lunedì 24 agosto 2020

Il grande passo

Ed è ancora l’Arena del Sacher che in questa strana estate mi offre la possibilità non solo di godere del cinema sul grande schermo, ma anche di vedere l’anteprima di un film alla presenza del regista e degli attori.

Si tratta de Il grande passo, il secondo film di Antonio Padovan, che – come lui stesso ci spiega – doveva uscire qualche mese fa, ma come molti altri film è stato bloccato dal lockdown. Il regista elogia la scelta dei produttori di non aver ceduto il film alle piattaforma online e di aver atteso la possibilità di farlo uscire in sala. E noi pure ringraziamo.

Il regista ci dice inoltre che questo secondo film è molto più personale del primo, Finché c’è prosecco c’è speranza, la cui sceneggiatura era infatti basata sull'omonimo romanzo. In questo caso invece egli ha potuto muoversi più liberamente a livello di sceneggiatura, aiutato da Marco Pettenello. Il film è un omaggio a una categoria di persone sempre meno rappresentata e sempre più bistrattata, quella dei sognatori, persone spesso espulse dal corpo sociale in quanto etichettate come folli. Così è per uno dei protagonisti del film, Dario (Giuseppe Battiston), che vive in un casolare di campagna nel Polesine e sta costruendo un razzo per andare sulla luna. Quando – in uno dei suoi tentativi falliti – provoca un incendio, suo fratello Mario (Stefano Fresi) viene chiamato dall’avvocato per prendere in mano la situazione.

Mario vive a Roma con la mamma con cui gestisce una ferramenta: è un uomo molto concreto e generoso, cosicché decide di partire per il Polesine per occuparsi del fratello, che pure ha incontrato solo una volta e con cui non ha niente in comune, a parte un padre assente. L’incontro ne metterà inizialmente in evidenza la distanza, e Mario non potrà fare a meno di constatare che Dario è un outsider, forse ben oltre i limiti del borderline, sebbene anche gli abitanti del paese-fantasma vicino a cui vive scontino gli effetti di marginalità, isolamento e ignoranza.

Secondo uno schema narrativo classico e sostanzialmente prevedibile, Mario – che era arrivato per stare solo una notte sistemando il fratello in un centro specializzato – finisce per rimanere molto di più fino a conoscere, condividere e sostenere il sogno folle ma poetico del fratello.

In questa fiaba ironica e commovente al contempo, Padovan mette anche i propri sogni d’infanzia, nonché gli omaggi al cinema e ai registi più amati, da Mazzacurati a Spielberg. Al termine della proiezione ci spiega che ha voluto travasare nel film, anche a livello visivo, il senso della meraviglia dello sguardo di chi è spettatore, cosa che ho sinceramente trovato molto bella.

In definitiva, pur muovendosi all’interno di binari non del tutto originali, il film di Padovan, anche grazie all’ottima intesa e alla bella performance dei due attori, è uno spettacolo godibile e apprezzabile e conferma le buone doti di Padovan rispetto al linguaggio della commedia.

Voto: 3/5

mercoledì 12 agosto 2020

Non stancarti di andare / testi di Teresa Radice; disegni e colori di Stefano Turconi

Non stancarti di andare / testi di Teresa Radice; disegni e colori di Stefano Turconi. Milano: Bao Publishing, 2017.

Dopo il successo dell'albo Il porto proibito, che anche io avevo sommamente apprezzato, Teresa Radice e Stefano Turconi, collaudatissima coppia nella vita e nel lavoro, lei autrice dei testi, lui autore dei disegni e del colore, è tornata in libreria con un altro graphic novel pubblicato da Bao Publishing, in una veste editoriale importante, vista la scelta del grande formato e della copertina rigida.

Da un punto di vista grafico, non si può far altro che ammirare la perizia di Stefano Turconi e godere la meraviglia dei disegni, dei colori e della costruzione del racconto. Anche solo sfogliando l'albo si comprende di trovarsi di fronte a un lavoro molto ambizioso con cui i due autori hanno deciso di osare di più e di fare un passo ulteriore nella direzione della complessità. Parte di questa ambizione consiste anche nel fatto che con questo lavoro Turconi e Radice decidono di allontanarsi dalle storie di immaginazione e di avventura, per raccontare vicende molto concrete e personali.

Non stancarti di andare è un viaggio nel tempo e nello spazio che ha come protagonisti Iris e Ismail, due giovani, lei italiana che ha fatto del disegno e dell'illustrazione la sua professione, lui siriano, professore d'arte all'università. I due - come scopriremo dai numerosi flashback - si sono conosciuti e innamorati durante un viaggio di lei con l'amica Ale in Siria, per il quale Ismail faceva la guida. E un ruolo determinante nell'inizio della loro storia lo ha avuto Padre Saul, un sacerdote che ha realizzato in un remoto monastero in Siria un luogo di incontro, di scambio e di convivenza pacifica di culture e religioni.

La storia comincia però quando Ismail sta partendo per la Siria, dove ha alcune faccende da sbrigare, mentre subito dopo Iris scopre di essere incinta. La storia si snocciola dunque attraverso questi nove mesi di attesa: da un lato di quell'"amore minuscolo" - come lo chiama Iris - che sta nella sua pancia, dall'altro dello stesso Ismail di cui a un certo punto si perdono le tracce. Con questa vicenda si intrecciano le storie della madre di Iris, Maite, una donna ribelle che ha un rapporto difficile con sua figlia, di zia Tiz, un'amica cara di Maite che è per Iris come e più di una zia, di padre Saul, e di molte altre persone che hanno a che fare con il presente di Iris ma anche con la storia di sua madre.

Nel graphic novel di Turconi e Radice le parole e i disegni hanno la stessa importanza e viaggiano a volte paralleli, a volte divergenti, illuminandosi ovvero oscurandosi reciprocamente in un gioco cui sta al lettore stare appresso.

Il risultato è un albo molto sentito, cosa che forse è anche il suo maggiore limite. Il forte coinvolgimento emotivo degli autori (evidente nel corso della lettura e svelato pienamente nelle ultimissime pagine) crea probabilmente in loro l'imperativo di essere all'altezza della storia raccontata, di mantenere l'asticella alta, di viaggiare sempre un piano di elevata idealità. Tutto questo però - pur essendo a tratti molto coinvolgente e commovente - in diversi momenti si fa eccessivamente retorico, in particolare nel parlare di maternità. Inoltre, pur essendo i due autori evidentemente persone di grande apertura mentale e certamente con una visione allargata e onnicompresiva dell'umanità non v'è dubbio che i loro riferimenti intellettuali e spirituali vengano quasi interamente dal mondo cattolico "progressista", come è chiaro dai numerosi riferimenti e citazioni presenti in questo lavoro. Non che questo mi abbia fatto sentire il loro racconto meno vicino, ma certamente lo ha caratterizzato in maniera talmente esplicita e forte da conferirgli un'identità di cui sinceramente avrei fatto a meno. In realtà, in Turconi e Radice non c'è giudizio nei confronti di alcuno e tutti i personaggi, anche quelli allergici a qualunque forma di spiritualità e di smanceria sentimentale, come Maite, vengono compresi e accolti, in un modo che dal loro punto di vista è certamente sincero e non mediato, ma che può risultare un po' paternalistico.

Ciò detto, Non stancarti di andare resta un inno alla vita, in tutte le migliaia di modi in cui ognuno di noi la vuole leggere e interpretare, purché questi modi siano finalizzati alla ricerca della bellezza e della pacifica convivenza umana.

Voto: 3/5

mercoledì 5 agosto 2020

Le regole del fuoco / Elisabetta Rasy

Le regole del fuoco / Elisabetta Rasy. Milano: Rizzoli, 2017

Il libro di Elisabetta Rasy inizia dalla contemporaneità e dalla curiosità dell’io narrante di conoscere la storia di una donna, Alba Rosa, amica di famiglia che fin da piccola le è sembrata diversa dal modello di donna cui era abituata.

Da qui prende l’avvio un lungo racconto che ci riporta al 1917 quando Maria Rosa, figlia di una famiglia napoletana agiata, senza padre e con un rapporto difficile con la madre, decide di partire per il fronte come infermiera volontaria, senza sapere cosa la aspetta e con l’unico desiderio di andare lontano dalla famiglia.

Sul fronte del Carso ad aspettarla c’è un ospedale militare dove è un continuo andirivieni di feriti e moribondi e dove non c’è spazio per i cuori deboli e per le persone impressionabili.

Maria Rosa si rende conto di non essere perfettamente portata per questo lavoro, ma la fanno andare avanti la forza di volontà e l’esempio della sua compagna di stanza, Eugenia, una delle infermiere più brave che coltiva il sogno di diventare medico, in un’epoca in cui questa professione è praticamente preclusa alle donne.

Le due donne non potrebbero essere più diverse: tanto è imperturbabile Eugenia quanto Maria Rosa fa fatica a reggere le brutture della guerra, tanto è fredda Eugenia quanto Maria Rosa è alla ricerca di un contatto umano. Ma, pur nella diversità caratteriale e nella difficoltà di un contesto che disumanizza, Eugenia e Maria Rosa si incontrano e si riconoscono, fino a innamorarsi.

Sarà una storia evidentemente difficile, perché la guerra continua e quando si avvicina la sua fine inizia la fuga che disperde e allontana le persone.

Ma questo incontro forte e importante in qualche modo sarà determinante per entrambe, e cambierà per sempre le scelte di vita in particolare di Maria Rosa, che da un certo punto si farà chiamare col nomignolo con cui Eugenia l’aveva battezzata: Alba Rosa.

Il romanzo di Elisabetta Rasy è poco più di un racconto lungo; si legge rapidamente e “gradevolmente”, per quanto non sia questo il termine più adatto a un libro che ha come primo obiettivo quello di mettere in evidenza le brutture e l’inutilità della guerra, oltre che le conseguenze deleterie e a volte irreversibili che ha determinato.

Il libro è scritto bene e rende l’idea dell’ambiente, nonché il rapporto tra queste due donne, sebbene a mio parere non ne venga approfondita a sufficienza la psicologia individuale. Se dovessi usare un aggettivo per definire il romanzo lo direi “esile”, di una “leggerezza” che è al contempo il suo punto di forza ma anche la sua maggiore debolezza.

Voto: 3/5

lunedì 3 agosto 2020

Cry me a river / Alice Socal

Cry me a river / Alice Socal. Roma: Coconino Press, 2017.

Il graphic novel di Alice Socal racconta la storia di una crisi: quella del rapporto sentimentale tra due giovani che vivono insieme in un paese straniero. In particolare, l'autrice traduce in segno grafico (e secondariamente in parole) quel momento emotivamente difficile in cui ci si accorge di non essere più sulla stessa lunghezza d'onda e ci si sente sempre più lontani. In questo caso, la fatica emotiva è accentuata e in qualche modo esplicitata da un lato dal fatto che i due giovani vivono in un paese straniero, con tutte le difficoltà che una lingua e un alfabeto diverso comportano rispetto alla propria socialità e al proprio benessere, dall'altro dalla preoccupazione crescente per il cane Vuk che si rifiuta di mangiare dopo che è morto il suo compagno.

Alice Socal è una di quelle fumettiste che usano la loro arte non tanto per raccontare degli eventi, una narrazione esterna, bensì soprattutto dei sentimenti, delle emozioni, un mondo interiore e che attraverso il segno grafico compiono quel processo di metabolizzazione che molte altre persone realizzano in altre maniere, per esempio con le parole.

Qui il leitmotiv sono le lacrime della inconsolabile protagonista, lacrime che diventano fiumi e travolgono tutto quello che incontrano. Sembra che sia necessario piangere tutte le proprie lacrime prima di poter dare una svolta in un senso o nell'altro alla propria vita.

Il fatto è che io faccio un po' fatica a entrare in sintonia con una modalità narrativa di tipo ombelicale, che oscilla tra l'introspettivo e l'onirico, soprattutto quando riversa sulla pagina la confusione interiore anche attraverso un segno grafico che a sua volta si muove tra l'ipersemplificato e il sovraffollato.

È evidente che per una persona come me che cerca di gestire le emozioni confuse mettendo ordine e cercando la chiave di lettura, una modalità narrativa che necessità dell'elemento surreale e irrazionale risulta destabilizzante ed emotivamente poco consonante.

Ne esco non solo e non tanto depressa, quanto frustrata da uno sforzo di comprensione che per me resta piuttosto vano.

Del resto, si sa, la letteratura e l'arte in ogni loro forma sono così: ognuno le valuta o su un piano strettamente razionale (e in questo caso non ho sufficienti elementi per farlo) o sul grado di risonanza emotiva che producono per sé. Cry me a river con me purtroppo non ha risuonato né graficamente né contenutisticamente.

Voto: 2,5/5