domenica 30 ottobre 2016

Kicks. Little wing. Genius. Captain Fantastic.

Il bilancio di questa seconda giornata di full immersion - dopo la almeno parziale delusione di sabato – è ben più positivo. Del resto, per la domenica alla Festa del cinema avevo preso il biglietto di quello che sarebbe stato il film vincitore della rassegna Alice nella città e quello del vincitore del Premio del pubblico della rassegna maggiore. Inoltre, per andare sul sicuro avevo preso il biglietto di Genius, il film in uscita con Jude Law e Colin Firth. L'unica incognita presa un po' a scatola chiusa era Little wing, sempre della rassegna Alice nella città, ma quando arrivo all'Auditorium scopro che questo film è il vincitore del terzo premio della rassegna, il Taodue. E così mi preparo a una vera giornata di godimento cinematografico puro.

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Kicks

Il film vincitore della rassegna Alice nella città è l'opera prima di Justin Tipping.

Siamo in un quartiere a prevalenza nera a Richmond in California. Il protagonista di questa storia è Brandon, detto dai suoi amici B (Jahking Guillory), un ragazzo di 15 anni, tanti capelli ricci in testa, di statura bassa, con ai piedi le scarpe rotte risalenti alla scuola media.

Brandon, pur avendo due amici che gli vogliono bene, Rico e Albert, si sente più sfigato di qualunque altro ragazzo della sua età e pensa che l'unica soluzione sarebbe essere un'astronauta e vivere nello spazio dove nessuno ti rompe le scatole. Una soluzione più a portata di mano è invece trovare il modo di avere delle scarpe fighe come quelle dei suoi compagni. Un giorno finalmente il suo sogno si avvera e con le Air Jordan (modello n. 1) ai piedi si sente improvvisamente capace di qualunque cosa, e la sua autostima aumenta.

Peccato che dove vive Brandon ci sono gang che non aspettano altro che occasioni per prendersela con chi è più debole. Un giorno la gang di Flaco lo picchia e gli ruba le scarpe. Da questo momento per Brandon l'unico obiettivo sarà recuperare le sue scarpe e per farlo sarà disposto a tutto, anche a sacrificare la sua vita e quella dei suoi amici.

Kicks è un film che-  ancora una volta in questa festa del cinema - racconta una realtà di marginalità, dove non esistono le leggi e le regole normali della convivenza civile, ma solo la legge del più forte, di quello che porta la pistola in tasca e non ha nessun tipo di scrupolo morale né valore etico. Brandon e i suoi amici sono come tutti i quindicenni: parlano di sesso, di donne, di scarpe da ginnastica, si fanno le canne, raccontano le loro vere e meno vere imprese, ma vorrebbero solo essere se stessi ed essere lasciati in pace.

Ma non può essere così per chi come Brandon e come questi ragazzi vive in un posto di “frontiera”, dove il rap è l'espressione del disagio e le gang combattono la guerra della droga e si contendono il controllo del territorio, convivendo con l'uso delle armi fin dall'infanzia. Per Brandon e i suoi amici il recupero delle scarpe sarà una immersione completa in questo mondo folle ed estremo, in cui dovranno farsi le ossa per sopravvivere e da cui usciranno adulti e consapevoli di doversi difendere se necessario. Anche se avrebbero solo voluto fare la loro vita da adolescenti.

Bello. Intenso. Una telecamera accesa ancora una volta su una realtà che non conosciamo. Di cui ci arriva solo l'eco distorta della televisione. Cosicché in questo caso il cinema si fa più vero della cronaca.

Voto: 4/5



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Little wing

Siamo in Finlandia, ad Helsinki. Ma non nei palazzi di design del centro, bensì nelle case popolari della periferia. Qui vive insieme a sua madre Varpu (Linnea Skog), una ragazzina di 11 anni che ama andare a cavallo e vorrebbe conoscere il padre, di cui le rimangono solo delle foto.

Varpu va a scuola tutti i giorni da sola e da sola rientra dalle lezioni di equitazione, perché sua madre lavora come donna delle pulizie e per di più non riesce a prendere la patente. La madre di Varpu è una donna fragile e insicura, che tende alla depressione, e spesso è la figlia a farle da conforto e rifugio emotivo; cerca un uomo, perché si sente molto sola, ma forse non è ancora pronta ad amare perché non si fida di nessuno.

Il mondo di Varpu è quindi un mondo di grande fatica emotiva, che si scioglie solo durante le uscite notturne con gli amici del quartiere che la portano in giro a fare bravate e le insegnano a guidare la macchina, salvo poi rifiutarla quando non sta al gioco. Anche Varpu sente il bisogno di rifugiarsi in qualcosa e crede di poterlo fare nel padre perduto, che va a cercare da sola fuggendo da casa. Quando lo troverà penserà di aver risolto parzialmente i suoi problemi, ma dovrà rendersi conto che suo padre non ci sarà mai per lei, perché ossessionato dalle sue psicosi, e comprenderà che solo accettare se stessa e la verità della sua vita e farne una bandiera le può dare la forza e la fiducia in se stessa per affrontare il mondo.

Credo davvero che il filo conduttore del festival di quest'anno (o almeno di quanto ho visto io) sia la marginalità: bambini, ragazzi, quasi adulti che vivono in parti diverse del mondo, ma alle periferie delle loro società. Quei luoghi dove tutte le regole del gioco sono capovolte e tutto quanto è per noi scontato è il risultato di una faticosa conquista quotidiana. Bambini e ragazzi costretti a crescere troppo in fretta, con reti affettive fragili, con mezzi materiali limitati, ma con una straordinaria capacità di sopravvivenza e di costruzione della propria identità e umanità in condizioni limite.

Film apparentemente disperati, e invece dotati di una carica di speranza nella convinzione che non esiste un determinismo dell'esistenza tale per cui non ci sia una possibilità di scegliere di essere diversi da quello che il destino sembrerebbe averci riservato.

Voto: 3,5/5



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Genius


Ed eccomi, dopo Florence Foster Jenkins, al secondo filmone del festival, quello con gli attori famosi e grandi mezzi per raccontare le storie.

In questo caso si racconta la storia di Tom Wolfe (Jude Law), uno scrittore che dopo aver ricevuto innumerevoli rifiuti, suscita l'attenzione di Maxwell Perkins (Colin Firth), un editor della casa editrice Scribner's Son, che vede nel profluvio di parole di Wolfe una genialità di scrittura destinata a conquistare il pubblico.

Maxwell e Tom diventano amici, o forse ancora meglio si instaura tra di loro un rapporto padre-figlio, in cui Maxwell è il padre che tira fuori le migliori qualità del figlio scapestrato ma geniale. Intorno a loro, la compagna di Wolfe, che ha lasciato la sua famiglia per lui, e la famiglia di Maxwell non capiscono fino in fondo questa amicizia, e a tratti ne sono gelosi per l'esclusività e la passione per la scrittura che la caratterizza.

Il film di Michael Grandage è un classico prodotto della migliore industria cinematografica americana, che ci porta totalmente all'interno della New York della fine degli anni Venti, e si arricchisce delle sempre magistrali interpretazioni di Jude Law e Colin Firth, in due ruoli che sono perfettamente congeniali a entrambi.

Genius è dunque un film gradevolissimo, e non si può dire che si tratti esclusivamente di un biopic, dal momento che il regista non si sottrae all'approfondimento psicologico dei personaggi e del loro percorso, in particolare del percorso di Wolfe verso la consapevolezza dell'importanza delle relazioni umane.

Ciò detto Genius resta, secondo me, un prodotto convenzionale che non aggiunge molto alla cinematografia americana, se non l'occasione forse di farci riscoprire uno scrittore parzialmente dimenticato, fors'anche perché appartenuto all'epoca degli Scott Fitzgerald e degli Hemingway, anch'essi autori scoperti e portati al successo anche grazie alle capacità e alla dedizione di Perkins.

Ci sarebbe da chiedersi se il genius del titolo sia Wolfe oppure l'oscuro editor che ha fatto, grazie al suo lavoro, la storia della letteratura americana.

Voto: 3/5



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Captain Fantastic

Il fatto che Captain Fantastic abbia vinto il Premio del pubblico alla festa del cinema di Roma conferma che la parte più viva della rassegna romana è Alice nella città, visto che questo film di fatto era un prestito di Alice alla selezione principale. Del resto, avevo avuto questa sensazione anche lo scorso anno, e quest'anno ne ho semplicemente avuto conferma.

Captain Fantastic è la storia decisamente' surreale di una famiglia formata da un padre (Viggo Mortensen) e 6 figli, di età comprese tra i 6 e i 18 anni, 3 maschi e 3 femmine. Questa famiglia vive sulle montagne, tra le foreste, avendo scelto uno stile di vita il più possibile vicino alla natura e oppositivo dei meccanismi opprimenti del capitalismo e del consumismo. I nostri sette protagonisti vanno a caccia per procurarsi il cibo, fanno addestramento fisico ogni giorno, dedicano una parte del loro tempo allo studio, alla lettura e alla musica, e il rapporto tra il padre e i figli è improntato alla massima sincerità, anche di fronte alle questioni più delicate.

Quando la madre – ricoverata in ospedale – si suicida, Ben e i suoi figli si mettono in viaggio con il loro pulman "Steve" per andare ai funerali e tentare di far rispettare la volontà della donna di essere cremata senza alcun tipo di cerimonia religiosa. Questo viaggio sarà l'occasione per l'intera famiglia per confrontarsi con il mondo che sta fuori dalle loro montagne e anche per affrontare i nodi emotivi dei figli in relazione alla morte della madre, al rapporto con il padre e al proprio futuro.

Il modello educativo che Ben e sua moglie hanno perseguito mostra i suoi punti di forza rispetto a una società imbambolata, obesa e ignorante, ma anche i suoi punti di debolezza, perché come dice Bo, il figlio maggiore, loro sanno tutto quello che è scritto nei libri, ma niente di quello che succede nella realtà rispetto alla quale si dimostrano totalmente disadattati.
Arriverà dunque per Ben e i suoi figli la resa dei conti rispetto a se stessi e alla loro utopia.

Captain Fantastic è un film in cui si ride moltissimo, ma si riflette anche moltissimo. Strizzando l'occhio al mondo di Wes Anderson da una parte e alla sgangherata e tenerissima famiglia di Little Miss Sunshine dall'altra, il regista Matt Ross riesce in una operazione che nei suoi tratti parzialmente surreali e favolistici ci fa riflettere sul fatto che la follia di una scelta radicale come quella di questa famiglia sui generis non è in fondo molto diversa dalla follia collettiva delle presunte famiglie normali. E che evidentemente c'è molto da rivedere nei nostri modelli educativi e di vita, senza il bisogno di dover scalare una parete rocciosa sotto l'acqua, o di dover squartare un animale cacciato, o di dover sostituire i festeggiamenti del Natale con quelli del compleanno di Noam Chomsky. C'è della genialità in questo film.

Voto: 4/5

venerdì 28 ottobre 2016

I am not a serial killer. La última tarde. La tortue rouge. Swiss army man

Considerando che quest'anno, nell'ultimo weekend di programmazione della festa del cinema, ho fatto una vera e propria abbuffata di film, mi sono detta che non avrei potuto dedicare un post a ognuno, a meno di non pubblicarne almeno 3-4 al giorno ovvero dover smaltire i post relativi per settimane e settimane. Così ho deciso di fare un post cumulativo per ciascuna delle due giornate del weekend in cui ho visto più film.

Una parola prima di entrare nel merito dei singoli film. Fino a questo momento la programmazione del festival di quest'anno non mi ha entusiasmato. Non ho ancora visto un film che mi abbia davvero conquistata (pur avendo molto apprezzato molto La mujer del animal), e in generale vedo che anche il pubblico in sala è piuttosto tiepido. Rispetto all'edizione dello scorso anno paradossalmente questa - almeno fino al sabato e per i film che ho visto io - mi pare meno riuscita. Ciò detto, anche i film che mi sono piaciuti di meno qualche spunto interessante me l'hanno offerto comunque.

I am not a serial killer

I am not a serial killer è la storia di John (Max Records), um diciassettenne che vive con la madre a Clayton, un anonimo paesino americano. John va a scuola e aiuta sua madre nella gestione dell'azienda familiare di pompe funebri. La tranquilla vita del paese viene sconvolta da una serie di efferati omicidi che fanno pensare a un serial killer.

Il fatto è che John è un ragazzo sociopatico e il suo profilo psicologico è compatibile con quello che di solito è attribuito ai serial killer. John è consapevole di questo, e perciò esercita un ferreo controllo su se stesso per evitare l'emergere delle sue pulsioni. Di fronte al caso del serial killer, il ragazzo dimostra un'attrazione morbosa che lo porterà presto a scoprire chi è l'autore degli omicidi e ad aprire un vero e proprio confronto prima a distanza e poi da vicino con l'uomo.

Fin qui il film di Billy O' Brien, pur con il suo gusto un po' splatter per organi, sangue e carni recise, risulta piuttosto interessante e tine inchiodati alla sedia. Peccato dunque che a un certo punto la chiave di volta della storia arrivi in una maniera che sta a metà strada tra il prevedibile e il nonsenso.

Il film è un curioso mix di thriller psicologico (secondo me la parte migliore), horror, splatter e fantascienza, il tutto all'interno del filone della cinematografia che vede protagonisti adolescenti disturbati (scopro dopo che è tratto da un romanzo di successo!).

Il pubblico in sala, in buona parte composto di adolescenti, perché il film fa parte della rassegna Alice nella città, si divide a metà tra chi ha gradito ed è quasi entusiasta della svolta B-movie del film e chi invece ne esce disturbato e tutto sommato deluso.

Voto: 2,5/5




La última tarde

Dopo La mujer del animal, ancora un film sudamericano, La última tarde del peruviano Joel Calero. Siamo in Perù, precisamente a Lima. Laura (Katerina D'Onofrio) e Ramon (Lucho Caceres) si incontrano nello studio di un giudice per firmare le carte del loro divorzio. I due non si vedono da diciannove anni, ma per motivi burocratici Laura ha chiesto a Ramon di chiudere la pratica.

I due devono però aspettare il giudice cinque ore, cosicché cominciano a passeggiare per le strade di Lima e a chiacchierare, raccontandosi reciprocamente cosa è successo in questi diciannove anni e anche tornando al passato e al momento in cui si sono lasciati.

Diciannove anni prima, i due militavano in un gruppo terrorista di estrema sinistra, ma a un certo punto Laura era scappata dal loro nascondiglio facendo perdere le sue tracce, mentre Ramon e i suoi compagni erano poi stati scoperti.

La lunga passeggiata è l'occasione di dare e ricevere le risposte a interrogativi ancora in piedi e di sciogliere i nodi del passato, in maniera non sempre pacifica. L'incontro è anche l'occasione per sottoporre ad analisi le scelte politiche del passato, facendo emergere la diversità delle visioni del mondo di Laura, di estrazione borghese, e di Ramon, ancora legato agli ideali del popolo e della rivoluzione.

Attraverso Laura e Ramon un'intera nazione si mette di fronte alla propria storia, e forse non solo una nazione, visto che la parabola raccontata dal regista appartiene a molti paesi, così come la disillusione che ne è seguita.

Opera minimalista, sorretta da ottimi dialoghi (in gran parte estremamente naturali) e da due attori molto in parte; solo parzialmente rovinata da un finale che io personalmente ho trovato un po' deludente.

Voto: 3,5/5




La tortue rouge

Il regista Michael Dudok de Wit ci propone un'opera di animazione che è certamente debitrice sia dal punto di vista dei disegni che dell'impianto complessivo alla grande scuola giapponese dello studio Ghibli, che tra l'altro è anche tra i produttori del film.

La tortue rouge è la storia di un uomo che naufraga su un'isola deserta, lotta per sopravvivere e più volte tenta di fuggire con una zattera di fortuna che però gli viene distruttura da una grande tartaruga rossa.

Quando la tartaruga rossa giunge sulla spiaggia l'uomo prima tenta di ucciderla poi di salvarla, fino a quando la tartaruga si trasforma in una giovane donna, di cui l'uomo si innamora. Da qui in poi l'uomo non tenterà più di scappare ma vivrà tutta la sua vita sull'isola con la compagna e con il figlio avuto da lei, e che - una volta adulto - partirà alla scoperta del mondo.

Il film di De Wit è un film praticamente muto e con dei disegni di paesaggi bellissimi che sembrano veri e propri quadri: la spiaggia, i cieli, il mare, il bosco di canne ecc. E da questo punto di vista è godibilissimo.

La storia, chiaramente di impianto favolistico, è certamente una riflessione metaforica sulla vita umana, ma a mio avviso non risulta veramente incisiva e pregnante, e dunque scivola addosso in maniera piuttosto superficiale.

Voto: 3/5




Swiss army man

Paul Dano e Daniel Radcliffe sono i protagonisti di questo film folle e surreale dei Daniels (la coppia Dan Kwan e Daniel Scheinert), che è praticamente impossibile da raccontare. Hank (Paul Dano) è naufragato su un'isola e sta per farla finita, impiccandosi, quando sulla spiaggia il mare porta un cadavere (Daniel Radcliffe). In maniera del tutto surreale Hank riesce a interagire con il cadavere, il cui nome è Mannie,e che diventa il suo migliore amico in un assurdo viaggio nella foresta per raggiungere la civiltà.

Oltre questo è impossibile dire alcunché, e forse non è neanche il caso perché il nonsense di questo film va oltre qualunque cosa possiate immaginare. Ma - come auspicano i due presentatori prima del film - se riuscite a disattivare i controlli razionali e fate pace con il senso del ridicolo di cui è intrisa ogni singola scena, potrete apprezzare l'anima tenera, malinconica, triste, gioiosa di questo film.

Alla fine della visione non sono sicura che ci fosse davvero qualcosa da capire. Forse era troppo intelligente perché potessi capirlo, o troppo stupido, ma nei film di questo tipo in fondo non importa, perché gli estremi si incontrano e creano qualcosa di paradossale e certamente originale.

Come sempre mi accade in questi casi, faccio fatica a dire che mi sia piaciuto, ma sono comunque contenta che la festa del cinema (e nello specifico in questo caso la rassegna Alice nella città) mi porti anche a vedere cose che magari nella stagione cinematografica ordinaria non avrei mai scelto di vedere. Ogni tanto bisogna anche essere pronti a lasciarsi sorprendere battendo strade non usuali. E certamente Swiss army man per me è davvero una strada del tutto nuova.

Voto: 3/5

mercoledì 26 ottobre 2016

Florence Foster Jenkins

Florence Foster Jenkins è sicuramente tra i film più gettonati della Festa del cinema di quest'anno, anche grazie ai blasonati protagonisti, Meryl Streep (presente anche alla kermesse romana) e Hugh Grant, e all'altrettanto famoso regista Stephen Frears. Per quanto mi riguarda, si tratta praticamente di uno dei pochissimi film con grandi nomi che vedo, perché - mi dico - questi film li potrò sempre recuperare al cinema, mentre gli altri certamente non ci arriveranno mai.

Comunque per vedere il film sono alla Mazda Hall (la tensostruttura che viene allestita appositamente per la festa) insieme a G. e C., che hanno scelto questo come loro film del festival. G. mi dice di aver anche guardato online alcuni video della vera Florence Foster Jenkins, mentre io arrivo in sala che nemmeno so che il film è ispirato a una storia vera.

Questo però rende per me il tutto molto più divertente e accattivante. Siamo a New York nel 1944, la guerra non è ancora finita. Florence Foster Jenkins (Meryl Streep) è un'amante della musica, animatrice del Caffè Verdi da lei fondato, nonché mecenate di molti artisti e musicisti dell'epoca, tra cui Arturo Toscanini.

La donna è affiancata in tutto dal suo secondo marito (Hugh Grant), dopo che il primo le aveva lasciato in eredità solo la sifilide.

Fin qui tutto piuttosto interessante, ma normale. Florence Foster Jenkins è però una donna veramente singolare e il regista ce la fa scoprire poco a poco.

Prima di tutto scopriamo che suo marito (un aspirante attore che però a un certo punto ha abbandonato la carriera fors'anche perché non possedeva sufficiente talento), pur stando accanto a Florence con grande amorevolezza in ogni sua necessità, ha anche un'altra compagna da cui torna la sera dopo che Florence è andata a dormire.

In secondo luogo, ben presto scopriamo che Florence non solo ama sostenere la musica, ma anche esserne protagonista; per questo sceglie insieme al marito un pianista che la accompagni durante le sue lezioni di canto, Cosme McMoon (il personaggio più adorabile dell'intero film interpretato da Simon Helberg). Solo che quando cominciano le lezioni di canto risulta evidente a tutti che Florence non sa cantare, anzi è stonata come una campagna.

Il mondo intorno a lei però - in parte per il carisma della donna, in parte per il suo carattere suscettibile, in parte per i suoi soldi da cui dipende la vita di molti - si comporta come se Florence fosse una cantante dotata e le regge il gioco fino a quando la donna decide di incidere un disco e di cantare alla Carnegie Hall.

Quando le sue performance diventano di dominio pubblico accade l'inaspettato, ossia che la gente la adora per il suo coraggio e per il suo cuore, e Florence viene difesa fin sul letto di morte dalle critiche negative grazie anche all'attenzione amorevole del marito.

Il film di Frears è un film divertente e molto ben realizzato, che ci fa conoscere uno dei tanti personaggi minori della storia americana che però vale la pena di riscoprire.

Quella di Florence Foster Jenkins è una storia di devozione, passione e amore, che diverte e intenerisce al contempo, conquistando il pubblico dal primo all'ultimo minuto.

Le ricostruzione della New York degli anni Quaranta, in particolare gli sguardi dall'alto sulle strade newyorkesi con il loro via vai sono una delle cose più belle viste al cinema negli ultimi anni.

Del resto Frears è sempre Frears.


Voto: 3,5/5

lunedì 24 ottobre 2016

La mujer del animal

Sicuramente uno dei film più interessanti che ho visto alla Festa del cinema di quest'anno. E pensare che ero stata indecisa fino all'ultimo se comprare il biglietto!

Il tema mi era sembrato troppo duro e non sapevo se avevo voglia di vederlo, ma alla fine mi sono decisa. Non che il film non sia duro, a dire la verità è durissimo, in particolare per la violenza fisica e psicologica che racconta; ma la violenza non è gratuita bensì totalmente funzionale a raccontare in forma quasi documentaristica una realtà ben precisa.

Siamo in una bidonville che si sviluppa sulle pendici di un monte che guarda una grande città colombiana, probabilmente Medellìn. Amparo (Natalia Polo), una ragazza diciottenne fuggita dal collegio dove è rinchiusa, si rifugia a casa di sua sorella, che vive nella baraccopoli insieme a suo marito. Su di lei mette gli occhi un uomo ben noto nel quartiere, Libardo Ramirez (Tito Alexander Gomez), che tutti chiamano "l'animal".

L'animal - con l'aiuto di una donna - droga Amparo e poi la rapisce per stuprarla e per farne la sua donna. Un uomo che nessuno contraddice e a cui nessuno vuole mettersi contro in quanto capace di inaudita violenza insieme ai suoi compari.

Da qui comincia il vero e proprio - lunghissimo - calvario di Amparo, costretta a vivere con un uomo violento da cui ha una figlia e da cui viene poi costretta anche a prendersi cura del figlio che lui ha avuto e ha poi strappato a un'altra donna.

Amparo cerca in tutti i modi di ribellarsi e fuggire, ma la baraccopoli si rivela una vera e propria prigione dove vigono la legge del più forte, la violenza, il terrore, la guerra per bande e un maschilismo feroce, che costringe le donne a una vita di sottomissione agli uomini come compagne o come prostitute o di complicità a causa dell'ignoranza.

E nonostante tutto Amparo mantiene una dignità e un'umanità straorinarie e dimostra un istinto di sopravvivenza non comune in condizioni di vita estreme; cosicché, pur non essendo capace di sottrarsi alle angherie di suo marito e non avendo la forza di ucciderlo, aspetterà con pazienza fino al momento in cui la guerra tra bande rivali non ne determinerà la morte.

La mujer del animal è uno di quei film che io definisco necessari (pur con alcune sue rigidità narrative), perché credo che, pur vivendo in un mondo globalizzato, noi che abbiamo avuto la fortuna di nascere nella parte "migliore" (nel senso di "più facile" ) del mondo non abbiamo la più pallida idea di cosa significhi vivere in contesti di marginalità come quello che Víctor Gaviria racconta in questo film né cosa voglia dire essere donne in una società così violenta e maschilista. Ed è bene che qualcuno ogni tanto ce lo sbatta sotto gli occhi in modo rigoroso e duro per non farcelo dimenticare.

Voto: 4/5

venerdì 21 ottobre 2016

Una

Eccomi al primo appuntamento di quest'anno con la Festa del cinema di Roma, che io cerco di non farmi scappare non potendo ambire - al momento - a frequentare festival più blasonati. Quest'anno - se ce la faccio - dovrei riuscire a vedere parecchi film, soprattutto nell'ultimo fine settimana di programmazione.

Comincio questa avventura con il film Una e inizio da una location periferica rispetto al cuore della festa, che si svolge all'Auditorium. Sono infatti al cinema Farnese in compagnia di F.

Non so quasi nulla del film se non che la protagonista è Rooney Mara (che avevo apprezzato in Carol); d'altra parte la sinossi del film è piuttosto generica e poco esplicativa. Capirò poi che in fondo è perfettamente in linea con il registro scelto dal regista Benedict Andrews.

La prima mezz'ora del film, secondo me, è un vero e proprio saggio di perizia cinematografica, magistrale nel giustapporre brevi sequenze quasi senza parlato che creano un senso di spaesamento e di mancanza di punti di riferimento, e dunque immediatamente una sotterranea angoscia, perché qualche indizio c'è ma il regista non ci fornisce strumenti di comprensione piena e dunque di controllo della situazione.

Via via che la trama del film si dipana quello che sappiamo è che Una (Rooney Mara), una giovane donna che ancora vive a casa con la madre, certamente ha qualcosa di irrisolto che si porta dentro. Ma mano capiamo che le brevi sequenze che intervallano il presente si riferiscono a un momento passato della sua vita, quando aveva 13 anni. La seguiamo mentre - senza dire nulla alla madre e trovando una scusa con il lavoro - si dirige alla sede di un'azienda dove cerca Ray, che - scoprirà presto - ora si fa chiamare Peter (Ben Mendelsohn). Ray è un amico di suo padre, dunque molto più grande di lei, ed è l'uomo con cui a 13 anni aveva avuto uno storia d'amore giunta fino al punto della fuga da casa. La vicenda era poi finita in tribunale e Ray era stato condannato a 4 anni di carcere, dopo i quali si era rifatto una vita con un altro nome.

Di cosa parla questo film? Di pedofilia? In realtà il termine non viene mai - e credo volutamente - utilizzato. Entrambi i protagonisti di questa storia, Ray e Una, sembrano trasmetterci l'idea che la loro storia di allora era stata il frutto di un vero innamoramento e trasporto reciproco, e che in qualche modo solo le circostanze e una serie di coincidenze più o meno sfortunate non ne avevano consentito il coronamento.

Una, la protagonista, accusa Ray non di averla violata, bensì di averla abbandonata, di aver tradito il suo amore, e tutte le sue recriminazioni sulla manipolazione dell'uomo rispetto a una ragazzina di 13 anni appaiono più come una elaborazione sociale e intellettuale che come l'espressione di un sentimento proprio.

Certamente la vicenda ha cambiato la vita di entrambi i protagonisti e la violenza dei suoi esiti sia rispetto alla vita di Una che a quella di Ray ha in qualche modo soffocato i sentimenti e in parte li ha trasformati in risentimento reciproco.

È vero però che il film non è costruito in maniera così lineare come il mio racconto sembra far pensare fin qui; molte cose di quanto è accaduto nel passato non vengono dette e lasciate nell'ambiguità, alcune situazioni del presente non vengono sciolte (per esempio i rapporto tra Ray e la sua attuale moglie, e la figlia di costei), e la ricostruzione di quanto accaduto dopo la fuga dei due è affidata ai racconti dei protagonisti, cosicché la spiegazione dell'abbandono da parte di Ray, oltre che in parte poco convincente, risulta inverificabile.

Ray è dunque uno a cui piacciono le ragazzine e che cerca situazioni come quella che a suo tempo si era creata con Una, oppure è un uomo maturo, ma in fondo un po' adolescenziale che si è innamorato veramente di una ragazzina? E Una è stata una vittima della manipolazione di quest'uomo, oppure soggetto attivo e almeno in parte consapevole delle scelte che ha fatto?

È possibile e accettabile - anche nell'ipotesi migliore di un innamoramento reciproco - un rapporto di questo tipo, in cui uno dei due soggetti forse non ha l'esperienza, gli strumenti e la maturità per difendersi dalle conseguenze emotive di un tale rapporto? La possibilità e la accettabilità sociale di questi rapporti è un dato culturale, e dunque cambia nel tempo e a seconda dei gruppi umani, o è qualcosa che sta scritta nella nostra fisiologia? Il film con il suo impianto in cui la suspence la fa da padrona lascia aperti tutti questi interrogativi al dibattito e alla riflessione fuori dalla sala.

Voto: 3,5/5


mercoledì 19 ottobre 2016

Laish. Unplugged in Monti, Blackmarket, 12 ottobre 2016

Un paio di anni fa Daniel Green aveva portato il suo progetto musicale, Laish, ad Unplugged in Monti in versione solista per presentare il suo lavoro Obituaries, un album che avevo ascoltato e amato molto. Purtroppo quella sera non ero veramente riuscita a godermi il suo concerto, perché ero arrivata tardi e davanti a me, nella piccola saletta del Blackmarket, c'era una muraglia umana che mi consentiva solo di sentirne la voce.

E così, questa volta, visto che Daniel Green torna in full band per presentare il nuovo album, Pendulum swing, decido che non posso perderlo e mi prenoto quasi immediatamente, trascinando anche F.
Mentre sto parcheggiando il motorino al mio solito posto vedo Green che scende giù per via Panisperna e gli faccio un sorriso, ma lui ovviamente mi guarda stranito. Poi lo rincontro faccia a faccia nella zona bar del Blackmarket e forse capisce perché gli avevo sorriso.

All'inizio del concerto, Daniel Green – accompagnato da altri due musicisti, uno alla batteria e l'altro alle tastiere, mentre lui imbraccia la chitarra - chiede chi c'era al suo concerto nello stesso luogo due anni fa e io e pochi altri prontamente alziamo la mano. Ci dice che la persona che oggi abbiamo di fronte è molto diversa da quella di due anni fa, e poi comincia a suonare, presentandoci molte delle canzoni del suo ultimo album, canzoni che vanno dal malinconico allo scherzoso, e che sempre sono impreziosite dalla sua voce inconfondibile.

Stasera Daniel è molto scherzoso (lui dirà a un certo punto silly), non smette di riempire i silenzi tra una canzone e l'altra, mentre accorda la chitarra, con battute e scambi scherzosi con il pubblico. A un certo punto ci coinvolge nell'esecuzione di una sua canzone in cui noi siamo chiamati a fare il verso degli uccellini che – ci spiega – aveva deciso di mantenere nella registrazione originale del disco.

Il pubblico segue partecipe e silenzioso, in uno stato d'animo che complessivamente appare di serenità e grazia.

Verso la fine del concerto Daniel decide di offrirci anche una versione realmente unplugged di una sua canzone; peccato che il brusio che arriva dal bar, considerato che questa volta siamo sedute un po' più indietro nella saletta, ci distragga e non ci consenta di apprezzare al meglio l'esecuzione.

Il concerto è finito, ma quando Daniel lascia vuoto il palco – accucciandosi davanti visto che non esiste un backstage – il pubblico gli fa capire che lo ascolterebbe ancora un po'. E così ci regala un'ultima canzone e ci fa andare via con il cuore davvero contento.

I Laish non rappresentano un elemento di rottura né di originalità nel panorama dell'indie-pop-folk, ma la combinazione tra le melodie molto ben strutturate e l'inconfodibile voce di Daniel Green conferiscono a questa musica una gradevolezza e in fondo anche una identità assolutamente riconoscibile.

Così all'uscita non mi faccio ripetere due volte l'invito all'acquisto del CD, che Daniel mi firma e che porto a casa contenta anche del fatto che la materialità del supporto – come spesso mi accade ultimamente – favorirà ascolti maggiori rispetto ai suoi fratelli puramente digitali.

Una bella serata che arriva in un periodo per me faticoso, ma segna una giornata in cui forse qualcosa si è sciolto dentro di me e che mi fa guardare con maggiore fiducia ai giorni a venire.

Voto: 3,5/5

domenica 16 ottobre 2016

Quando hai 17 anni

Damien (Kacey Mottet Klein) ha 17 anni e frequenta il liceo del suo paese che si trova in una valle incuneata in mezzo alle alte montagne dei Pirenei. Sua madre è medico, mentre suo padre è un militare che trascorre molti periodi in missione all'estero.

Thomas (Corentin Fila) frequenta la stessa classe di Damien e vive in una fattoria sulle montagne insieme alla famiglia che lo ha adottato.

Damien e Thomas non sono indifferenti l'uno all'altro, ma all'inizio questa attenzione reciproca si manifesta in modo molto conflittuale e i due ragazzi si azzuffano più volte, fino a quando il preside della scuola chiede l'intervento dei genitori. La madre di Damien, Marianne (Sandrine Kiberlain) - dopo aver visitato la madre di Thomas che, dopo una serie di aborti, è adesso incinta - si prende a cuore le sorti del ragazzo e decide di ospitarlo in casa sua per un po'.

La vicinanza forzata tra Damien e Thomas, nonché il ruolo di tramite svolto da Marianne, sarà decisiva per far comprendere ai due ragazzi la natura dei propri sentimenti reciproci e per metterli di fronte alla propria identità in quel momento delicato che è il passaggio alla vita adulta. Durante i tre trimestri in cui si svolge questa storia, Damien e Thomas - mentre scoprono se stessi - scoprono anche di essere parte del grande mistero della vita, che è fatto del trascorrere delle stagioni in una natura molto presente com'è quella del luogo nel quale vivono e del ciclo di nascita e morte di cui sono spettatori e cui partecipano.

Il film di André Téchiné (magnificamente supportato alla sceneggiatura da Celine Sciamma) racconta un'età complessa e intraducibile, un'età in cui la fisicità è preponderante e sovrabbondante e ancora fa fatica a tradursi in parole e in una comunicazione intellegibile. E infatti Quando hai 17 anni è un film in cui le parole restano sullo sfondo, in cui tutto è molto fisico e fatto di interazione tra corpi e di interazione dei corpi con natura ed altri esseri viventi.

L'evoluzione della dinamica tra Damien e Thomas è resa con un grande realismo, fatto di comprensione e rispetto per un'età che spesso gli adulti guardano con sospetto e non comprendono. In questo senso, il film di Téchiné è anche un film di adulti più o meno presenti nelle vite di questi due ragazzi, a volte determinanti, come nel caso della madre di Damien, una specie di filtro assorbente e di cuscinetto emotivo. Almeno fino a quando il suo equilibrio non viene rovesciato dalla morte del marito, che coincide poi anche con il momento in cui i due ragazzi sono ormai pronti a fare le proprie scelte.

In definitiva un film che personalmente non ho trovato emotivamente molto trascinante, forse volutamente ingessato, quasi sincopato nel ritmo, un po' come si è a 17 anni, ragazzoni impacciati e irrisolti; d'altra parte si tratta di un film profondamente sincero e soprattutto rispettoso della complessità dell'adolescenza al di fuori e al di là degli stereotipi.

Voto: 3,5/5

martedì 11 ottobre 2016

The girl who saved my life

Secondo e ultimo appuntamento al Palazzo delle Esposizioni per la rassegna di documentari selezionati dalla rivista L'internazionale, dedicata a temi di attualità e ai diritti umani.

In questo caso il documentario è quello realizzato da Hogir Hirori, un curdo iracheno che vive in Svezia dove ha una moglie e un figlio. Mentre sua moglie sta aspettando il suo primo figlio, Hogir - che alla fine degli anni Novanta è scappato dal Kurdistan iracheno e ha fatto il viaggio della speranza di tanti profughi attraverso la Turchia, l'Albania, l'Italia, l'Austria e la Germania arrivando alfine fortunosamente in Svezia - decide di tornare nel suo paese per documentare la situazione a più di 15 anni di distanza e senza che la guerra e il dramma dei profughi di fatto siano mai finiti.

Durante questo suo primo viaggio Hogir incontra molti profughi curdi, soprattutto Yazidi abitanti delle montagne dello Sinjar, che le forze dell'IS hanno parzialmente sterminato, costretto alla conversione, oppure hanno spinto ad imbracciare le armi o alla fuga. Le distese infinite di campi profughi e le storie terribili di tante famiglie smembrate, disperse, con componenti uccisi o venduti o catturati dall'IS sono un pugno allo stomaco, uno schiaffo in faccia a noi occidentali tutte le volte che ci rifiutiamo di affrontare questi enormi drammi umanitari determinati da guerre di cui siamo parte in causa.

In particolare, durante il suo primo viaggio, Hogir incontra Souad, una ragazzina di 11 anni che sta distesa sotto una cisterna rossa, malata, abbandonata, incapace di mangiare. Per occuparsi di lei Hogir decide di rinunciare a salire sull'elicottero curdo che ogni giorno porta da mangiare a chi - circondato dalle forze dell'IS - è rimasto intrappolato e senza cibo sulle montagne dello Sinjar e porta via non più di 25 persone alla volta. Purtroppo l'elicottero su cui Hogir sarebbe dovuto salire si schianta sulle montagne e Hogir si rende conto che la piccola Souad gli ha salvato la vita.

Da questo momento in poi per Hogir diventa prioritario ritrovarla, e per questo ritorna in Kurdistan una seconda volta; durante questo secondo viaggio va alla ricerca di Souad, nonché di coloro che ha incontrato durante il primo viaggio e che gli hanno raccontato le loro storie, oltre a documentare l'evoluzione della situazione della regione dove da un lato i combattenti curdi sono riusciti a liberare alcune zone e dall'altro l'IS in ritirata ha lasciato solo macerie e distruzione. Riuscirà a ritrovare quasi tutti e a fare un piccolo regalo a ognuno: ad una donna fa incontrare i figli che non vede da 2 anni, ad un'altra donna con la figlia dà la possibilità di raggiungere la tomba del marito sulle montagne ecc. Ma non si dà pace finché non ritrova Souad e non riesce a portarla a Erbil per una diagnosi della sua malattia.

Hogir tornerà un'ultima volta in Kurdistan con la moglie e il figlio per incontrare ancora una volta Souad e la sua famiglia.

Il documentario di Hogir Hirori è un piccolo gioiello che tutti in Europa - e non solo - dovrebbero vedere, per capire l'enormità di quello che accade in questa parte del mondo non così lontana da noi, per comprendere il dramma senza fine dei popoli in guerra. Il regista riesce a raccontare questo mondo senza pigiare eccessivamente sul tasto della retorica e del melodramma, ma mantenendosi in equilibrio tra il bisogno di documentare con un approccio quasi giornalistico e la necessità altrettanto forte di raccontare le storie delle persone e di dare una dimensione umana a questa immane tragedia, di cui non sappiamo nulla o forse non vogliamo sapere nulla.

Voto: 4/5

domenica 9 ottobre 2016

Future baby

Nell’ambito della rassegna “Internazionale a Roma”, una serie di documentari su attualità e diritti umani selezionati da Internazionale e proiettati al Palazzo delle Esposizioni, vado a vedere con A. Future baby, il documentario dell’austriaca Maria Arlamovsky dedicato al tema della riproduzione umana e delle tecnologie che la stanno progressivamente trasformando.

La regista si confronta con pazienti, medici, sociologi, bioetici, donatori e donne che hanno accettato di portare in grembo per nove mesi il figlio di qualcun altro. La sua indagine attraversa diversi paesi, in particolare in Europa e in America settentrionale, e si confronta con tanti punti di vista differenti su come si sta evolvendo la tecnologia della riproduzione: dalla FIVET al cosiddetto utero in affitto, con tutte le varianti che questo comporta in riferimento alla provenienza di ovuli e spermatozoi, che possono essere prelevati dalla coppia oppure provenire da donazioni.

Questo viaggio arriva anche a gettare uno sguardo sul futuro, in particolare alle prospettive legate alla possibilità di realizzare l’intero processo della riproduzione all’esterno del corpo umano, attraverso l’utero artificiale, con tutti gli interrogativi che si porta dietro.

Lo sguardo della regista - che pure cerca di mantenersi equidistante da tutte le posizioni e di documentarle tutte – soffre inevitabilmente di un bias legato innanzitutto al fatto di confrontarsi quasi esclusivamente con il mondo occidentale e con le società avanzate, in secondo luogo al fatto che non approfondisce a sufficienza il significato e le motivazioni di quel bisogno di maternità e paternità che spinge tante coppie e tante persone a ricorrere a queste tecniche, anziché prendere in considerazione per esempio l’adozione ovvero rinunciare alla genitorialità.

Il documentario fa certamente il suo lavoro nell’offrire strumenti di conoscenza di un mondo complesso e che può risultare in qualche modo incomprensibile a chi non ne è coinvolto in prima persona o molto da vicino, e si mette con onestà di fronte alle due facce della medaglia: da un lato una tecnologia medica che evolve rapidamente e che rende possibili cose prima impensabili, dall’altro gli interrogativi etici che inevitabilmente l’umanità è chiamata a porsi di fronte a queste prospettive.

Non si esce dal cinema avendo opinioni più chiare o posizioni più convinte su questi temi, o almeno a me non è successo così. Semmai si ha la sensazione che il progresso della tecnologia medica è inarrestabile e ha certamente delle ricadute positive e importanti per la vita umana, e proprio per questo – come afferma uno dei medici intervistati – non ha senso negare questo progresso, mentre invece è fondamentale cominciare a porsi delle domande, a sviscerare le implicazioni, a definire i confini per noi accettabili, pur sapendo che lì dove una tecnologia esiste ci sarà sempre una persona che vorrà utilizzarla (per ragioni etiche o no) e un luogo dove sarà consentito farlo.

La storia dell’umanità procede così. E – sia chiaro – non è detto che proceda sempre verso il meglio, visto che l’uomo nel tempo ha dimostrato anche di essere in grado di creare tecnologie che mettono a rischio la stessa sopravvivenza dell’umanità. Ma proprio per questo – come società e come individui – siamo chiamati a interrogarci e a riflettere su tutte le possibilità che la medicina – in questo caso – offre e a cercare di volta in volta un equilibrio e/o un compromesso accettabile fra l’universo di ciò che è possibile e l’universo di ciò che è giusto e accettabile. Confine mobile, difficilissimo, soggettivo, ma di fronte al quale non possiamo tirarci indietro.

Voto: 3/5