venerdì 24 agosto 2018

La terra dell'abbastanza

Manolo (Andrea Carpenzano) e Mirko (Matteo Olivetti) sono due giovani della periferia romana, quella che potrebbe essere ovunque e nello stesso tempo non può che essere un tutt'uno con la città di Roma. Sono amici da una vita: vanno all'alberghiero insieme, la sera consegnano le pizze per tirare su qualche soldo, ridono di niente. Una sera mentre tornano a casa investono per sbaglio un uomo e fuggono via. Scoprono più tardi che si tratta di un boss locale che collabora con la polizia e che il clan che controlla il territorio voleva ammazzare.

Su suggerimento del padre di Manolo, l'episodio di per sé psicologicamente non facile da superare viene vissuto come l'occasione di una svolta, ossia la possibilità di "lavorare" per il clan e cambiare vita. Inizia così una discesa agli inferi che porterà i due ragazzi a un confronto doloroso e fatale con la propria coscienza.

Il film dei giovani fratelli D'Innocenzo, Damiano e Fabio, è un parente prossimo del cinema di periferia che ha avuto in Claudio Caligari il suo autore culto (vedi Amore tossico e Non essere cattivo). Se Caligari raccontava i giovani della periferia romana negli anni Ottanta e Novanta, i fratelli D'Innocenzo (nemmeno trentenni) parlano dell'oggi in una terra in cui l'abbastanza - spogliato di sogni, di prospettive e di alternative - non è sufficiente a dare un senso all'esistenza.

Gli adulti lo vivono chi con frustrazione (vedi il padre di Manolo, un perdente che vive in un garage), chi con fatica infinita ma con sostanziale dignità (vedi la madre di Mirko). I giovani - tra campi di calcio e piste da skateboard abbandonate e piene di rifiuti, circondate di case modeste sprofondate nel vuoto urbano - fanno fatica a difendere quello spazio mentale di giocosità e tenerezza che gli appartiene perché la quotidianità non gli offre appigli per sognare. E così la vita criminale si presenta come la grande occasione, che coglieranno con un atteggiamento costantemente ambivalente, di partecipazione ed estraneità, in un dissidio interiore crescente e senza soluzione.

I fratelli D'Innocenzo costruiscono i loro personaggi in maniera così vera che lo spettatore vede il conflitto esplicito in Mirko, ma non percepisce - se non indistintamente - l'abisso in cui sta sprofondando Manolo, e da cui è colpito come un pugno inaspettato nello stomaco.

La terra dell'abbastanza ci mostra mirabilmente il crinale sottile sul quale si muovono le vite di questi giovani di periferia, chiusi nelle maglie di una quotidianità dagli orizzonti ristretti su cui eventi e coincidenze impreviste possono produrre esiti diversi.

Registicamente Damiano e Fabio D'Innocenzo scelgono di stare addosso ai loro personaggi, perché è del loro tumulto interiore che vogliono parlare e di quello che si muove al di là della superficie.
Così, negli occhi di Mirko e della madre che guardano nella vetrina delle pastarelle c'è il senso di un'innocenza che meriterebbe di essere difesa e valorizzata.

Vero è che quello del cinema di periferia è ormai un filone forse un po' abusato e che rischia di diventare stucchevole in una cinematografia italiana cui manca una vera varietà di registri; il film dei fratelli D'Innocenzo però si inserisce in questo genere in maniera fresca e promettente.

Voto: 3,5/5

giovedì 23 agosto 2018

Mostre fotografiche a Roma d'agosto. Palazzo delle Esposizioni e Museo di Roma in Trastevere

Approfittando di un weekend romano di metà agosto e di una città in parte svuotata e in parte ancora attiva recupero alcune mostre fotografiche che volevo vedere già da un po'.

Vado innanzitutto alla mostra L'altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2018, in programmazione al Palazzo delle Esposizioni fino al 2 settembre.

La mostra offre allo spettatore la visione di oltre 200 fotografie che provengono da una collezione privata, quella di Donata Pizzi.

L'esposizione propone le opere di oltre 70 fotografe, alcune molto conosciute come ad esempio Letizia Battaglia, e molte altre per me quasi sconosciute.

Le fotografie si articolano in quattro sezioni, corrispondenti sostanzialmente ad altrettanti spazi del museo (salvo l'ultima sezione che occupa due salette): la prima sala è dedicata alla fotografia di reportage e di denuncia sociale (Dentro le storie); la seconda ai rapporti tra immagine fotografica e pensiero femminista (Cosa ne pensi tu del femminismo?); la terza ai temi legati all’identità e alla rappresentazione delle relazioni affettive (Identità e relazione); e le ultime due alle ricerche contemporanee basate sull’esplorazione delle potenzialità espressive del mezzo (Vedere oltre).

L'occasione è interessante per conoscere fotografe e artiste poco conosciute e per incuriosirsi alla loro opera, e certamente ciascun visitatore troverà fotografie e serie fotografiche che risuoneranno con la propria sensibilità.

Devo però osservare un certo minimalismo dell'apparato esplicativo della mostra. Ciascuna sezione è infatti sì introdotta da un pannello descrittivo, ma delle numerose fotografe non abbiamo coordinate biografiche e artistiche, cosicché tocca di volta in volta cercare su Internet per avere maggiori informazioni. Io l'ho dovuto fare più volte e per esempio ho cercato confermare che le foto sugli istituti psichiatrici di Carla Cerati appartenessero al medesimo lavoro portato avanti da Gianni Berengo Gardin e confluito nel volume Morire di classe. Vero è che all'ingresso della mostra c'è la possibilità di seguire un video che la introduce, ma si tratta di un video parecchio lungo e che procede in loop, dunque quasi sempre lo si comincia a seguire a metà strada e non essendo le fotografe identificabili da scritte in sovraimpressione la decifrabilità resta bassa, nonostante l'interesse per quello che si guarda. Si aggiunga inoltre che molte fotografie in mostra fanno parte di serie o lavori fotografici più ampi e, non avendo finalità di carattere estetico, risultano poco leggibili nel momento in cui sono prese singolarmente.

Trattasi insomma di una mostra che sembra avere lo scopo più di suscitare delle curiosità che di soddisfarle al suo interno. Il che può anche essere una cosa positiva.

Il giorno dopo la mia meta è invece il Museo di Roma in Trastevere, dove tra l'altro approfitto per sottoscrivere la vantaggiosissima MIC, la carta che con soli 5 euro consente l'accesso illimitato a tutti i musei del Comune di Roma, e che è possibile ottenere se si è residenti, domiciliati o studenti a Roma. Una bella iniziativa (io l'avrei fatta pagare anche un pochino di più!) che spero potrà proseguire nei prossimi anni.

Al Museo di Roma in Trastevere sono in corso tre mostre. Al piano terra c'è quella più grande, Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo. Si tratta - come esplicita il titolo - di una mostra dedicata al '68 (italiano fondamentalmente) in occasione del cinquantesimo anniversario. Se si riesce a sopravvivere indenni alle zanzare e al caldo (i condizionatori funzionano in minima parte e il museo si è dovuto dotare di ventilatori!), la mostra si rivela interessante: utilizzando fotografie documentarie dell'epoca, video, riproduzioni di prime pagine di giornali, oggetti e pannelli ci racconta un'epoca che appare per certi versi lontana e sconfitta, ma che ci si rende conto essere stata densa di possibilità e di stimoli per il futuro, pur nelle sue contraddizioni. La mostra è anche l'occasione per raccontare l'Italia di quegli anni nella sua più ampia dimensione sociale, politica ed economica.

Al secondo piano del Museo si trovano altre due piccole mostre fotografiche.

La prima è Josef Sudek: Topografia delle macerie. Praga 1945, una mostra che utilizza una selezione delle fotografie del grande fotografo ceco per raccontare la città di Praga all'indomani delle ferite inferte sul suo tessuto urbano dalla guerra. Una mostra di carattere principalmente documentaristico, che però in alcuni scatti fa intravedere la capacità di Sudek di far emergere il lato tristemente romantico della città.

La seconda mostra è dedicata a Sylvia Plachy (When will it be tomorrow), fotografa ungherese per me sconosciuta (e scopro grazie alla mostra che è la madre dell'attore Adrien Brody, ritratto infatti in numerose delle sue fotografie). Devo dire che sul piano strettamente fotografico questa è la mostra che mi affascina di più; lo stile della Plachy mi intriga con le sue fotografie dai formati originali (molto belle quelle in verticale, strette e alte) e dai soggetti vari, ma accomunati da una specie di ricerca di un secondo livello di lettura, una sorta di significato nascosto, che si nasconde nelle pieghe dei volti di animali ritratti in primissimo piano ovvero in scene che appartengono alla vita quotidiana ma che acquistano quasi un carattere metafisico. Molto belle.

Voto: 3,5/5

mercoledì 22 agosto 2018

Most beautiful island

Avevo puntato questo film già qualche mese fa quando c'era stato il Festival del cinema spagnolo al Farnese, ma l'incastro degli orari e degli impegni non mi aveva consentito di vederlo.

Così, adesso che il film è uscito ufficialmente nelle sale italiane, ho colto l'occasione della mia estate in parte romana per andare a vederlo, sempre al Farnese.

La storia è quella di Luciana (la bella e brava Ana Asensio, che è anche la sceneggiatrice e la regista del film, per il quale si è ispirata alla sua vicenda personale), una giovane donna spagnola emigrata a New York per sfuggire - sembrerebbe - ai sensi di colpa legati alla morte di sua figlia in Spagna.

A New York Luciana spera di avere l'opportunità di ricostruirsi un futuro, fiduciosa - insieme a molti altri nella sua stessa condizione - dell'effettività del sogno americano.

In attesa di questa opportunità però la protagonista fa fatica a sbarcare il lunario e vive di piccoli lavoretti ridicoli e mal pagati (per esempio distribuire volantini vestita da pollo o fare da baby sitter a due bambini viziati e insopportabili di cui comunque a lei stessa interessa poco). Un giorno una sua amica le propone di andare al posto suo a un party dove verrà pagata 2.000 dollari e la rassicura dicendole che non dovrà fare niente che non voglia.

Inizia così una discesa nei bassifondi newyorkesi, passando attraverso intermediari che gestiscono ristoranti a Chinatown, fino a un luogo claustrofobico dove, dietro una porta chiusa, non sa cosa attende lei e le altre ragazze.

Sarebbe un delitto raccontare di più (sebbene qualcuno in giro per la rete lo abbia colpevolmente fatto), perché il film si regge tutto sulla tensione e sull'attesa del momento in cui Luciana dovrà entrare in questa fatidica stanza, da cui trapelano alternativamente silenzio e urla.

Il film di Ana Asensio è difficilmente categorizzabile; semplificando lo si potrebbe etichettare come un thriller, ma in realtà è un film che innesta una situazione di forte tensione psicologica in un contesto sociale, senza il quale anche quella tensione avrebbe meno significato.

Cinematograficamente il film è ben fatto e lo si capisce fin dalle prime sequenze, quando la regista segue con la sua telecamera, in mezzo alla folla che attraversa le strade di New York, alcune donne su cui si appunta la nostra attenzione senza sapere ancora quale sarà la nostra protagonista. Interessante anche la scelta di conferire centralità al sonoro: quello della città che riempie qualunque spazio e poi invece, quando Luciana è nel seminterrato, i pochi suoni sinistri amplificati da un irreale silenzio.

Certamente però la cosa più apprezzabile del film sta nella evidente volontà della regista di non realizzare un "thriller" fine a sé stesso, ossia con l'unico scopo di intrattenere lo spettatore (cosa che questo genere cinematografico di solito fa); Ana Asensio utilizza invece il coinvolgimento emotivo dello spettatore rispetto alla situazione di Luciana per permetterci di comprenderne lo stato d'animo e la condizione di immigrata in una realtà che viene pubblicizzata come la terra delle opportunità ma nella quale - se non hai un lavoro e dei soldi - vivi ai margini della società e ne sei sfruttata per finalità spesso abiette.

In definitiva, quella di Luciana non è un'avventura mozzafiato a lieto fine, bensì un'odissea che non può non lasciarti segni interiori profondi e indelebili.

Voto: 3,5/5

lunedì 20 agosto 2018

Grant Lee Phillips. Unplugged in Monti, Terrace Session, Casa Argileto, 9 agosto 2018

Ed ecco la sorpresa che i ragazzi di Unplugged in Monti, la cui programmazione seguo ormai da tempo sia nella sede del Black Market che nelle church sessions, ci hanno preparato per l'estate 2018: le terrace sessions. Hanno cioè individuato questa bella terrazza nel quartiere Monti (la terrazza di Casa Argileto) e l'hanno trasformata in una sala concerti all'aperto.

Tra i concerti proposti io e F. scegliamo quello di Grant Lee Phillips, nome d'arte di Bryan G. Phillips, il cantante californiano che è stato il leader prima dei Shiva Burlesque e poi dei Grant Lee Buffalo, con cui ha raggiunto il successo internazionale ed è stato nominato migliore voce maschile nel 1995 dalla rivista "Rolling Stones".

Il cantante, nonché polistrumentista (sebbene in particolare affezionato alla sua chitarra), ha poi continuato la sua carriera da solista pubblicando numerosi altri album e proprio in questi ultimi mesi è uscito l'ultimo lavoro dal titolo Widdershins.

Il nostro incontro con Grant Lee Phillips avviene in realtà in ascensore, mentre stiamo salendo alla terrazza. Io non lo riconosco, mentre F. sì ed entrambe notiamo un curioso orologio al polso, con il cinturino fatto come un bracciale con delle pietre incastonate.

Sono le 21.30 quando Phillips arriva sul palco. Sembra di buonumore, nonché affascinato dalla location, nonostante il caldo (alle 23 saranno ancora 29 gradi), l'umidità e la luce che ha puntata addosso. È dunque loquace e scherza con il pubblico tra una canzone e l'altra, anche dopo un'ora e mezza di concerto in solitaria, quando la sua camicia bianca si può ormai strizzare da quanto è bagnata!

Il pubblico si rivela presto appassionato e conoscitore della musica dei Grant Lee Buffalo e dello stesso Phillips, cosicché di tanto in tanto partono ovazioni alle prime note delle canzoni più famose, ovvero battiti di mani ritmati, nonché ritornelli accompagnati. Verso la fine del concerto, quando Phllips si concede per un lungo bis, è proprio il pubblico a sollecitare l'esecuzione di alcune canzoni, sollecitazioni spesso accolte dal musicista americano.

L'ora e mezza di musica che Grant Lee Phillips ci regala in questa bellissima e caldissima serata d'estate romana spazia in tutto il suo repertorio, dalle canzoni più datate a quelle più recenti, tra cui spiccano Mighty Joe Moon, Happiness, Fuzzy, Black horses in a yellow sky.

La sua è una musica che rimanda direttamente al grande filone di Nashville, al folk americano d'autore, non a caso il cantante dalla sua California si è spostato proprio qui per continuare a scrivere e a comporre musica. Nelle sue canzoni si sente tutto lo spirito della cultura americana, anche di quella nativa, con cui Grant Lee Phillips ha un collegamento diretto per ascendenze sia materne che paterne.

La sua voce è calda e pulita e arriva direttamente non solo alle orecchie ma anche al cuore dei suoi ascoltatori.

E così anche io e F., che il suo repertorio lo conoscevamo poco, apprezziamo questa performance di grande qualità e spessore e, se inizialmente temevamo un po' di noia, a fine serata vorremmo rimanere nel nostro divanetto ad ascoltare ancora la voce e le melodie di Phillips.

Voto: 3/5

giovedì 16 agosto 2018

La locanda degli amori diversi / Ito Ogawa

La locanda degli amori diversi / Ito Ogawa; trad. dal giapponese di Gianluca Coci. Vicenza: Neri Pozza, 2016.

Ho iniziato la lettura di questo romanzo un po' in sordina. Riuscivo a leggerne poche pagine al giorno, un po' per mancanza di tempo e stanchezza, un po' perché facevo fatica a entrare nel mood di questa scrittura così 'giapponese' in cui i toni sono quasi sussurrati - silenziati direi - e tutto punta a ricondurre qualunque situazione o emozione destabilizzante a una rassicurante armonia.

Io che sono affascinata dalle storie forti caratterizzate da sentimenti altrettanto forti, ho avuto inizialmente la sensazione di un esasperato e irreale buonismo, che faceva in qualche modo a pugni con i temi molto controversi trattati nel romanzo. Man mano però che le pagine scorrevano mi rendevo conto di essere progressivamente conquistata dalla scrittura di Ito Ogawa e di riuscire se non a comprendere, almeno ad accettare un approccio culturale e una sensibilità che non appartengono a noi occidentali, un modo di esprimersi diverso, ma non meno potente ed efficace.

La storia è quella di Izumi, Chiyoko, Sosuke e Takara. E il libro si articola in quattro capitoli, in cui la voce narrante cambia e il testimone passa di volta in volta da uno all'altro dei protagonisti in ordine decrescente di età, facendo progredire la narrazione e aprendola al futuro.

Izumi, la voce narrante del primo capitolo, è la madre di Sosuke, abbandonata dal marito che è andato via con un'altra donna. Un giorno sulla banchina di una stazione si accorge - tra la folla - di una ragazza, ne coglie la sofferenze e ne intuisce le intenzioni suicide. La ragazza è Chiyoko e questo incontro fortuito ma denso di conseguenze sarà determinante non solo per quest'ultima, sottraendola alla sua intenzione di morire, ma anche per Izumi, la cui vita sta andando alla deriva.

L'amore che inaspettatamente sboccerà tra queste due donne sarà l'inizio di una vita insieme in una nuova casa in un luogo immerso nella natura, che loro chiamano la valle di Machu Picchu. Qui la famiglia si arricchirà di un nuovo membro, la piccola Takara, frutto di una relazione precedente di Chiyoko.

Se l'incontro iniziale tra Izumi e Chiyoko viene raccontato da Izumi, il prosieguo della storia e la nascita di Takara sono affidati alle parole di Chiyoko. Poi, dopo la trasformazione della casa in Locanda Arcobaleno e man mano che Sosuke cresce, è lui stesso a raccontare il suo distacco dalla famiglia per andare a lavorare in città. Infine, la parola passa a Takara che racconta il matrimonio di Izumi e Chiyoko alle Hawaii e gli ultimi tragici eventi che cambiano la forma di questa famiglia, ma non intaccano l'affetto che li unisce e che attraversa tutto il libro.

Alla fine quello che mi sembrava il principale punto di debolezza del romanzo, ossia l'apparente forzata ricerca della composizione dei contrasti, mi è risultato come il suo maggiore punto di forza. Ito Ogawa non passa nulla sotto silenzio né si sottrae ad alcuno dei temi - più o meno controversi e scabrosi - che possono riguardare la formazione e la vita di una famiglia arcobaleno, bensì racconta tutto questo facendone emergere l'assoluta normalità e dandoci una straordinaria lezione di vita. L'esistenza umana - sembra dirci - ha sempre e per tutti gli stessi ingredienti: momenti di felicità e sconforto, armonia e disarmonia, desideri realizzati e frustrati, occasioni colte e altre perse, momenti di relax e di grande fatica, e a tutti vengono in qualche modo dispensate gioie e dolori in eguale o non molto differente misura. Sta a ciascuno di noi decidere come affrontare tutto questo, perché non possiamo scegliere chi siamo e cosa ci accadrà, ma possiamo scegliere di rispettare noi stessi, di amarci per quello che siamo e di essere amorevoli verso i compagni di strada che ci siamo scelti.

Voto: 3,5/5