giovedì 18 novembre 2010

The social network

Ovvero la storia di Facebook, la piattaforma sociale di maggiore successo nella storia (fin qui, visto che i miei nipoti adolescenti già la snobbano un po') di Internet.

La storia in sé dovrebbe essere nota, essendo finita sui giornali di tutti il mondo, ma vale la pena ricordarla. Il giovane Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg, che io mi ricordavo ragazzino timido e un po' imbranato in Roger Dodger), un giovane studente di Harvard, per reazione al fatto di essere stato lasciato dalla sua ragazza, comincia a fare i primi esperimenti di un sito sociale in cui sia possibile mettere - volontariamente ed in maniera esclusiva - contenuti di vario genere e sottoporli al giudizio degli altri. Dal cattivo scherzo di Facemash, che gli costerà la sospensione dall'università, a TheFacebook, impresa nella quale si metterà insieme all'amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield).

Il progetto cresce, ed oltre a suscitare le ire dei fratelli Winckelvoss (Armie Hammer e Joshua Pence), che si sentono defraudati di un'idea in cui avevano coinvolto lo stesso Zuckerberg, raggiunge anche Sean Parker (Justin Timberlake), fondatore di Napster, geniaccio informatico anche lui, ma ormai sul lastrico per i guai legali avuti e le cause che ha dovuto affrontare.

Mentre TheFacebook diventa Facebook più o meno come lo conosciamo oggi e raggiunge il milione di iscritti (trasformandosi in un affare di proporzioni impensabili), i rapporti tra i soggetti coinvolti si sfasciano completamente. Ne nasce una causa per milioni di euro, in cui Mark Zuckerberg e il suo avvocato non potranno che patteggiare e chiedere la clausola di riservatezza.

Fin qui la storia. Ora veniamo al film.
Non mi aspettavo un capolavoro (e non lo è), ma David Fincher non è certo l'ultimo arrivato e il film è costruito con grande maestria. Si parte dalla fine. Il processo. E, attraverso una serie di flashback, si getta luce sul come e perché si è arrivati a quel momento. Il ritmo è sostenutissimo, a tratti fulminante (mi ha ricordato in certi momenti Fight Club), i dialoghi sono ottimi, alcuni brillanti e quasi esilaranti (vedi ad esempio quello tra il rettore della Harvard University e i fratelli Winckelvoss), la colonna sonora è di grande effetto, la ricostruzione dell'ambiente delle "confraternite" delle università americane è efficace (probabilmente migliore di molti altri film).

Insomma, si arriva in fondo al film soddisfatti, perché ci hanno raccontato una storia interessante. E anche bene.

Non mi ha invece del tutto convinto la "morale". Cioè l'interpretazione che il regista e lo sceneggiatore hanno voluto dare di questa vicenda.
Mark Zuckerberg è un nerd di intelligenza superiore, afflitto dal problema di non essere accettato, di essere in qualche modo diverso dagli altri, da quella massa che da un lato disprezza, ma allo stesso tempo agogna. Scaricato dalla ragazza, vestito in pigiama e ciabatte, completamente immerso nei suoi codici, non cattivo, ma relazionalmente inabile. Si entusiasma per Sean Parker, che persegue solo i propri interessi e la vendetta personale, nel suo universo fatto di donne, droga e feste, non riconosce l'amicizia di Eduardo, dandole un calcio per invidia, si ritrova miliardario e solo. Come le dice la giovane avvocatessa, "non sei una cattiva persona, ma ti sforzi con tutto te stesso di essere stronzo".

Ne consegue - tra le le righe - un'interpretazione altrettanto morale dello strumento Facebook, nuovo spazio sociale per disadattati e gente che non è in grado di relazionarsi nella vita reale, espressione di una società superficiale, in cui l'amicizia come eravamo abituati a intenderla perde valore. O forse, al contrario, il film ci vuole suggerisce i rischi di una vita trasferita sulla rete, senza avere solide basi nella realtà. Ma in fondo è una facile morale che può essere applicata a qualunque strumento. Si potrebbe dire lo stesso per la televisione, il cellulare, i videogame, la musica, Internet in molte delle sue manifestazioni e qualunque altra cosa venga utilizzata come un sostitutivo della costruzione di un pensiero autonomo. Non è un problema dei mezzi che usiamo, ma sempre di persone e di consapevolezza.

In ogni caso, a me ha fatto impressione vedere raccontata sul grande schermo la "banalità delle origini", cioè come quello che è un fenomeno mondiale (su cui si fanno studi sociologici, si passa parte del nostro tempo ecc.) nasce in fondo solo per dare un seguito ai contatti più superficiali e magari trasformarli in occasioni di "rimorchio".

Bene che Fincher si sia mantenuto abbastanza in equilibrio su questa linea sottile, senza spaccare il mondo in buoni e cattivi. Tutti in fondo ci vengono presentati come persone dotate di una sufficiente complessità per non diventare solo macchiette, sebbene non immuni da tratti un po' stereotipati.

Un po' come tutti gli apologhi, alla fine, - uscendo dalla sala - ognuno rimarrà delle proprie convinzioni, o forse si rafforzerà nelle stesse, per effetto della rilettura selettiva che di fronte a film e fenomeni di questo tipo è praticamente inevitabile.
La domanda poi tipicamente italiana se una cosa del genere sarebbe potuta nascere in Italia mi pare un po' oziosa e un po' banale messa in questi termini. Dunque, scusatemi, ma ho deciso di tacerne.

Voto: 4/5

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