Lo straniero / Albert Camus; trad. di Alberto Zevi; con una nota di Silvio Perrella. Milano: Bompiani, 2013.
Ogni tanto qualcuno ci prova ad elevarmi dal mio “essere intellettuale solo per finta”, mettendomi di fronte alla mia infinita ignoranza. ;-)
Del resto, devo dire che più passano gli anni e accumulo letture (di saggi, di romanzi, di attualità, di curiosità, di fesserie e di cose importanti) e più mi sento ignorante, o meglio mi sento insicura. Mi rendo conto che, per quanto si possa conoscere e leggere, in molte circostanze è difficile saperne abbastanza per farsi un’opinione precisa delle cose e delle situazioni, soprattutto quelle che sono al di fuori della sfera relazionale ed esperienziale con cui siamo a più stretto contatto, così come per quanto si possa recuperare quanto non è entrato nel nostro bagaglio culturale nella fase della formazione non sarà probabilmente sufficiente a comporre dei quadri coerenti, perché i pezzi mancanti lasciano vuoti quasi incolmabili.
La premessa dunque è che so di non sapere e che probabilmente non avrei mai letto nulla di Camus se non mi fosse stato regalato questo libro. Diciamo che ho dalla mia – e speriamo ancora a lungo - la curiosità che mi spinge a interessarmi di tutto, a buttarmi a capofitto nelle cose, anche e soprattutto quelle che non conosco.
E così di fronte a Lo straniero sono rimasta interdetta, e lì per lì ho pensato di non avere gli strumenti per capire la scrittura di Camus. Poi però mi sono anche resa conto che probabilmente la mia sensazione non è molto lontana da quello che l’autore pensava di trasmettere e di ottenere dal suo lettore.
Meursault, il protagonista del romanzo, è decisamente un personaggio spiazzante. Un uomo senza sentimenti né preferenze. Estraneo, straniero al mondo e al suo agitarsi. Il suo rapporto con la vita (naturale e sociale) che lo circonda è fatto non di passioni, semmai di sensazioni, e il messaggio principale che Meurseult sembra trasmettere è l’assenza di senso, o meglio l’insensatezza di qualunque progettualità, la quale inevitabilmente va a scontrarsi con la fatalità del caso.
Meurseult non si interroga sul destino ultimo, non lotta contro l’insensatezza. L’accetta nella quasi totale indifferenza. Gli episodi che occupano la prima parte del romanzo, la morte della madre, il rapporto con Maria, l’amicizia con Raimondo, fino all’omicidio dell’arabo sulla spiaggia, non sono oggetto di alcun tipo di riflessione morale o metafisica da parte del protagonista, così come – nella seconda parte – il carcere e il processo che lo porterà alla condanna a morte sono vissuti da Meurseult come dall’interno di una bolla che non comunica con il mondo esterno. Per tutto il romanzo attendiamo lo scatto d’ira che il protagonista riserva, nelle ultime pagine, al prete che va a visitarlo in cella, ma tale reazione è solo l’occasione per liberarsi definitivamente di qualunque possibile e ingannevole speranza.
E scusate, ma di fronte a Camus, su cui pagine e pagine sono state scritte, e rispetto al quale molti critici di rango non hanno disdegnato complesse letture filosofiche, mi sentirei di bestemmiare se mettessi un voto. Semmai mi congedo con l'impegno di provarci una seconda volta con La peste.
lunedì 4 agosto 2014
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