Lo stradone / Francesco Pecoraro. Milano: Ponte alle Grazie, 2019.
Di Francesco Pecoraro avevo letto a suo tempo La vita in tempo di pace, un libro originale per stile e narrazione che mi aveva colpito e avevo apprezzato parecchio.
Alla notizia dell'uscita del nuovo romanzo, Lo stradone, mi sono informata e quello che ho letto della sua trama mi ha incuriosita tanto da spingermi a comprarlo e a leggerlo.
Si tratta di un libro piuttosto voluminoso - oltre 400 pagine - articolato in capitoli di differente lunghezza (ce ne sono di molto brevi e di lunghi) che si possono leggere quasi autonomamente come fossero dei racconti (e magari - chissà - sono nati proprio così).
Il filo conduttore di questi racconti è rappresentato dal narratore, un ex storico dell'arte finito a lavorare in Ministero, coinvolto poi negli scandali di Tangentopoli e ormai in pensione, che abita al settimo piano di un palazzone che si affaccia sullo “stradone”. Lo stradone e tutto il quartiere che gli si sviluppa intorno (quello che il narratore chiama il quadrante e che corrisponde alla zona di Valle Aurelia) sono i veri protagonisti del romanzo, perché è la loro storia - raccontata attraverso dei lunghi flashback - che informa l'ambiente umano circostante e che lo connota in maniera inconfondibile. Questa umanità che oggi ruota intorno al bar Porcacci è l'esito delle comunità dei fornaciari che si trasferirono qui nella Sacca del Monte Argilla per produrre mattoni.
Passato e presente, pur così lontani e così diversi, nella narrazione del protagonista si collocano invece in un'unica linea temporale che rivela gli elementi di continuità di questo micromondo, ma che attraverso di esso mostra i tratti propri di una città (Roma, qui mai nominata col suo nome ma detta Città di Dio) e in fondo di un intero paese, rispecchiandone storia, difetti e pregi.
Il protagonista è un uomo senza qualità, spregevole per certi versi, o quanto meno squallido per i bassi istinti che non si vergogna a esternare, ma al contempo è un uomo dotato di acume e intelligenza, capace di cogliere il senso - o il nonsenso - delle cose, e in fondo caratterizzato da una sincerità e da uno spirito di osservazione non comuni e certamente apprezzabili. E però alla fine non si può fare a meno di disprezzarlo nella piccineria dei sentimenti e nei suoi bassi istinti, e forse il disprezzo nasce dalla necessità di prenderne le distanze e quindi dal tentativo di negare l’inevitabile identificazione.
Lo stile di Pecoraro si conferma originale grazie all'inserimento di termini e ortografia romanesca in uno scritto italiano, che però gioca con la punteggiatura eliminandola soprattutto nelle elencazioni. I capitoli sono inoltre inframmezzati qua e là da brevi battute o scambi tratti dalla vita quotidiana della strada a creare un ulteriore effetto di straniamento, oltre a quello già determinato da tutto il resto.
Non posso dire che la lettura de Lo stradone mi abbia appassionato (mi era piaciuto di più La vita in tempo di pace). Soprattutto mi hanno infastidito la frustrazione e il cinismo che attraversano le sue pagine e che trasudano dal suo protagonista, e io devo confessare che sono un po' allergica a questi sentimenti che spesso caratterizzano le peggiori forme di vittimismo. Ma probabilmente l'effetto è voluto da Pecoraro per far cogliere un certo onnipresente spirito romanesco e italico. A tratti la lettura si fa però noiosa e un po' ripetitiva, salvo poi riaccendere l'attenzione poco dopo. Per me un romanzo un po' discontinuo che non mi ha convinta del tutto, nonostante i numerosi elementi di interesse.
Voto: 3/5
venerdì 8 maggio 2020
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