giovedì 30 settembre 2021

Lo scontro quotidiano. L'integrale / Manu Larcenet

Lo scontro quotidiano. L'integrale / Manu Larcenet. Roma: Coconino Press - Fandango, 2019.

Ci ho messo tanto, forse troppo a scoprire Manu Larcenet. 

Poi un giorno me ne ha parlato S., e subito dopo ho letto  un'intervista a Zerocalcare che dice che Larcenet è una delle sue fonti di ispirazione. E così mi sono decisa a comprare Lo scontro quotidiano nella versione integrale pubblicata da Coconino Press.

Aprendo l'albo ho capito subito perché l'avevo snobbato: la scelta di Larcenet è molto coerente con la tradizione del fumetto francese (e belga direi anche), ossia uno stile con colori tendenzialmente pieni e personaggi in forma cartoonistica. E per questo, in maniera del tutto superficiale e pregiudiziale, avevo collocato Larcenet in un ambito per me poco interessante.

Poi quando ho iniziato a leggere Lo scontro quotidiano mi è bastato poco per comprendere la grandezza di Larcenet e capire perché è considerato uno dei migliori fumettisti in circolazione.

Lo scontro quotidiano racconta attraverso una serie di episodi (inizialmente usciti come albi separati) una fase della vita di Marco, un fotografo freelance che, oltre a soffrire da sempre di ansia e attacchi di panico e a essere allergico all’idea di cambiare qualunque cosa nella sua vita, è in crisi con il suo lavoro.

Il racconto della storia di Marco ha una fortissima componente autobiografica, e questo farebbe pensare al classico punto di vista di un numero considerevole di graphic novel. Ma – come è tipico dei grandi autori – la forza della narrazione di Larcenet consiste nel fatto che il suo non è un approccio autobiografico ombelicale (ossia ripiegato su sé stesso e sulle proprie nevrosi), bensì riesce a farsi racconto sociale del momento storico che una nazione, la Francia, sta vivendo, ma anche riflessione universale su temi di più ampio respiro, e più estesamente sulla condizione umana.

Marco vive da solo (con i suoi animali) lontano dalla famiglia di origine: i suoi anziani genitori vivono in campagna, mentre suo fratello George vive con la sua compagna. Dopo aver girato il mondo in lungo e in largo per fare fotografie, Marco ha deciso di fermarsi un po’, mentre intorno a lui una serie di eventi determinano importanti conseguenze: l’incontro con la veterinaria Emilie che diventerà la sua compagna e poi la madre di sua figlia, la malattia di suo padre e la sua scelta di suicidarsi, la conoscenza di un anziano vicino che ha partecipato alla guerra in Algeria, l’incontro con un editore interessato al suo lavoro fotografico sugli uomini del cantiere dove lavorava suo padre e che è destinato a essere chiuso e rimosso. Sullo sfondo l’ascesa politica del Fronte Nazionale, la vittoria alle elezioni di Sarkozy, l’avanzata inarrestabile di un neoliberismo senza freni che spazza via i modelli economici e i sistemi produttivi del passato, il cambiamento del tessuto sociale e la definitiva marginalizzazione della classe operaia, l’enorme rimosso francese sul colonialismo e l’indegno comportamento tenuto durante la guerra d’Algeria.

Insomma ce n’è per tutti i gusti a riguardo di tematiche di interesse. La capacità di Larcenet sta nell’affrontare tutto questo in un modo che alterna molteplici registri: il malinconico, il drammatico, l’ironico. A fare da collante la figura di Marco che rivela la grande autoironia del suo creatore, una specie di antieroe un po’ buffo e un po’ tragico, ma profondamente intriso di umanità, che mi ha ricordato un po’ l’alter ego scelto da altri fumettisti come Paco Roca, Guy Delisle e lo stesso Zerocalcare.

Al sorriso divertito dunque segue la lacrima, al momento malinconico quello poetico, e qui e là ci si trova di fronte a quelle riflessioni illuminanti che sono la forza delle narrazioni riuscite e che ci fanno dire “Non ci avevo pensato!”.

Poiché questa versione integrale è la somma di albi usciti separatamente nel corso del tempo non ci si stupirà del fatto che a un certo punto il racconto finisce senza finire. Vorremmo sapere altro di Marco, di Emilie, della loro figlia, di George e di sua moglie, ma Larcenet ha ritenuto di averci detto tutto quello che aveva da dire. La vita continua fuori e al di là delle tavole disegnate.

Voto: 4/5

lunedì 27 settembre 2021

Al garib = The stranger

Il giovane regista Ameer Fakher Eldin è nato in Ucraina, o sarebbe meglio dire nell'ex Unione Sovietica, ma i suoi genitori sono siriani, originari delle alture del Golan, il luogo in cui è ambientato questo film.

Prima di andare a vedere Al garib vi consiglio vivamente (cosa che io colpevolmente non ho fatto) di andare a guardarvi un po' di storia e geografia di questo luogo: le alture del Golan, un tempo territorio siriano, sono state occupate nel 1967 e annesse a Israele. Oggi il Golan vive stretto tra gli echi della devastante guerra che ha annichilito la Siria, e il rigido controllo interno dell'esercito israeliano, determinando quel senso di perdita dell'identità che il regista incarna nel suo protagonista, Adnan.

Adnan - che è ritornato nel Golan dopo un corso da medico fatto in Russia e non completato - non vuole andare via dalla sua terra, ma vive un senso di profonda alienazione, rispetto al quale non riesce a vedere alcun tipo di via d'uscita. Suo padre lo ha diseredato per i suoi fallimenti, la madre prega che dio lo protegga, sua moglie e sua figlia accettano silenziose e tristi la sua assenza, il fratello di sua moglie lo minaccia.

Nel frattempo Adnan trascorre gran parte del suo tempo al meleto del padre, mentre gli alberi sopravvivono a fatica e la mucca di famiglia non riesce più nemmeno a dare latte. Così Adnan affoga il suo malessere nell'alcol e nell'inerzia, fino a quando la sua strada incontra quella di un giovane siriano non solo e non tanto in fuga dalla guerra, bensì alla ricerca delle radici della sua famiglia, che anche per lui affondano in questo altopiano. Questo incontro accenderà in Adnan il fuoco di una speranza e di uno scopo, alfine però accentuando ancora di più il senso di estraneità e l'impossibilità di definire la propria identità. Cosicché è inevitabile chiedersi chi tra Adnan e il giovane siriano sia lo straniero richiamato nel titolo del film.

Ameer Fakher Eldin ci propone il ritratto drammatico di un uomo e di una terra, entrambi annichiliti dalle conseguenze di guerre insensate e dalla totale assenza di prospettiva.

Il suo film è fatto di immagini di grandissimo impatto visivo: chiaroscuri caravaggeschi negli interni, nebbie fitte negli esterni, strade tortuose che si inerpicano sulle montagne. Le parole sono importanti, ma com'è tipico della cinematografia mediorientale sono usate con moderazione, lasciando ai volti e alle immagini il compito parlare e dunque allo spettatore quello di "capire" con altri sensi e interpretare.

All'interno di una narrazione siffatta, non tutto viene spiegato, molte cose restano oscure e non conosciute, perché quello che interessa al regista non è raccontare una storia dal principio alla fine, bensì suggerire una condizione, far percepire gli stati d'animo, innescare una riflessione.

Ne viene fuori un cinema che si colloca all'intersezione di tanti modelli importanti, ma a cui il regista imprime il suo tocco personale.

Non una visione facile, né leggera, però un'occasione di conoscenza e di empatia.

Voto: 3,5/5

mercoledì 22 settembre 2021

Il gioco del destino e della fantasia

Ryusuke Hamaguchi è il regista giapponese che da qualche tempo sta conquistando il pubblico occidentale, tanto da vincere l'Orso d'Argento, Gran premio della giuria a Berlino con questo film e il Premio per la miglior sceneggiatura a Cannes con Drive my car.

Leggo che la sua fama era anche precedente, ma per me la visione de Il gioco del destino e della fantasia (Wheel of fortune and fantasy, titolo che maggiormente richiama l'idea di quella che noi chiamiamo "la ruota della fortuna") è il primo incontro con il suo cinema.

Il film è organizzato su tre episodi indipendenti l'uno dall'altro: nel primo una ragazza si rende conto che la sua migliore amica si sta innamorando del suo ex fidanzato e non sa bene come comportarsi con entrambi, anche perché probabilmente è in parte ancora innamorata di lui; nel secondo uno studente che è stato bocciato dal suo professore di francese ha l'occasione di vendicarsi e lo fa tramite una sua amica mandata nello studio del professore appositamente per sedurlo; infine nel terzo due donne si incrociano su una scala mobile e si riconoscono reciprocamente come persone del proprio passato, salvo poi scoprire che le cose non stanno esattamente così.

Il film di Hamaguchi è un film fatto soprattutto di dialoghi, a volte anche lunghi e articolati, e che avvengono generalmente tra due persone. Anche quando i protagonisti del racconto sono tre (come nel primo o nel secondo episodio), i personaggi si trovano quasi sempre faccia a faccia due per volta e sono appunto questi scambi che sembrano interessare il regista. È chiaro dunque che la "poetica" di Hamaguchi passa principalmente attraverso la parola oppure l'assenza di parole.

Proprio per questo e tenuto conto della straordinaria difficoltà a rendere "tridimensionale" la lingua giapponese in un'altra lingua (frutto dell'irriducibilità della cultura e della società giapponese a quella occidentale), in diversi momenti la visione del film risulta un pochino straniante e il parlato dei personaggi un po' robotico o sopra le righe. Non so se una visione del film in lingua originale avrebbe aiutato (forse sì), ma probabilmente non avrebbe risolto completamente.

Questo per dire che per poter entrare nella lunghezza d'onda dei personaggi di Hamaguchi e risuonare con i loro sentimenti (che al fondo di tutto sono universalmente riconoscibili) è necessario per lo spettatore superare questa curiosa barriera linguistico-culturale, smettendo di interrogarsi razionalmente sulla verosimiglianza di alcuni passaggi e lasciandosi andare all'essenza dei sentimenti.

Solo in questo modo il film rivela la sua vera natura che oscilla tra il drammatico e l'ironico, mettendo in luce il lato imprevedibile dell'esistenza umana, sempre sottoposta agli scherzi del destino, e rispetto al quale ognuno di noi si barcamena e reagisce come può, a volte assecondando il caso e traendone anche beneficio, altre volte provando a contrastare gli eventi.

Nel complesso un film interessante, sebbene - dal mio punto di vista - con rilevanti differenze tra gli episodi. Io li ho vissuti in crescendo: spiazzata dal primo, ho cominciato a prendere le misure con il secondo, infine mi sono abbandonata alla dolcezza del terzo.

Voto: 3/5

lunedì 20 settembre 2021

Nessun rimorso. Genova 2001-2021 / SupportoLegale; [Alberto Corradi et. al]

Nessun rimorso. Genova 2001-2021 / SupportoLegale; [Alberto Corradi et. al.]. Roma: Coconino Press, 2021.

A vent'anni dall'ormai famigerato G8 di Genova molte sono state le iniziative per ricordare quei giorni e provare ancora una volta a ricostruire la memoria di un evento denso di conseguenze per il nostro paese e non solo.

Tra queste iniziative non poteva mancare un albo a fumetti che raccoglie le testimonianze e i pensieri di tantissime firme del fumetto italiano, 'capeggiate' da Zerocalcare, da sempre molto sensibile a questo argomento e impegnato a mantenerne viva la memoria.

L'albo si compone di storie brevi o di media lunghezza, ma anche di singole tavole e disegni, in cui ogni fumettista ha operato secondo la sua ispirazione e la sua visione del mondo. C'è chi propone un'unica immagine, chi ricordi, chi la propria assenza, chi storie distopiche, chi grottesche. I disegni sono inframmezzati da testi a cura di SupportoLegale, un progetto nato per sostenere la difesa nei processi genovesi. I testi ricostruiscono alcuni momenti chiave dei giorni di Genova 2001 e soprattutto quello che ne è seguito o non ne è seguito (come nel caso della morte di Carlo Giuliani) a livello giudiziario.

Testi e disegni si completano e si rafforzano a vicenda, contribuendo a tenere accesi i riflettori su una vicenda vergognosa per uno stato di diritto, tanto più vergognosa non solo per quello che è successo in quei giorni ma per l'omertà, i depistaggi, le falsità che hanno caratterizzato le vicende giudiziarie e rispetto alle quali colpisce la connivenza dello Stato e dei suoi rappresentanti.

Non finirò mai di chiedermi se il modo in cui sono andate le cose a Genova sia stato un piano deliberato per tagliare definitivamente le gambe al movimentismo e al dissenso montante nei confronti di un certo modello sociale ed economico, oppure una tragica manifestazione di incapacità organizzativa e di gestione della catena di comando, a fronte del cui fallimento lo Stato anziché cercare i colpevoli si è chiuso a riccio a difesa delle sue emanazioni.

Propenderei per la prima ipotesi, anche se la seconda non è del tutto da escludere. Fa accapponare la pelle l'impunità che a molti dei rappresentanti delle forze dell'ordine coinvolti nella vicenda è stata garantita, per non parlare dei casi in cui gli stessi hanno fatto carriera, e gli enormi ostacoli, le ritorsioni e le calunnie che hanno dovuto affrontare quei pochi che su quel fronte hanno provato a dire la verità. E - se devo essere sincera - è proprio questo 'spirito di corpo' malato e questo clima di intimidazione che mi paiono la cosa più grave e inquietante.

Non può che inevitabilmente terrorizzarci l'ipotesi di finire più o meno per caso in un ingranaggio di questo genere sapendo che la legge non sarà davvero uguale per tutti e che il leviatano difenderà se stesso e dunque anche l'indifendibile fino allo stremo.

Da questo punto di vista la prima ipotesi da me formulata è ancora più plausibile, perché non solo Genova 2001 ma tutto quello che ne è seguito sono diventati una specie di monito collettivo a stare zitti e buoni. E questo è di per sé spaventoso.

Voto: 3,5/5

mercoledì 15 settembre 2021

Agenzia A / Matsumoto Seichō

Agenzia A
/ Matsumoto Seichō. Milano: Mondadori, 2020.

Quando ho voglia di leggere qualcosa di intrigante e coinvolgente so di andare praticamente sul sicuro con i romanzi di Matsumoto Seichō, autore giapponese attivo tra gli anni '50 e '70 del Novecento che ho già avuto modo di apprezzare leggendo i romanzi fin qui pubblicati da Adelphi: Tokyo Express, La ragazza del Kyūshū e Un posto tranquillo.

Così quando G. mi parla di Agenzia A, pubblicato da Mondadori, lo acquisto immediatamente e lo porto con me in vacanza. In una pausa della lettura del più impegnativo La vergine nel giardino, dedico un paio di giornate a divorare questo thriller del 1959, che vede protagonisti due novelli sposi, Uhara Ken’ichi (funzionario dell'agenzia pubblicitaria A) e Itane Teiko.

Dopo la luna di miele e prima del trasferimento a Tokyo, Uhara Ken’ichi deve tornare qualche giorno a Kanazawa per il passaggio delle consegne al suo sostituto Honda, ma da quella trasferta non torna più indietro.

A quel punto la moglie Teiko, aiutata dal collega Honda, comincia a indagare sulla scomparsa, avendo dapprincipio pochissimi indizi, anche a causa della limitatissima conoscenza reciproca: il matrimonio tra i due era stato infatti combinato grazie all'intervento di un mediatore (come del resto era tipico del Giappone dell'epoca: vedi i film di Ozu a titolo di confronto) e i due sposi non sapevano quasi nulla l'uno dell'altra.

L'indagine diventa dunque non solo un'esplorazione della psicologia dei protagonisti, ma anche - com'è tipico di questo autore - un'analisi della società giapponese, in particolare in questo caso delle ferite rimaste aperte dopo la fine della guerra.

Man mano che Teiko si addentra nella vita di suo marito scopre cose che non immaginava non solo di Ken’ichi, ma anche di altri insospettabili persone a lui collegate. Ne viene fuori un giallo molto ben congegnato che rende la lettura appassionante e scorrevole.

La lettura di Agenzia A è però - al di là degli aspetti puramente narrativi - soprattutto un'occasione per viaggiare con la fantasia in luoghi più o meno noti del Giappone e per conoscere la storia e la cultura di questo paese, al di là delle banalizzazioni e delle interpretazioni superficiali. Dai libri di Seichō viene sempre fuori un'immagine complessa e stratificata di questo paese, e per quanto mi riguarda a ogni lettura non smetto di meravigliarmi della distanza che intercorre tra i meccanismi relazionali occidentali e quelli giapponesi, senza la consapevolezza dei quali alcuni snodi narrativi resterebbero poco comprensibili.

Per chi non ne ha mai abbastanza di questo paese così familiare e al contempo sfuggente, Agenzia A è una lettura assolutamente necessaria.

Voto: 4/5

venerdì 10 settembre 2021

Misericordia / Emma Dante. Teatro Argentina, 2 settembre 2021

Buio. Rumore di sferruzzare.

Quando si accendono le luci sul palco ci sono quattro sedie: tre sono occupate da Anna, Nuzza e Bettina (le bravissime Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi) che sono chine sui loro ferri, mentre sulla quarta sedia si muove compulsivamente Arturo, un ragazzo con problemi psicomotori (uno straordinario Simone Zambelli, di cui si potrebbero tessere gli elogi per pagine e pagine). Arturo si alza e al ritmo del ticchettio dei ferri e vestito in un abito da donna comincia a danzare, mentre le tre donne bisbigliano pettegolezzi, lamentele e recriminazioni.

Inizia così l'ultimo lavoro di Emma Dante, Misericordia, che doveva andare in scena lo scorso anno ma era stato bloccato dalla pandemia. E proprio con questo spettacolo torno anche io in sala dopo una lunga assenza, e - devo ammettere - non ci poteva essere migliore occasione per riprendere contatto con il mondo del teatro.

Emma Dante mi piace. Forse non sempre, e certamente molto più a teatro che al cinema. Al teatro vengono fuori in maniera diretta e non mediata la sua carnalità e la materialità delle sue storie, che invece secondo me al cinema tendono a stemperarsi e rarefarsi.

Sul palco Emma Dante espone i corpi e attraverso di essi esprime forse più delle parole, arrivando all'essenza profonda delle culture, dei generi e in definitiva della condizione umana.

In questo caso - come spesso accade negli spettacoli della Dante - siamo in un contesto di povertà e degrado, in una casa piccola e senza luce, dove le tre donne cuciono e per arrotondare si prostituiscono (la scena notturna con il ballo erotico e tribale delle tre è davvero notevole), mentre litigano tra loro e si occupano in modo naif ma affettuoso di questo ragazzo che - come scopriremo - è il figlio di una loro compagna, morta per le botte dell'amante dopo il parto, e che loro hanno deciso di crescere.

C'è dunque il tema della violenza e del femminicidio nello spettacolo, così come quello della povertà e del degrado, ma ce ne sono molti altri che, ognuno secondo la sua sensibilità, potrà cogliere e sentire in maniera più o meno accentuata. Penso ad esempio al tema della "famiglia" e del rapporto madre-figlio (in questo caso madri-figlio) e dei mille modi in cui si può declinare. Penso al tema della diversità, e della ricchezza e al contempo della fatica emotiva che porta con sé. Penso alla speranza che si fa largo anche nelle situazioni più disperate, perché l'amore senza speranza non può esistere. Penso all'ironia che si nasconde nelle pieghe anche del tragico e a cui Emma Dante non rinuncia mai, virandolo talvolta persino sul grottesco.

Insomma, lo spettacolo mi è piaciuto. Mi ha parlato direi principalmente in maniera metalinguistica ed emotiva, anche e soprattutto grazie alle interpretazioni delle attrici e alla eccezionale bravura "fisica" di Zambelli. E non credo si possa chiedere di più al teatro.

Voto: 4/5

martedì 7 settembre 2021

The father - Nulla è come sembra

A partire dalla sua opera teatrale che è stata rappresentata con successo in diversi paesi, Florian Zeller firma la sceneggiatura e la regia di questo film, The father - Nulla è come sembra, in cui un eccellente Anthony Hopkins interpreta un padre anziano che manifesta chiari sintomi del morbo di Alzheimer.

L'originalità di questo dramma da camera sta nel fatto che i fatti sono mostrati e raccontati dal punto di vista del protagonista, cosicché una narrazione inizialmente apparentemente logica diventa scena dopo scena sempre più incomprensibile e illogica.

I fatti vengono smentiti, i personaggi cambiano, le situazioni si ripetono, gli ambienti mutano: la vicenda si trasforma quasi in un thriller, capace di destabilizzare lo spettatore e di confonderlo in un tentativo sempre frustrato di comprendere la realtà di quanto sta vedendo.

L'obiettivo del regista è chiaramente quello di una immedesimazione nella mente ormai malata di Anthony, lui stesso lucido e presente in alcuni momenti e in altri confuso e smarrito di fronte all'insensatezza di quello che percepisce.

Non sapremo mai dunque che cosa di quello che vediamo sia effettivamente reale, cosa rappresenti un ricordo, cosa è un parto della mente o una paura, e in che sequenza si combinano i vari spezzoni, né sapremo mai se quanto vediamo corrisponde a momenti diversi nel tempo oppure è in realtà la rielaborazione mentale e il mix di ricordi del protagonista che in realtà già vive l'ultima tappa del percorso della sua malattia.

Personalmente - anche considerando che l'Alzheimer è un tema che mi tocca molto da vicino e di cui ho esperienza diretta - l'ho trovata un'operazione interessante e originale, ma non mi ha coinvolto sul piano emotivo, cosicché la mia è rimasta una visione un po' fredda e asettica.

Alla fine del film - e nonostante la bravura di Hopkins - ho pensato che questo testo a teatro probabilmente mi avrebbe preso di più e forse sarei riuscita ad apprezzarne maggiormente il tipo di costruzione narrativa.

Voto: 3/5

venerdì 3 settembre 2021

Chiaroscuro / Raven Leilani

Chiaroscuro / Raven Leilani; trad. di Stella Sacchini e Ilaria Piperno. Milano: Feltrinelli, 2021.

Edith, la protagonista del romanzo, è una giovane afroamericana che lavora in una casa editrice, ma in realtà vorrebbe fare la pittrice. Nelle prime pagine del romanzo la incontriamo che chatta con Eric, un uomo sposato che ha il doppio dei suoi anni.

Edith arriva da esperienze e storie di amore e sesso più o meno sfortunate e/o non convenzionali, Eric è in crisi matrimoniale e ha sostanzialmente ottenuto da sua moglie Rebecca un lasciapassare per una relazione extraconiugale, purché il marito rispetti le regole che lei detta.

Il mondo di Edith e quello di Rebecca dovrebbero rimanere separati e indipendenti, ma per una serie di circostanze non solo Edith incontra e conosce Rebecca, ma quando la prima viene licenziata dal lavoro e resta senza soldi e senza casa la seconda le consente di stare a casa sua, apparentemente per aiutarla con Akila, la tredicenne di colore che Eric e Rebecca hanno adottato (o forse preso in affidamento).

Tutto questo avviene mentre Eric è fuori per lavoro, e non sospetta nulla di quello che sua moglie ha deciso di fare.

Il rapporto tra Edith e Rebecca è fatto di un alternarsi continuo di momenti di freddezza e distacco e altri di empatia e quasi intimità. Edith è una donna indurita dal suo lavoro (si occupa di autopsie) ed è costantemente impegnata a mantenere un controllo rigoroso sulla sua vita; Edith fa invece i conti con la difficoltà di essere afroamericana e senza soldi, pur vivendo all'interno di un contesto socialmente evoluto, e in quel caos che è la sua esistenza cerca di capire cosa vuole diventare e che vuole fare della sua vita.

Nel libro di Raven Leilani convergono e si intrecciano molti temi e molti dei filoni letterari più recenti. Da un lato siamo dalle parti dei romanzi generazionali del mondo dei venti-trentenni che negli ultimi anni hanno conquistato una fetta importante del mercato letterario, dall'altro lato ci muoviamo sul terreno delle disuguaglianze razziali, sociali e di genere.

Ne viene fuori un romanzo decisamente sui generis, che a me conferma ancora una volta la differenza sostanziale che allontana gli scrittori di questa generazione da ciò che li ha preceduti, rendendomeli inevitabilmente un po' più estranei e un po' meno comprensibili.

Come in altri libri che appartengono a questo filone, il non detto e l'implicito, il trattenuto e l'irrisolto la fanno da padroni, cosa che a me rende la comprensione del significato della narrazione per niente scontata e mi trascina verso la conclusione del racconto lasciandomi inevitabilmente insoddisfatta.

Nel libro della Leilani ci sono dei guizzi interessanti e delle pagine spiazzanti per la loro imprevedibilità, ma alla fine faccio fatica a superare il senso di estraneità e di distanza. Sarà la vecchiaia ;-)

Voto: 3/5

mercoledì 1 settembre 2021

Castello di sabbia / Pierre Oscar Lévy; Frederik Peeters

Castello di sabbia / Pierre Oscar Lévy; Frederik Peeters; trad. di Emmanuelle Caillet. Roma: Coconino Press Fandango, 2021.

Appena rientrata a casa dopo la visione del film Old di M. Night Shyamalan tratto da questo graphic novel non ho potuto fare a meno di prendere l'albo in mano e fiondarmi nella lettura.

Ho letto Castello di sabbia conoscendo già il mistero della spiaggia dove si trovano i personaggi della storia, e quindi l'ho letto e guardato probabilmente con una maggiore attenzione ai particolari e anche con un occhio alle differenze rispetto alle scelte di sceneggiatura del film.

Com'è normale che sia, il libro è più essenziale, asciutto direi quasi: la storia si svolge interamente sulla spiaggia, non c'è un prima né un dopo dei personaggi che la abitano, e non c'è alcuna narrazione di contorno che dia un senso a quanto capita in questo luogo.

Quello che Pierre Oscar Lévy ci racconta a parole e Frederik Peeters ci racconta per immagini (bellissime tra l'altro! Di lui ricordo ancora e consiglio l'albo Pillole blu) è un fenomeno inspiegabile legato alla spiaggia e che avrà conseguenze importanti sulle vite delle persone che ci arriveranno.

Il castello di sabbia del titolo non è solo quello che i bambini costruiscono sulla spiaggia, ma anche il simbolo di un paradosso che vede la massima rappresentazione dell'effimero e della transitorietà diventare elemento che trascende e travalica la storia dei singoli.

Quello di Lévy è certamente il racconto di un luogo, ma anche una riflessione sulla vita umana, guardata in un time lapse micidiale che inesorabilmente ne rivela la grandezza e al contempo la parziale insensatezza.

Nella postfazione l'autore ci rivela l'ispirazione di questa storia e anche l'insondabilità del processo creativo, nonché la meraviglia dei significati nascosti dei racconti, che spesso sono ignoti - almeno a livello cosciente - persino per il narratore.

A differenza di Shyamalan, Lévy non punta a dare un significato sociale al racconto, non ha interesse a fornire tutte le risposte, non esprime giudizi sui personaggi, semplicemente osserva l'umanità in questa specie di esperimento in vitro, in cui ognuno reagisce a suo modo: cercando di capire, rassegnandosi, lottando, aggredendo, accettando.

Torna dunque - se vogliamo - una componente metanarrativa, ma - a mio modesto avviso - il graphic novel offre molte più sfumature e lascia molta più libertà interpretativa al lettore.

Voto: 3,5/5