una realizzazione di grande impatto, con i suoi volumi semplici che si intersecano creando prospettive originali e sorprendenti. Va sottolineato che, a differenza di molte altre capitali europee, Roma è stata sin qui profondamente restia a lasciarsi colonizzare dall’architettura contemporanea. E probabilmente non a torto.
Forse per questo anche lì dove si è consentito agli architetti contemporanei di lasciare il proprio segno sul tessuto urbano si sono scelti progetti di grande qualità, ma al contempo capaci di comunicare con lo spirito e la storia di Roma. Quella del MAXXI è una realizzazione che mi rende orgogliosa della città in cui vivo, perché ha certamente conferito identità a quest’area, creando una continuità geografica ed ideale dal punto di vista architettonico tra l’Auditorium di Renzo Piano, il Palazzetto dello Sport di Perluigi Nervi e il nuovo ponte sul Tevere disegnato da Calatrava.
Ma, come nel caso dell’Auditorium, il segno architettonico non basta a creare un spazio vivibile ed accogliente se mancano i contenuti. E così, se il Parco della Musica è diventato una vera e propria fucina e piazza culturale per la città, il MAXXI si sta già proponendo come vetrina di linguaggi artistici nuovi, spazio di libertà e sperimentazione culturale.
In questo periodo il Museo ospita una mostra dal titolo Indian Highway, dedicata alla produzione (installazioni, grafica, video, pittura, opere polimateriche etc.) di giovani artisti indiani. Ci siamo andate attirate principalmente dal contenitore architettonico e invece la mostra ci ha positivamente sorprese.
Ai nostri occhi si è rivelata un’India in pieno fermento artistico e culturale, un paese che ha assorbito la lezione di stile dell’arte contemporanea occidentale, ma che ha mantenuto forte il legame con le sue radici, un paese con una profonda consapevolezza di sé e delle sue contraddizioni, con un sorprendente senso critico nei confronti del proprio passato e del proprio presente.
Si resta così sbalorditi di fronte all’installazione che ricostruisce un vecchio ufficio pubblico, con le catene che tengono legate e al sicuro dai furti tavoli e sedie e le gavette sotto ogni scrivania, o a quella che rappresenta la densità di una metropoli indiana con materiali di recupero sulle pareti interne di una stanza, o ancora il corridoio decadente in cui strani santini si affacciano dagli strappi nella carta da parati, per non parlare della foresta di incensi, delle serie a fumetti e delle numerose video-installazioni che ci sarebbero voluti due giorni per godersi appieno.
Ancora uno sguardo dall’ideale prua di questo edificio-bastimento, dalla cui vetrata aggettante sembra di essere sospesi nel vuoto, una discesa dalle scale che a tratti sembrano quelle impossibili di un edificio di Escher, una sosta sui divanetti argentati di design al piano terra, e poi eccoci di nuovo nella nostra Pandina del Car Sharing dirette verso la stazione dove ci aspetta il treno che porterà a casa le mie amiche.
Roma è una città faticosa. Non c’è dubbio.
Ma sa presentarsi nella luce migliore a chi la visita. E a volte sa farsi amare anche da chi ci vive.
Come questa volta.
mercoledì 16 novembre 2011
Fratelli / Alessandro Tota
Fratelli / Alessandro Tota. Bologna: Coconino Press, 2011.
Avevo molto amato il lavoro precedente di Alessandro Tota, Yeti, la storia di un diverso e della sua difficile integrazione in un mondo estraneo, al punto che la sua unica espressione “gnu” è diventata parte integrante del mio vocabolario.
Con queste premesse, quando ho visto in libreria il suo nuovo lavoro Fratelli, ricordo di adolescenza ambientato nella Bari degli anni ’90, non ho potuto fare a meno di comprarlo. Questo lavoro ha il merito di ricostruire e comunicare perfettamente il senso di sbandamento che attraversava quella generazione di giovani. Spesso senza una prospettiva, senza un’ideologia di riferimento, strafatti di canne e spesso trascinati nel tunnel dell'eroina.
Tutto questo in una Bari fortemente degradata, attraversata da sbandati di ogni tipo, a volte anche teneri, altre volte pericolosi per se stessi e per gli altri.
Tale affresco della generazione dei giovani degli anni ’90 si compone principalmente di due parti, una prima che dà il titolo all’albo, ossia quella che racconta un frammento di storia di questi due fratelli, Nerone e Cosimo, il primo traffichino e con l’unico obiettivo nella vita di riuscire a “campare” senza lavorare, il secondo dotato di una vena intellettuale, ma un po’ ritardato nella dinamica relazionale, e del loro rapporto con due genitori preoccupati e rassegnati allo stesso tempo. Storia tenera, amara, divertente e tragica allo stesso tempo.
La seconda parte si allontana dalla vicenda particolare dei due fratelli per allargare lo sguardo al gruppo dei loro amici, e in particolare al difficile rapporto con la vita di Claudio e Nicola, il primo studente deluso, incuriosito da poesia e letteratura, ma alla ricerca di esperienze forti che in quegli anni trova solo nella droga, il secondo senz’altra motivazione e spinta emotiva che farsi di cocaina e di eroina. Entrambi di buona famiglia, ma senza che questo riesca realmente a sottrarli a un’atmosfera complessiva priva di stimoli positivi.
Un lavoro complessivamente interessante questo di Alessandro Tota, anche se a mio avviso un po’ discontinuo e frammentato dal punto di vista narrativo e dei contenuti, nonché della cifra emotiva. Un lavoro che, se nella prima parte riesce a toccare corde in qualche modo universali, nella seconda resta un po’ freddamente documentaristico e, girata l’ultima pagina, lascia un po’ di amaro in bocca perché ci si sarebbe aspettati qualcosina di più.
Voto: 2,5/5
Avevo molto amato il lavoro precedente di Alessandro Tota, Yeti, la storia di un diverso e della sua difficile integrazione in un mondo estraneo, al punto che la sua unica espressione “gnu” è diventata parte integrante del mio vocabolario.
Con queste premesse, quando ho visto in libreria il suo nuovo lavoro Fratelli, ricordo di adolescenza ambientato nella Bari degli anni ’90, non ho potuto fare a meno di comprarlo. Questo lavoro ha il merito di ricostruire e comunicare perfettamente il senso di sbandamento che attraversava quella generazione di giovani. Spesso senza una prospettiva, senza un’ideologia di riferimento, strafatti di canne e spesso trascinati nel tunnel dell'eroina.
Tutto questo in una Bari fortemente degradata, attraversata da sbandati di ogni tipo, a volte anche teneri, altre volte pericolosi per se stessi e per gli altri.
Tale affresco della generazione dei giovani degli anni ’90 si compone principalmente di due parti, una prima che dà il titolo all’albo, ossia quella che racconta un frammento di storia di questi due fratelli, Nerone e Cosimo, il primo traffichino e con l’unico obiettivo nella vita di riuscire a “campare” senza lavorare, il secondo dotato di una vena intellettuale, ma un po’ ritardato nella dinamica relazionale, e del loro rapporto con due genitori preoccupati e rassegnati allo stesso tempo. Storia tenera, amara, divertente e tragica allo stesso tempo.
La seconda parte si allontana dalla vicenda particolare dei due fratelli per allargare lo sguardo al gruppo dei loro amici, e in particolare al difficile rapporto con la vita di Claudio e Nicola, il primo studente deluso, incuriosito da poesia e letteratura, ma alla ricerca di esperienze forti che in quegli anni trova solo nella droga, il secondo senz’altra motivazione e spinta emotiva che farsi di cocaina e di eroina. Entrambi di buona famiglia, ma senza che questo riesca realmente a sottrarli a un’atmosfera complessiva priva di stimoli positivi.
Un lavoro complessivamente interessante questo di Alessandro Tota, anche se a mio avviso un po’ discontinuo e frammentato dal punto di vista narrativo e dei contenuti, nonché della cifra emotiva. Un lavoro che, se nella prima parte riesce a toccare corde in qualche modo universali, nella seconda resta un po’ freddamente documentaristico e, girata l’ultima pagina, lascia un po’ di amaro in bocca perché ci si sarebbe aspettati qualcosina di più.
Voto: 2,5/5
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