giovedì 14 giugno 2018

Da Cannes a Roma: Capharnaüm e Un affare di famiglia

Da Cannes a Roma è ormai un appuntamento fisso del mio anno cinematografico. E così anche quest'anno, nell'ultimo giorno di programmazione, riesco ad andare a vedere due film al Giulio Cesare, una delle sale che quest'anno ospita la manifestazione. Si tratta non di due film qualunque, bensì del vincitore del Premio della Giuria, il film di Nadine Labaki Capharnaüm, e il vincitore della Palma d'Oro, il film di Hirokazu Kore-Eda che uscirà in Italia con il titolo Un affare di famiglia.

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Capharnaüm

L'ultimo film di Nadine Labaki rappresenta un cambiamento significativo di registro per la bella e brava regista e attrice libanese, dopo i due film d'esordio, Caramel e E ora dove andiamo?, in cui aveva scelto un tono da commedia per raccontare le contraddizioni e i problemi del Libano e più in generale del Medio Oriente.

In Capharnaüm il registro è invece decisamente drammatico, fin dalle premesse.

Zain (il bravissimo Zain Al Rafeea) è un ragazzino di circa 12 anni, in carcere per aver pugnalato un uomo, che si presenta davanti alla corte per chiamare in giudizio i suoi genitori rei di averlo messo al mondo. Da questa sconcertante e inaspettata premessa inizia un lungo flashback che ci racconta la storia di Zain, uno dei numerosi figli di una coppia di disperati che vive a Beirut in condizioni di estrema povertà e degrado. Zain - come i suoi fratelli e sorelle - non solo non va a scuola, ma fa una serie di lavori, anche pesanti, per aiutare il ménage familiare e vive in condizioni molto al di sotto della soglia di ciò che è accettabile. Il ragazzino è molto maturo per la sua età, essendo cresciuto troppo in fretta e avendo dovuto imparare il mondo e le persone rapidamente, ed è molto legato alla sorella che - pur essendo anche lei una ragazzina - si sta affacciando all'adolescenza ed è destinata ad andare in sposa a un uomo molto più grande di lei in cambio di qualche gallina. Zain cerca di opporsi ma non riesce, così scappa di casa. Le sue peregrinazioni lo metteranno di fronte a prove ancora più terribili: prima sarà ospitato nella baracca di una donna somala immigrata che vive con il figlio di un anno in condizioni di semiclandestinità, poi si ritroverà da solo con questo bambino senza sapere che fine ha fatto la madre e infine buttato fuori dalla baracca, costretto a mendicare e a inventarsi qualunque escamotage per sopravvivere, fino all'impossibilità di assicurare la sopravvivenza a se stesso e al bambino. Il ritorno a casa farà precipitare gli eventi.

Non si può rimanere indifferenti di fronte al film della Labaki. E capisco che gli intellettuali snob non apprezzeranno il metodo utilizzato da questo film per raccontare la povertà di una città che sembra appena uscita da un bombardamento, ossia quello di puntare alla pancia dello spettatore muovendo emozioni di compassione e  mettendo al centro della storia dei protagonisti bambini. Qualcuno ha parlato addirittura di "pornografia della povertà". Personalmente non mi trovo d'accordo con una critica che presuppone un processo alle intenzioni della regista, come a volte si fa nei confronti dei fotografi di guerra e fotoreporter che ci rimandano immagini terribili dei conflitti. Perché lo fanno? Per arricchirsi, per acquisire visibilità e diventare famosi, o per consentire a chi non può conoscere direttamente una realtà e una situazione di comprenderla anche a distanza? I suddetti intellettuali snob mi diranno che si può comprendere quella situazione anche in altro modo, immagino puntando alla ragione delle persone e non ai sentimenti e alle emozioni. Però - mi chiedo e vi chiedo - in un'epoca in cui si fa appello alla pancia della gente per tirarne fuori i sentimenti più beceri e disumani, perché dovremmo snobbare o rifiutare chi utilizza questo metodo in positivo, per sollecitare partecipazione ed empatia con realtà che sono anni luce lontani dalla nostra quotidianità?

È chiaro che questa operazione non ha un impatto immediato sulla realtà, perché resta uno spettacolo cui assistiamo comodamente seduti nella poltrona di un cinema e, anche se ne usciamo con le guance rigate di lacrime, subito dopo siamo pronti a voltare pagina e a tornare alla nostra vita di tutti i giorni. Ma se niente serve, allora possiamo solo continuare a vivere nella nostra cecità e nessun mezzo, nessuna azione di sensibilizzazione vale più la pena di essere tentata.

Sicuramente il film della Labaki non è un capolavoro e forse qualche perplessità può essere sollevata rispetto a una possibile strumentalizzazione dei bambini che ne sono protagonisti, sebbene il film riesca in qualche misura a non criminalizzare nemmeno gli adulti, vittime essi stessi di un'ignoranza, di una condizione di povertà, della situazione complessiva di un paese che non sembra suggerire margini di speranza. Però a me il volto di Zain è rimasto nel cuore e il sorriso con cui riempie lo schermo nell'ultimo fotogramma del film - anche se forse ruffiano - mi si è stampato dentro. Forse è poco per fare di Capharnaüm un grande film e un'opera di denuncia sociale, ma è tanto rispetto a quanto il cinema di solito è in grado di fare.

Voto: 3,5/5



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Un affare di famiglia

Il secondo film della rassegna che vedo è il vincitore - e ora posso anche dire meritato - della Palma d'Oro: il film di Hirokazu Kore-Eda dal titolo originale Manbiki kazoku, che uscirà in Italia nella prossima stagione cinematografica con il titolo Un affare di famiglia.

Il maestro Kore-Eda - come giustamente diceva il giornalista che ha introdotto il film - ha quasi un'ossessione per il tema della famiglia (si ricordino, tra i suoi film precedenti, Father and son, Little sister - l'unico che ho visto - e Ritratto di famiglia con tempesta). Mi pare che la domanda che sta a fondamento delle riflessioni cinematografiche del regista sia se i legami di sangue siano sufficienti a costruire un legame affettivo e dunque che cos'è oggi la famiglia, in particolare in Giappone (anche se la riflessione va ben al di là del presente e dei confini geografici all'interno dei quali si svolge).

Questa domanda diviene in quest'ultimo film ancora più esplicita, ma lo scopriamo a poco a poco, man mano che la narrazione progredisce - quasi come un thriller psicologico - attraverso una serie di colpi di scena, che ovviamente sarebbe un peccato qui rivelare.

La storia è quella di una strana "famiglia" che abita in una piccola casa di una anonima città giapponese e vive della pensione della nonna, dei lavori precari della coppia e soprattutto di espedienti illegali: il nucleo familiare è composto da una donna anziana, la nonna appunto, una coppia (Osamu e sua moglie), la sorella di quest'ultima, e un figlio quasi adolescente. Un giorno Osamu e suo figlio, mentre tornano da una delle loro scorribande nei supermercati, si imbattono in una bambina apparentemente abbandonata per strada e la portano a casa. La bambina, che si scoprirà essere maltrattata dai genitori, comincia a vivere con questa nuova famiglia e viene accolta come la piccola di casa.

A poco a poco quella che sembra una famiglia normale, per quanto un po' ai margini e quotidianamente in lotta con la povertà, dimostra di non essere affatto convenzionale e, man mano, ciascuno dei suoi componenti manifesta un lato oscuro o fa presagire allo spettatore che la realtà non è affatto come sembra.

Un incidente - non proprio accidentale - capitato al figlio adolescente durante una delle sue ruberie fa precipitare le cose e rivela la verità sconvolgente che sta dietro questa "famiglia".

La prima cosa che mi ha colpito del film di Kore-Eda è la scelta di portare sullo schermo un Giappone un po' inedito per noi occidentali, un Giappone fatto di marginalità, di povertà, di illegalità, ma anche di ironia e di sentimenti meno rarefatti rispetto a quelli cui il cinema e la letteratura giapponese ci hanno abituati. Questo universo anomalo si inscrive però in quella stessa ricerca di armonia che riconosciamo come un tratto caratterizzante della cultura giapponese. Solo che in questo caso l'armonia non è data dalla perfezione formale - come spesso accade nel mondo giapponese - ma dalla sostanza delle relazioni e dei sentimenti, che va al di là dell'imperfezione, dei difetti e persino delle brutture delle persone e delle loro azioni. Tutto quanto in una famiglia che è tale per legame di sangue è scontato e atteso come necessario, al punto da non dare alcuna garanzia di essere voluto e scelto, diventa invece una scelta libera e in qualche modo negoziata e confermata ogni giorno lì dove non c'è l'ingombrante legame di sangue a cementare il rapporto. Però - sembra dirci Kore-Eda - anche in quello che sembra un nucleo familiare costruito per libera volontà si nascondono ambiguità che lasciano lo spettatore con domande che pesano come macigni.

Un affare di famiglia è un film che fa sorridere, che intenerisce, che a tratti sconvolge e fa riflettere e che ci lascia - sull'ultimo fotogramma - insieme alla piccola Yuri a guardare pensierosi al di là delle mura domestiche, cercando nel vuoto le risposte che tra quelle mura in un modo o nell'altro fanno fatica ad arrivare.

Voto: 4/5



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