mercoledì 30 ottobre 2019

Beyond the horizon. Deux. Nomad. Festa del cinema di Roma, 17-27 ottobre 2019

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Le milieu de l'horizon = Beyond the horizon

È l'estate del 1976 e Gus (Luc Bruchez), che ha 13 anni, è in vacanza dalla scuola, cosicché passa le sue giornate scorazzando con la sua bicicletta e aiutando suo padre Jean e suo cugino Rudy nella gestione della fattoria di famiglia. A casa, sua madre Nicole (la misurata ma espressiva Laetitia Casta) - a cui Gus è molto legato e con cui ha un rapporto molto affettuoso - prepara da mangiare, lava, stira e si occupa della casa, mentre sua sorella maggiore si esercita al violino per il concerto che si terrà entro l'estate.

Per la fattoria è un momento difficile: la siccità e il caldo stanno rovinando il raccolto e uccidendo gli animali, cosicché la famiglia si trova anche a fronteggiare delle difficoltà economiche.

Il clima familiare diventa ancora più teso quando Nicole comincia a frequentare Cécile (Clémence Poésy), una donna separata e molto indipendente, grazie alla quale Nicole scopre una parte di sé che non conosceva e intravede la possibilità di una vita diversa, che la spinge alfine a una decisione dolorosa ma coraggiosa.

Nel film della giovane Delphine Lehericey il punto di vista è però quello di Gus, per il quale l'estate del '76 sarà quella del coming of age e del passaggio alla vita adulta. Durante questa estate, il ragazzino vedrà l'impresa del padre andare in malora e la madre abbandonare il tetto familiare, mentre l'amicizia con Mado si trasformerà lentamente in qualcosa di più. Gus dovrà fare i conti con sentimenti ambivalenti ed emozioni contrastanti e sarà chiamato ad andare al di là delle sue aspettative rispetto ai comportamenti degli altri, in particolare dei suoi genitori, per comprenderne i punti di vista e accettarne le scelte, senza che queste intacchino l'amore tra genitori e figli.

La Lehericey, pur trattando di uno dei topoi più classici della narrazione relativa all'adolescenza, costruisce una storia a suo modo originale e coraggiosa, in cui spicca il modo anticonvenzionale in cui è tratteggiata la figura della madre: una donna che ama la propria famiglia e i propri figli, ma che si assume la responsabilità di una scelta controversa e rischiosa, non accettando la logica del sacrificio a tutti i costi e credendo nell'intelligenza emotiva dei suoi figli e nella loro capacità di comprendere.

Pur con qualche lentezza, il film è ben costruito ed è in grado di trasmettere anche a un pubblico adulto le emozioni e gli stati d'animo di un tredicenne, soprattutto grazie alla bravura del giovanissimo Luc Bruchez e alla sua faccia antica.

Voto: 3,5/5



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Deux = The two of us

Nina (Barbara Sukowa) e Mado (Martine Chevallier) sono due donne mature il cui rapporto d'amore dura ormai da più di vent'anni, ma esiste solo dentro le mura di casa, visto che per tutti - compresi i figli di Mado - le due sono soltanto vicine di casa e amiche.

Nina spinge perché Mado riveli la verità ai suoi figli, anche perché le due donne hanno in progetto di vendere le loro case e di trasferirsi altrove per trascorrere insieme la loro vecchiaia. Nel frattempo hanno a breve la prospettiva di un viaggio a Roma, la città dove si sono conosciute molti anni prima.

Mado, però, quando si trova di fronte ai figli non riesce a trovare il coraggio di parlare, terrorizzata dalle possibili reazioni di Anne e Frédéric, quest'ultimo in particolare molto critico nei confronti della madre e ancora legato al ricordo del padre.

Quando Mado viene colpita da un ictus e perde la parola, si crea dunque una situazione surreale, nella quale i figli della donna, in particolare Anne, si trovano nella posizione di decidere per la madre, mentre Nina è completamente tagliata fuori dalla vita della donna che ha amato per buona parte della sua vita.

Nina tenterà tutte le strade - lecite e meno lecite - per riavvicinarsi a Mado, ma si troverà di fronte il muro insormontabile della non accettazione dei figli, nello specifico di Anne che prima nega l'evidenza e poi allontana volontariamente le due donne.

Il film di Filippo Meneghetti affronta il racconto dei tentativi di riavvicinamento delle due donne quasi come fosse un thriller dall'esito niente affatto scontato, sebbene non manchino i momenti di leggerezza e di profonda tenerezza.

Dentro questa confezione si muovono temi importanti: non solo e non tanto la non accettazione dell'amore tra due donne e la loro difficoltà a esporsi al giudizio degli altri, ma anche e soprattutto la dinamica delle relazioni familiari e in particolare del rapporto genitori-figli, con tutto il portato di non detto che si porta dietro e che negli anni si amplifica diventando una montagna insormontabile. All'interno di questo tema si annida anche uno sguardo quanto meno critico sull'idea - tanto radicata nel nostro modello di famiglia - che, come fino a un certo punto i genitori sanno meglio di chiunque altro cosa è meglio per i figli, così da un certo punto in poi siano i figli i depositari del benessere e della volontà dei genitori.

Questi legami di sangue, che - mi vado convincendo - sono la più potente delle costruzioni sociali, proprio per questo motivo sono il principale ricettacolo di tutte le storture emotive e convogliano disfunzionalità di grado più o meno elevato a seconda dei casi. Del resto, in questo tipo di legami presupponiamo che il sangue ci garantisca di avere automaticamente tutte le risposte e ci suggerisca sempre il comportamento migliore, caricandoci di aspettative reciproche e oscurando l'umiltà e il rispetto necessari in qualunque rapporto.

Il film di Meneghetti - pur forse volutamente non risolto in alcune sue componenti - è dunque una interessante occasione di riflessione, costruita con sguardo aperto e al contempo attento.

Voto: 4/5



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Nomad. In the footsteps of Bruce Chatwin

L'ultimo film del mio personale percorso alla Festa del cinema di Roma di quest'anno è sicuramente per me il più difficile e infatti eviterò di esprimere un voto. La scelta di andare a vederlo è stata soprattutto una sfida con me stessa, frutto del desiderio di non sottrarmi alla cinematografia di quello che è considerato quasi unanimemente un grande maestro, Werner Herzog.

Il documentario che Herzog ci propone prende spunto dal 30° anniversario della morte di Bruce Chatwin, scrittore ed esploratore britannico morto di AIDS nel 1989, nonché amico di Herzog. Esso si articola in capitoli che non seguono un ordine cronologico, bensì emotivo, inseguendo suggestioni che si rincorrono tra un capitolo e l'altro.

Il fil rouge sono gli scritti dello stesso Chatwin: si parte dalla lettura di un brano in cui l'esploratore parla di un lembo di pelle di brontosauro ch'egli aveva trovato a casa della nonna e che aveva scoperto essere stato riportato in Europa dalla Patagonia da un antenato. Da qui la curiosità che lo spinse a mettersi sulle tracce di quello che si rivelò essere un bradipo gigante, un animale estinto da tempo immemore. Da qui in poi si seguono i percorsi di scoperta e conoscenza che portarono Chatwin nei luoghi più remoti del mondo, accompagnato dallo zaino in pelle poi lasciato in eredità proprio a Herzog.

Il documentario termina - e come poteva essere diversamente? - su uno dei più significativi punti di incontro "artistici" tra i due uomini, il film di Herzog Cobra Verde, tratto dal romanzo di Chatwin Il vicerè di Ouidah e interpretato da Klaus Kinski.

Tra questi due momenti si susseguono interviste, testimonianze, letture, visite ai luoghi di Chatwin e tutto quanto viene suggerito dalle suggestioni dello scrittore, cui Herzog riserva un omaggio fortemente emozionale e forse per questo un po' autoreferenziale.

Se devo essere sincera, dopo aver fatto questo tentativo, non posso che confermare che questo è un tipo di cinema che non è nelle mie corde e che - forse anche solo per ignoranza (oggettivamente mi mancano molti dei riferimenti che in esso sono contenuti) - non riesco ad apprezzare né a farmene conquistare.



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Per le recensioni degli altri film che ho visto quest'anno, vedi qui e qui.

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