mercoledì 10 giugno 2009

Vincere

Marco Bellocchio non è certamente tra i miei registi preferiti. Molti dei suoi ultimi film, che sono andata a vedere per avere la possibilità di ricredermi sul regista piacentino, tra cui La balia, L'ora di religione, Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni, mi sono risultati per motivi diversi estranei, alcuni più, altri meno.

Questa volta devo ammettere invece che il film mi ha conquistato da diversi punti di vista.
Innanzitutto, la componente puramente cinematografica: bellissima la fotografia (la narrazione è impreziosita da alcune immagini veramente notevoli per composizione e colori); molto efficace l'integrazione tra filmati di repertorio e girato filmico; molto bravi gli attori, Filippo Timi (Mussolini padre e Mussolini figlio), capace di riprodurre i tratti quasi caricaturali del Mussolini vero e di fare il verso a sé stesso nell'interpretare il figlio rinnegato che imita il padre, e Giovanna Mezzogiorno (Ida Dalser), che sarà anche antipatica a qualcuno, ma a me sembra una delle migliori attrici italiane in circolazione.

Forse si poteva tagliare qualche lungaggine, soprattutto nella seconda parte, ma tutto sommato l'equilibrio di insieme tiene.
Il fatto per me più sorprendente è che, in questo film, alcune delle caratteristiche tipiche del cinema di Bellocchio (il tono epico-teatrale, il parziale non detto e il senso di incompiutezza, la cupezza dell'insieme, l'anticlericalismo senza mezzi termini, la rappresentazione della donna, una certa dimensione politica) che solitamente trovo eccessive e a tratti insopportabili, qui contribuiscono a dare spessore al film.

Bello ed equilibrato anche l'intreccio della vicenda privata (la storia tra Ida Dalser e Benito Mussolini) e di quella pubblica (il percorso politico e l'ascesa al potere di Mussolini). Così, da un lato vediamo una donna certamente fragile da un punto di vista psicologico che si lega quasi patologicamente a un uomo autocentrato incapace di amarla veramente in un climax di dipendenza che la porta quasi alla follia, dall'altro l'infatuazione collettiva di una nazione per un uomo capace di muoversi nel panorama politico di quegli anni con la stessa destrezza di un attore su un palcoscenico.

Il pensiero del regista e sceneggiatore è chiaro e il montaggio lo rende ancora più chiaro. Ma la mia sensazione è stata quella di una grande naturalezza, come se alle sole immagini fosse lasciato il pesante carico di esprimerlo.
Peccato che a Cannes sia stato snobbato... Ma le logiche dei festival - si sa - a volte sono difficili da comprendere razionalmente.
Voto: 3,5/5

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