lunedì 30 agosto 2021

Old

In un caldissimo pomeriggio di fine luglio, io e S. decidiamo di andare al cinema a vedere l'ultimo film di M. Night Shyamalan, incuriosite anche dal fatto che da qualche giorno ho in casa il graphic novel da cui è tratto, Castello di sabbia, di Pierre Oscar Lévy e Frederik Peeters.

Poiché so che si tratta di un thriller (con qualche venatura paranormale) ho deciso di vedere il film prima di leggere il fumetto, anche perché per l'ennesima volta vorrei dare a Shyamalan la possibilità di dimostrare di essere ancora il regista geniale de Il sesto senso. Devo purtroppo dire che - a parte qualche film di buon livello ma certo lontano dalle vette del suo primo - il regista indiano naturalizzato statunitense sembra essere rimasto schiacciato da quel primo successo e incapace di tirare fuori dal cilindro qualcosa di altrettanto significativo.

Qui ha a disposizione una materia interessante, anzi direi perfetta rispetto alle sue preferenze cinematografiche.

Siamo da qualche parte nel mondo in un posto che sembra esotico, e precisamente in un resort di lusso, dove alcune persone stanno trascorrendo le loro vacanze. Ad alcuni viene proposta una gita a una spiaggia nascosta nella riserva naturale, considerata una delle più interessanti attrazioni locali. Su questa spiaggia si ritroveranno in tutto dodici persone: quando arrivano le due famiglie accompagnate dal pulmino dell'hotel (guidato nientepopodimeno che da Shyamalan in persona) in loco c'è un ragazzone di colore che perde sangue dal naso e che ha visto tuffarsi in acqua una giovane donna. Una famiglia è formata da Guy (Gael García Bernal) e Prisca (Vicky Krieps), una coppia in crisi che non sa come parlare della separazione ai figli Maddox e Trent; l'altra famiglia è formata da un medico un po' rude, sua moglie, la loro figlia, l'anziana madre di lui e un cane. In un secondo momento arriva in spiaggia un'altra coppia, formata da un infermiere e sua moglie che soffre di epilessia.

Dopo il ritrovamento del cadavere della ragazza che si era tuffata in mare, le vicende che accadono sulla spiaggia saranno sempre più strane e imprevedibili fino a quando i protagonisti capiranno che il luogo produce strane conseguenze su tutti loro.

Non andrò oltre nel racconto della trama per non fare spoiler e non rovinare alcuna sorpresa.

Quello che si può dire è che il film di Shyamalan gioca certamente su un elemento metacinematografico, e la scelta del regista di interpretare uno specifico ruolo nell'intreccio narrativo rafforza l'idea di un film che racconta e analizza un sistema chiuso e le dinamiche che lo caratterizzano. Ciò permette al regista di estremizzare le reazioni individuali ed esasperare i profili psicologici dei protagonisti (con risvolti quasi grotteschi, altra caratteristica tipica del cinema di Shyamalan), così come non manca qualche inserto splatter e horror, una specie di suo marchio di fabbrica. Il regista non rinuncia però a inserire la narrazione all'interno di una cornice più ampia e di una riflessione sociale il cui senso si comprenderà solo alla fine della visione.

Tutto questo però crea quel tipico effetto additivo e sovrabbondante che rende il cinema di Shyamalan poco digeribile e che, pur nella consapevolezza che da parte del regista non c'è una ricerca di verosimiglianza o di realismo, inevitabilmente crea una distanza dello spettatore rispetto alla vicenda narrata, cosa che certamente non va a beneficio del coinvolgimento e della tenuta dell'attenzione. Non so se sarebbe stato diverso vederlo in lingua originale, ma alla fine la sensazione che i personaggi divengano macchiette quasi caricaturali e che la narrazione proceda un po' a singhiozzo producendo un risultato un po' strampalato si rafforza durante la visione, e con lo scioglimento finale l'insieme risulta ancor meno accettabile.

Insomma, quello di Shyamalan è ancora una volta un giocattolone che alla fine lascia un po' perplessi.

Voto: 3/5

mercoledì 4 agosto 2021

I WeirDO

Chen Po-Ching (Austin Lin) soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), che tra le altre cose si manifesta sotto forma di una pesante misofobia. Questo fa sì che il ragazzo segua ogni giorno una scrupolosa procedura che rende le sue giornate tutte perfettamente identiche le une alle altre e in buona parte occupate dalla pulizia personale e della casa nella quale vive. Ogni 15 giorni, Po-Ching - bardato come un palombaro - va al supermercato per la spesa. È proprio in una di queste sue uscite che conosce Chen Ching (Nikki Hsin-Ying Hsieh), che immediatamente riconosce come affetta dal suo stesso disturbo.

Quasi inevitabilmente i due giovani sono attirati l'uno verso l'altra e iniziano una storia, fino a decidere di andare a vivere insieme a casa di Po-Ching. Il loro disturbo e le loro idiosincrasie sono talmente simili e in parte complementari da renderli una coppia praticamente perfetta, con le medesime esigenze e i medesimi problemi.

Un giorno però accade che Po-Ching si sveglia e, attirato da un colombo nel giardino, si accorge che il suo disturbo ossessivo-compulsivo è sparito. Da lì in poi i suoi bisogni cambiano e ciò che lo legava a Ching diventa motivo di progressivo allontanamento.

La commedia taiwanese, che tanto successo ha avuto al Far East Film Festival, inizia con un ritmo divertente e divertito e poi si fa romantica; vira infine verso un tono sempre più malinconico e drammatico. Parallelamente a questi cambiamenti di tono si modifica anche il formato del girato, che nella prima parte è quello dell'iPhone e poi nella scena in cui Po-Ching scopre improvvisamente di non soffrire più del DOC diventa 16:9 con un artificio che ricorda un po' quello utilizzato da Xavier Dolan in Mommy.

Il film (che sicuramente è nel complesso più vicino al mondo cinematografico occidentale che a quello cinese) è interessante sia dal punto di vista strettamente cinematografico (inquadrature, scenografia, montaggio), sia dal punto di vista narrativo e dell'orizzonte di senso, in quanto apre a una serie di riflessioni non del tutto banali, soprattutto se si va un po' oltre la superficie di quello che viene raccontato.

Apparentemente il regista Liao Ming-yi ci racconta la normale parabola di una storia d'amore, facendone emergere le contraddizioni grazie a due personaggi estremi e anomali come Po-Ching e Ching.

In realtà, proprio per effetto all'iperbole ottenuta grazie ai due protagonisti, ci sta parlando di qualcosa di più, ossia ci invita a riflettere sul fatto che le somiglianze e la comunanza di interessi ed esigenze sono un collante strepitoso e a suo modo molto semplice, però non tiene conto del fatto che gli esseri umani non restano per sempre uguali a sé stessi. Ognuno di noi cambia ed evolve nel corso della vita, e insieme a questi cambiamenti si modificano anche le nostre esigenze e le preferenze.

Due esseri umani che si incontrano - tanto più se all'interno di un rapporto d'amore - devono dunque essere consapevoli che non è sulle somiglianze che si costruisce la possibilità della durata, bensì sulle differenze, e che un rapporto che va avanti lo fa solo al prezzo di una continua ricerca di compromessi e forme di compensazione tra le differenze. A me il film ha comunicato questo - se vogliamo semplice - messaggio: se accettiamo fin dal principio il cambiamento e lo mettiamo nel conto, è molto più probabile che lo sapremo affrontare e metabolizzare all'interno del rapporto. Se invece pensiamo che tutto rimarrà uguale al primo giorno la storia è inevitabilmente destinata a finire, da qualunque  parte arrivi il cambiamento.

Una serata gradevole. Un film agrodolce, piacevole a vedersi e non superficiale. Attori molto in parte. 

Voto: 3,5/5


lunedì 2 agosto 2021

La città dei vivi / Nicola Lagioia

La città dei vivi / Nicola Lagioia. Torino: Einaudi, 2020.

La scrittura ombrosa e sottilmente inquietante di Nicola Lagioia – che già avevo avuto modo di conoscere attraverso il suo romanzo vincitore del Premio Strega, La ferocia – si mette questa volta al servizio di un fatto di cronaca nera tra i più efferati avvenuti a Roma nel corso degli ultimi anni.

Parliamo del delitto di Luca Varani, un giovane di famiglia umile della periferia romana, torturato e ucciso senza un movente specifico da altri due giovani di buona famiglia, Manuel Foffo e Marco Prato, dopo giorni di sballo a base di sesso e cocaina nella casa del primo, nel quartiere Collatino.

Quello di Nicola Lagioia non è un romanzo - e forse avremmo preferito che lo fosse – ma un’inchiesta giornalistica scritta in forma letteraria, da uno che i romanzi li sa scrivere e che sceglie di evitare il linguaggio freddo e distaccato degli atti giudiziari così come il tono scandalistico e sopra le righe dei giornali.

L’autore ricostruisce la vicenda di questi tre giovani, e di tutti coloro che più o meno direttamente sono stati coinvolti in questa vicenda, con un’empatia e una partecipazione di alto profilo, scegliendo anche di mettere a nudo una fase non edificante della propria vita per far comprendere i motivi per cui il caso di cronaca lo ha coinvolto emotivamente e psicologicamente in maniera così profonda.

L’omicidio Varani viene inserito nella cornice di un altro racconto, quello di una città, Roma, che svolge un ruolo importante nel far comprendere il contesto nel quale l’evento si consuma: una città dove la cocaina scorre a fiumi, dove il sindaco è stato destituito, dove l’immondizia invade le strade, dove sono in corso due altre indagini diciamo di tipo sistemico: quella, nota anche con il nome di Operazione Mondo di Mezzo (e poi passata “alla storia” come Mafia capitale), che porta alla scoperta di un sistema di corruzione così ampio e diffuso nel sistema città da non riuscire nemmeno a intravederne i confini, e quella che porta alla scoperta di un vasto giro di pedofilia che si sviluppa intorno alla stazione Termini.

La città di Roma è dunque il girone infernale nel quale si muovono i protagonisti di questa vicenda, nonché lo stesso scrittore che proprio in quegli anni decise di lasciare la città alla volta di Torino, salvo poi farvi ritorno.

Roma diventa così simbolicamente la massima incarnazione dell’attrazione quasi morbosa per il male che ognuno si porta dentro, mescolata a quei frammenti di bellezza pura e assoluta che pure albergano nell’essere umano.

La rappresentazione di Roma come città in decomposizione capace di contagiare chiunque ci viva abbastanza, da cui tutti attendono l’occasione per fuggire salvo poi provarne nostalgia, mi ha ricordato a tratti quella, persino più cupa, certamente più cinica, di Francesco Pecoraro ne Lo stradone, e ha confermato la mia teoria ormai pluridecennale su Roma, una città che odi per mille motivi ma che si fa perdonare tutto con brevi esplosioni di straordinaria bellezza.

Il racconto dell’omicidio di Luca Varani da parte di Manuel e Marco, la ricostruzione dei profili psicologici di ciascuno dei protagonisti e in parte dei comprimari, è a sua volta una discesa agli inferi, in quelle profondità di noi stessi che tutti noi celiamo sotto una spessa coltre di razionalità, umanità e buon senso, e che difficilmente siamo in grado di riconoscere come parte di noi. Come dice Lagioia, di fronte a vicende come queste è quasi automatico guardare alla vittima nel cercare di allontanare da noi stessi una possibilità simile. È un po’ come quando per strada incontriamo la scena di un incidente: nessuno di noi passa indifferente, tutti rallentiamo, tutti vorremmo fermarci a capire che cosa è successo, tutti temiamo e al contempo allontaniamo da noi la possibilità di essere al posto del malcapitato.

Quasi mai pensiamo invece che potremmo essere al posto del “carnefice”, essere noi gli autori del male, con la debole autogiustificazione che noi siamo diversi e che a noi non sarebbe mai successo.

In fondo Manuel Foffo e Marco Prato, pur essendo ragazzi a loro modo problematici – ma come ce ne sono moltissimi -, erano persone normali, venivano da famiglie normali, e probabilmente – come più volte viene ventilato nel libro e anche dagli atti giudiziari – se non si fossero incontrati nulla mai sarebbe successo di quello che è accaduto.

Forse Marco Prato, una personalità probabilmente narcisistica e manipolatrice, si sarebbe lo stesso suicidato a un certo punto della sua vita (del resto ci aveva già provato in precedenza), forse Manuel Foffo avrebbe avuto una vita grigia e anonima, ma nessuno dei due sarebbe diventato un assassino efferato.

Nel leggere la loro storia è tornata a galla nei miei ricordi una vicenda che ha segnato profondamente la mia giovinezza, l’omicidio di un ragazzo poco più grande di me, Valerio Gentile, che frequentava il mio stesso liceo. Il suo corpo senza vita (morto soffocato), con la testa fracassata dalle pietre, fu trovato nel marzo del 1993 in un bosco sulla Selva di Fasano. Quando ebbi questa notizia ne rimasi sconvolta: avevo conosciuto, sebbene non in maniera personale, Valerio; aveva partecipato a una gita scolastica in cui c’ero anche io. Era un ragazzo brillante e dalla personalità esuberante, forse mentalmente più avanti della sua età, non faceva mistero del suo orientamento omosessuale in un’epoca in cui esserlo era una vergogna senza fine e qualcosa di cui nessuno poteva parlare apertamente. E mi colpisce che ancora oggi se si cercano notizie su di lui questo aspetto viene quasi sottaciuto, come se fosse una colpa della vittima. Probabilmente dietro il suo omicidio c’era un diverbio dovuto a un debito non pagato per prestazioni sessuali e forse i coinvolti erano ragazzi come lui e di buona famiglia, ma dopo un lungo processo l’omicidio è rimasto senza colpevoli, perché probabilmente l’omertà e la paura che attraversano una piccola comunità conservatrice hanno reso impossibile fare giustizia.

Nella storia di Luca Varani e dei suoi assassini ho riconosciuto, a distanza di oltre vent’anni, alcune dinamiche simili, che forse sono proprie dell’essere umano, ossia la necessità per tutti di prendere le distanze, di scavare nel torbido delle vite di queste persone per marcare la differenza e per gridare – in primis a noi stessi – che a noi non sarebbe accaduto.

Eppure, fatta la tara della distanza della nostra dalle vite di queste persone, negli interstizi della ricostruzione di Lagioia riconosciamo alcuni dettagli e sensazioni che non possiamo non sentire familiari. A me per esempio ha molto impressionato lo scambio di messaggi tra Marco Prato e l’amico Damiano, perché in quell’amicizia tossica e manipolatoria non ho potuto non riconoscere alcune cose che – seppure con un’intensità inferiore – ho vissuto in passato.

E così il libro di Lagioia ti rimane appiccicato addosso con la sua consistenza vischiosa da cui si fa fatica a liberarsi anche dopo la fine della lettura. Vorremmo viverlo come un horror – di quelle storie che abbiamo letto nei romanzi o visto in tanti film – ma in realtà La città dei vivi parla della complessità della nostra umanità, di quanto il male sia radicato nella profondità di ciascun essere umano, di quanto le nostre vite camminino in equilibrio su un filo sottile della cui fragilità dobbiamo essere consapevoli. L’invito che personalmente ho colto è quello di non aderire ad autoassolutorie contrapposizioni manichee che mettono i giusti da una parte e gli sbagliati dall’altra, ma anche di non abdicare a quel principio di responsabilità cosicché ciascuno di noi deve assumere su di sé le conseguenze delle proprie azioni, senza cercare facili capri espiatori e giustificazioni esterne.

Voto: 4/5