mercoledì 24 giugno 2015

Soak (+ Maero??). Roma, Monk Club, 17 giugno 2015

In una settimana fittissima di impegni, nonché di grande stanchezza, arrivo al mercoledì sera pensando che l'unica cosa che vorrei fare è andarmene di filato a casa dopo il lavoro. Ma... stasera c'è Soak al Monk e non me la voglio perdere. Tra l'altro sono curiosa di vedere l'allestimento del Monk, visto che me lo ricordavo ai tempi in cui abitavo (quasi 20 anni fa) in zona Tiburtina, ossia quando si chiamava Club La Palma ed era uno spazio molto bello (soprattutto la parte all'aperto) dove facevano dei bei concerti di musica jazz.

Ed effettivamente quando arrivo sono piacevolmente colpita dall'ambiente, forse reso ancora più gradevole dalla luce del tramonto. Sulla sinistra c'è il grande bar e poi l'apetta dove si possono comprare i panini. Al centro tante sedie a sdraio colorate di fronte al piccolo palco. Tutto intorno i giochi dei bambini, il campetto da pallacanestro, i tavoli da ping pong e una sfilza di calcio balilla. Peccato che io sia sola e non mi possa mettere a giocare con nessuno.

Prendo posto in prima fila, dove sono già sedute un po' di ragazze, tra cui - scopro di lì a poco - c'è anche la cantante che si occuperà dell'opening act. A dire la verità non ho perfettamente capito il suo nome: forse Maero??? (anzi, per favore, chi sa mi aiuti!!). Si tratta di una giovanissima ragazza olandese, che parla un po' di italiano e sta sul palco in maniera un po' imbarazzata, ma al contempo sicura di sé sul piano musicale. Ci canta qualche canzone in inglese con la sola chitarra; poi sale sul palco con lei una delle sue amiche che la accompagna alla tromba per il resto del concerto. Devo dire che la cantante è una felice scoperta: le canzoni sono ironiche, l'accompagnamento della tromba è affascinante e Maero si spende su tutto il repertorio allietando il pubblico che è già arrivato.

Ma ecco che siamo pronti per Soak, al secolo Bridie Monds-Watson, una ragazzetta nord-irlandese di 18 anni che arriva vestita con dei pantaloni attillati e un maglione larghissimo, preceduta da un'altra ragazza giovanissima con gli occhialoni anni Settanta che le prepara gli strumenti sul palco. Nel frattempo il sole è tramontato e l'atmosfera si è fatta ancora più romantica.

Soak comincia a suonare senza dire una parola, imbracciando la sua chitarra elettrica, che lei suona con forza e grazia al contempo. Dopo un po' si scioglie, si presenta e tra una canzone e l'altra comincia a parlarci un po' di sé e anche della genesi delle canzoni che sta per suonare. Intanto, alterna chitarra elettrica e classica, e devo dire - per quanto mi riguarda - che con la classica mi pare che il mix del suono della chitarra e della sua voce dolcissima raggiunga la perfezione. Il pubblico è silenzioso e attento e più volte Soak ci ringrazia e dice di apprezzare la nostra compostezza.

 Suona alcuni dei suoi singoli, tra cui il famoso Blud, e poi un po' di canzoni tratte dal suo primo album appena uscito, Before we forgot how to dream. Ci racconta che è la sua prima volta a Roma, ma che non ha potuto girare né vedere niente delle cose famose di questa città. Però il Monk con i suoi tavoli da ping pong già da soli la rendono felice.

Io man mano mi sposto più avanti, sui cuscinoni Tuborg che sono stati distribuiti proprio davanti al palco e mi godo la musica e la possibilità di fotografare in questa bellissima serata romana, mentre ho intorno a me il pubblico più vario e più tenero e più attento che potessi sperare.

Dopo circa tre quarti d'ora di musica Soak lascia il palco, ma ci ha già detto che tornerà a cantare ancora un po' se lo vogliamo, e il pubblico non se lo fa ripetere due volte. Così ecco di nuovo sul palco questa ragazzetta dolcissima che ci regala ancora qualche canzone del suo repertorio tra cui la bellissima Sea Creatures, che quando viene da lei annunciata mi strappa un urletto.

Al termine del concerto, a fianco del palco viene allestito un piccolo banchetto dove si vendono le magliette di Soak e le due ragazze, la stessa Soak e la sua assistente con gli occhialoni anni Settanta, si posizionano lì, mentre comincia a formarsi la fila. Decido che vale la pena di instaurare un breve contatto con questa giovanissima musicista. E così compro anch'io una maglietta su cui Soak mi scrive che ama Roma e mi disegna un Soak-a-saurus! ;-) Strappata anche la foto di rito, torno felice verso casa.

Voto: 4/5

lunedì 22 giugno 2015

L’attentissima / Teresa De Sio

L’attentissima / Teresa De Sio. Torino: Einaudi, 2015.

Ho comprato L’attentissima, il secondo romanzo di Teresa De Sio (la nota cantante napoletana), perché me ne aveva parlato C., a sua volta incuriosita da una intervista radiofonica della scrittrice con Serena Dandini.

Diciamo che non mi aspettavo assolutamente niente, né sapevo praticamente nulla dei contenuti, salvo il fatto che si trattasse di una specie di giallo/noir.

Ebbene, devo dire che alla fine della lettura – pur non considerandolo certamente un libro memorabile – l’ho trovato ben scritto, ben costruito e coraggioso.

L’attentissima è la storia parallela di Domenico, un ragazzetto napoletano dai capelli rossi che va ad abitare coi suoi genitori al Quartiere Gallo di Napoli, e di Karmen, donna affascinante e appariscente, che vive a Roma.

Le due storie procedono indipendenti in due strati temporali diversi. La storia di Domenico appartiene a un passato remoto con cui però non tutti i conti sono stati chiusi. Quella di Karmen appartiene a un passato prossimo nel quale questa donna – pagando costi economici e umani notevoli- ha plasmato il suo corpo perché sempre di più assomigliasse alla sua anima e ai suoi desideri. Il presente è quello in cui – a seguito di una serie di delitti di ragazzini, i cui cadaveri vengono ritrovati nei parchi romani con un messaggio dell’assassino – il passato remoto e quello prossimo in cui hanno vissuto Domenico e Karmen si incontrano e trovano in qualche modo composizione, gettando luce anche sugli altri personaggi che li hanno popolati (Antonio, Enzino, Floriana).

Il tutto significativamente racchiuso in due elenchi che - rispettivamente - aprono e chiudono il libro: il primo è l'elenco di tutte le espressioni più o meno popolari e di diversa provenienza geografica con cui si fa riferimento alla vagina, il secondo delle corrispettive espressioni che si utilizzano per parlare del pene.

E ciò probabilmente a suggello del percorso inverso, a ritroso, che il lettore ha fatto nella lettura di questo libro rispetto a quello di Domenico e Karmen e del fatto che talvolta il punto di arrivo di un lungo calvario è anche invece il punto di partenza, un nuovo inizio, quello di una vita che forse per la prima volta sul serio ci appartiene.

Teresa De Sio dimostra di saper trattare un tema complesso e controverso con delicatezza ed empatia, donando spessore e significato a quanto sulle prime appare soltanto un pretesto narrativo.

Voto: 3/5

mercoledì 17 giugno 2015

Il racconto dei racconti - Tale of tales

Finalmente riesco ad andare a vedere al cinema anche il film di Matteo Garrone, Il racconto dei racconti - Tale of tales. In realtà, avevo qualche titubanza e infatti mi ero fatta sfuggire - direi ben volentieri - una prima occasione per vederlo.

Mi aveva lasciata un po' interdetta questa svolta "fantasy" di Garrone, considerato che avevo amato parecchio i suoi primi film come L'imbalsamatore e Primo amore. E dunque in questo caso mi aspettavo un giocattolone senz'anima.

In realtà il film mi è piaciuto molto.

E non solo esteticamente come ho sentito dire a molti. Ovviamente le location e la fotografia sono straordinarie e sfido chiunque a dire di non aver desiderato - appena uscito dalla sala - andare a visitare i posti incredibili ritratti da Garrone (dalle gole di Alcantara a Castel del Monte, dal Castello di Roccascalegna in Abruzzo al bosco del Canneto ad Acquapendente, dal villaggio di Petruscio a Mottola a via Cave, dal Castello di Donnafugata alla falesia di Statte nella zona di Taranto).

Ma direi che - anche da questo punto di vista - quella di Garrone è un'estetica che non appare fine a se stessa, bensì perfettamente integrata nell'universo immaginifico ch'egli costruisce nel suo film, in particolare in quella sovrabbondanza barocca con cui il regista interpreta il mondo raccontato ne Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile.

Dall'opera dell'autore napoletano Garrone sceglie tre racconti/fiabe: "La regina", "La pulce" e "Le due vecchie". I tre racconti - pur indipendenti tra di loro - sono collocati dal regista temporalmente e geograficamente vicine, ossia in tre regni che abitano castelli diversi ma hanno relazioni tra di loro. E le storie procedono parallelamente, con parziali sovrapposizioni o anelli di congiunzione. Il primo racconto è quello di una regina che vuole a tutti i costi un figlio e per questo ricorre a uno stregone che le dice che - per rimanere incinta - dovrà mangiare il cuore di un drago marino. Il re, suo marito, muore nell'impresa, ma la regina ottiene il risultato che vuole; oltre a lei, però, resta incinta anche la vergine che ha dovuto fare da intermediaria nell'incantesimo. Nascono così due figli gemelli da due donne diverse e di condizione sociale opposta, che la regina tenterà di tenere lontani a tutti i costi fino alla tragica fine. Il secondo racconto parla di un re che ha una giovane figlia in età da matrimonio; un giorno gli salta sulla mano una pulce che il re decide di allevare segretamente fino a quando la pulce diventata enorme non muore. A quel punto decide di assegnare come marito a sua figlia l'uomo che indovinerà di quale animale è la pelle che esporrà (ovviamente della pulce) finendo per essere costretto a dare la figlia in moglie a un orco. La giovane donna tra molte peripezie riuscirà infine a salvarsi e a diventare regina. Il terzo episodio è quello di due sorelle vecchiette che un giorno ricevono la visita del re donnaiolo che vuole conquistare quella di loro di cui ha sentito la voce incantevole. Una delle due sorelle decide di approfittare della situazione, ma finirà prima scoperta nell'inganno al re e poi oggetto di un incantesimo che la renderà giovane e le consentirà di sposare lo stesso re. A quel punto la sorella abbandonata cercherà di poter restare insieme a lei nel palazzo reale e per questo sarà disposta a qualunque cosa.

Al termine del film tutte le storie si fondono insieme e si sciolgono in un finale non necessariamente lieto.

Da un punto di vista narrativo non tutto tiene, e ovviamente la morale che si nasconde dietro ciascuna storia appare in molti casi semplicistica o comunque non sufficientemente degna di considerazione.

Però Garrone dà grandiosità e spessore cinematografico al racconto e soprattutto riesce - pur attraverso un soggetto così anomalo e così lontano dal suo solito - a restare coerente con la sua poetica e il suo gusto cinematografico che - fin dal principio - si è alimentato di personaggi estremi, di situazioni sopra le righe e al limite del surreale, di vicende disturbanti, di contesti un po' onirici e un po' kitch.

Anzi, a ben vedere mi pare che con questo film Garrone si riavvicini alle "atmosfere concettuali" de L'imbalsamatore e di Primo amore, che erano in parte state abbandonante con Gomorra e Reality.

Io in questo film ci ho visto un ottimo Garrone degli inizi potenziato e amplificato da un più ampio respiro, da un mestiere accresciuto e da un potere immaginifico che qui ha potuto esprimersi ad ampio raggio.

Voto: 3,5/5

domenica 14 giugno 2015

Ad.agio, concerti a corpo libero. George Gershwin, la spontaneità e le Villanelle partenopee fra sacro e profano, Auditorium Parco della Musica, 4 giugno 2015

Grazie a G. partecipo al mio primo (e a questo punto spero non ultimo!) concerto Ad.agio, un'iniziativa a cura di Andrea Apostoli, realizzata in collaborazione tra l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e l'Associazione Italiana Gordon per l'Apprendimento Musicale (AIGAM).

Si tratta non di tradizionali concerti di musica classica, bensì di veri e propri percorsi musicali che hanno diverse particolarità: innanzitutto, la disposizione in sala, in quanto i partecipanti possono stendersi al centro della sala (togliendosi le scarpe e portandosi anche i cuscini da casa se vogliono) mentre musicisti, cantanti e narratori sono disposti tutti intorno; in secondo luogo, i pezzi eseguiti sono tenuti insieme grazie a un testo letto da un attore che fornisce gli elementi di contesto e consente anche di comprendere i collegamenti che il curatore ha realizzato tra mondi musicali anche molto lontani.

In questo caso, il focus è sulla scena musicale americana degli anni Venti, in particolare sulla produzione di George Gershwin, in un'epoca in cui in America andava diventando sempre più popolare il jazz e ad Ellis Island arrivavano le navi degli immigrati, di cui moltissimi italiani.

E così attraverso una serie di pezzi di Gershwin (il Preludio n. 1 e alcuni brani tratti da Porgy and Bess, tra cui i famosissimi The man I love e Summertime) ci immergiamo - grazie alla voce suadente di Giuseppe Cederna - tra i vicoli di New York, dove a un certo punto irrompe la voce napoletana di Carmine D'Aniello con il suo canto tradizionale a distesa.

E da lì in poi è un inseguirsi, un intrecciarsi e un rincorrersi di pezzi di Gershwin, di villanelle, di tarantelle e di tammurriate, tanto che a sorpresa a un certo punto si alzano due ballerini - fin lì mescolati tra il pubblico - e cominciano a ballare in mezzo agli spettatori coinvolgendone anche alcuni nel ballo.

Così, nonostante Andrea Apostoli ci abbia ricordato al principio che i concerti Ad.agio non prevedono applausi, essi partono spontanei verso i ballerini, i bravissimi musicisti (lo stesso Andrea Apostoli al flauto, Claudia Gori al pianoforte, Svetlana Norkina al violino, Ivano Fortuna alle percussioni e Carmine D'Aniello alla chitarra battente, oltre che cantante, e l'espressiva soprano Rosita Frisani).

Il pubblico è davvero variegato e devo dire che l'esperienza dei "concerti a corpo libero" mi è sembrata una possibilità straordinaria di partecipazione e di apprendimento anche per chi non ha un'educazione di base alla musica classica, cosa che i concerti tradizionali non offrono, risultando in qualche modo escludenti per chi non ha familiarità con questo mondo. Ed anche il prezzo di questi concerti (12 euro) ne rivela l'intento inclusivo e partecipativo.

L'entusiasmo di Andrea Apostoli fa il resto.

Voto: 4/5

mercoledì 10 giugno 2015

Di qua e di là dal crinale: Casentino e dintorni

Approfittando del fatto che il mio compleanno quest'anno cade di sabato e che ad esso ci si aggancia perfettamente il ponte del 2 giugno, la decisione di fare una piccola vacanza arriva praticamente in automatico. La scelta cade sulla zona delle foreste casentinesi, a cavallo tra la Toscana e la Romagna, luogo dove ero stata tantissimi anni fa alloggiando a Badia Prataglia. Questa volta, io e C. decidiamo di soggiornare sul versante romagnolo del crinale, in un bell'agriturismo nella zona di San Piero in Bagno, La terrazza sul parco, gestito con passione da Mauro Mancini. Si tratta di un gruppo di case in pietra che insieme a quella in cui vive lo stesso proprietario costituiscono un piccolo borghetto. L'agriturismo ha aperto da non molto, e dunque qualche dettaglio è ancora da sistemare, ma complessivamente si tratta di un'esperienza assolutamente da consigliare.

Prima però di arrivare al nostro agriturismo abbiamo già fatto una tappa al chiosco L'oasi, un posto che fa delle piadine fantastiche (noi abbiamo assaggiato la classica prosciutto crudo, squacquerone e rucola e la salsiccia e squacquerone: divine!!!) e non abbiamo fatto in tempo a provare rotoli e crescioni (varrebbe la pena di tornarci anche solo per quello).

E così la prima sera - dopo la leggera merenda con piadina (!) e una passeggiata al tramonto al Santuario della Madonna di Corzano - non abbiamo molta fame, ma è il mio compleanno e preferiamo mangiare fuori. Finiamo in un ristorante-pizzeria un po' fuori San Piero (in piena campagna) che si chiama Nuova Fontechiara. Il posto è rimasto un po' fermo al periodo tra gli anni Cinquanta e Settanta e anche la clientela tendenzialmente lo conferma, così come il menu. Lì per lì pensiamo "OMG, ma dove siamo capitate? Non andrà a finire come a Capodanno?". E invece alla fine l'esperienza si rivela molto positiva! Un passatello in brodo in due e una grigliata di carne ottima, più uno splendido dolce (cannoli ripieni di zabaione con cioccolato) per festeggiare. Personale gentilissimo.

Bella serata. Il giorno dopo non siamo esattamente mattiniere... Facciamo colazione nel nostro bell'agriturismo con tutto l'occorrente che abbiamo comprato al supermercato di San Piero. Poi per la tarda mattinata siamo pronte per la nostra passeggiata che parte direttamente dal sentiero che affianca l'agriturismo. Eccoci su per le colline romagnole tra aziende agricole, campi verdi, mucche, asinelli e quant'altro... Dopo un po' di percorso, quasi a caso sbuchiamo in una strada asfaltata che passa proprio davanti a un agriturismo con ristorante, il Sant'Uberto.

Qui facciamo la conoscenza di una simpaticissima cagnolina che - scopriremo poi - si chiama Asia. Ci si mette a fianco mentre proseguiamo un po' a caso il nostro giro nelle colline. Asia diventerà la nostra compagna in tutte le avventure che ci porteranno in mezzo a campi dall'erba altissima, nei recinti di case private, in piccoli boschetti. Per noi stana un cerbiatto, ci precede, ci aspetta e si fa fare tantissime coccole. Quando a un certo punto sbuchiamo di nuovo su una strada asfaltata le facciamo addirittura un guinzaglio con la mia cintura perché Asia tende a camminare in mezzo alla carreggiata e ci fa venire l'ansia.

Chiediamo indicazioni a un giovanissimo contadino e risalendo il fianco di una collinetta eccoci di ritorno verso l'agriturismo. Ed ecco Asia a casa. Cominciamo a pensare che svolga il ruolo di buttadentro perché a quel punto decidiamo di fermarci a mangiare nella verandina: crostini, tortelli alle erbe, grigliata di carne con verdure al forno, tozzetti e vino. Pronte a rientrare verso il nostro agriturismo, ma appena siamo sulla strada da lontano vediamo correre velocissima Asia verso di noi che ci fa le feste. Pensiamo che ci stia dando un ultimo saluto, ma in realtà non ha intenzione di lasciarci andare via da sole... Ed eccola di nuovo con noi mentre ci perdiamo per le colline perché lo smartphone con il navigatore è scarico e non abbiamo letto perfettamente la carta. Comincia a tuonare e a fare qualche goccia e il passaggio in mezzo alle mucche è da brivido perché una di loro forse ce l'ha con Asia, ma certamente anche con noi che l'abbiamo portata lì. Per fortuna usciamo indenni e dopo aver fatto molti più chilometri del previsto eccoci al nostro agriturismo. Asia è lontanissima da casa sua e non sembra avere intenzione di andarsene. Con l'aiuto di Mauro chiamiamo il suo padrone che dopo un po' arriva con la macchina a prenderla. La salutiamo anche se ci siamo veramente affezionate e non avremmo mai voluto lasciarla andare.

Dopo la doccia decidiamo di fare un giro a Sarsina, la città natale di Tito Maccio Plauto, e lì facciamo un'altra scarpinata all'inseguimento del cartello che indica l'arena plautina (scopriremo dopo che si tratta di una struttura sostanzialmente moderna su pochi resti antichi e però avremo modo di visitare il piccolo borgo di Calbano). La sera decidiamo di prepararci una cenetta a casa con riso e verdure per goderci un po' il nostro splendido appartamento.

Il giorno dopo mettiamo la sveglia (!). E abbastanza per tempo siamo in macchina alla volta dell'eremo di Camaldoli passando per Badia Prataglia e Camaldoli. Una volta lì il nostro obiettivo è raggiungere e fare un giro sulla GEA (Grande Escursione Appenninica). E così risalendo il sentiero 68 siamo su questa specie di autostrada tra i boschi dove buffamente incontriamo persone solo quando il sentiero sbuca tra i prati. Il nostro obiettivo è la foresta integrale di Poggio Fratino fino a raggiungere Poggio Scali dove arriviamo più o meno all'ora di pranzo, ma da mangiare abbiamo solo un paio di biscottini. Il posto è meraviglioso: un piccolo cucuzzolo da cui si dominano gli Appennini, sia il versante toscano che quello romagnolo.

Eccoci di ritorno.

C. propone una piccola variante: un anello che ci fa passare un po' più a sud del sentiero principale. Peccato che all'inizio il sentiero non c'è e quindi dobbiamo passare in posti assurdi, tra foreste tutte uguali, piccole frane, siepi altissime. Alla fine una specie di carrareccia la troviamo, ma non si può dire che sia mantenuta: e quindi guado di torrenti, scavalcamento di alberi caduti ecc. Niente però mi farebbe tornare indietro per rifare la strada. Quando sono quasi disperata, dopo le Tre Fonti ecco finalmente la nostra autostrada tra i boschi. Ancora un'oretta di cammino ed eccoci infine all'eremo. Non ci facciamo mancare neppure la visita guidata e poi finalmente via le scarpe da trekking e benvenuti sandali!!!

È abbastanza presto e così decidiamo di andare a visitare un paese nei dintorni e, su suggerimento di una coppia di nostri vicini di agriturismo che abbiamo incontrato all'eremo, decidiamo di dirigerci verso Poppi. Bellissimo borgo nel quale passeggiamo ammirate fino a raggiungere la piazza dove sorge il castello. Qui dopo aver assistito al volo di un falco gestito da due ragazzi e al suo mancato rientro - causa l'alzarsi in volo di uno stormo di altri uccelli a difesa del loro territorio -, ci sediamo al baretto per una birra e delle patatine di aperitivo. Sulla strada del rientro riusciamo anche a comprare un po' di finocchiona e di pecorino casentinese che sarà la nostra colazione del giorno dopo.

La sera andiamo a mangiare all'osteria slow food di San Piero in Bagno, Alto Savio, che conferma perfettamente tutte le nostre aspettative, sia per l'ambiente che per il cibo. Antipasto di salumi e formaggi di produzione locale (squisiti!), una porzione abbondante di tortelli di patate con i funghi porcini freschi, un misto di carni arrosto (coniglio, faraona, agnello) e di verdure al forno. Del coniglio C. chiederà il bis. Poi il dolce al mascarpone. Tutto innaffiato da ottimo vino della casa e rosolio finale. Prezzo onestissimo! Felici, decidiamo di fare un'ultima passeggiata digestiva e poi a nanna.

Il giorno dopo è quello della partenza. Sistemiamo le borse, facciamo i saluti, e ci dirigiamo verso San Benedetto in Alpe (dove parte il sentiero per andare alle cascate dell'Acquacheta ma non c'è tempo né voglia di un'altra escursione). Così compriamo due tortelli (una specie di piadina richiusa su se stessa) ripieni di verza e patate e li mangiamo sulla riva del torrente. Poi macchina verso Bologna, un po' di code e di stress da rientro, ma resta il fatto che la vacanza ci ha veramente rigenerate!

martedì 9 giugno 2015

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domenica 7 giugno 2015

Micah P. Hinson (+ Ned Roberts), Roma, Chiesa evangelica metodista, Unplugged in Monti, Church session, 25 maggio 2015


Fino a qualche mese fa non avevo mai nemmeno sentito il nome di Micah P. Hinson. Poi l'allegra brigata di Unplugged in Monti decide di organizzare una Church session che lo vede protagonista e la data del 22 maggio va immediatamente sold out, tanto che quasi immediatamente si decide di replicare per lunedì 25 maggio.

Mi incuriosisco e andando un po' in giro per la rete capisco che Micah P. Hinson si porta dietro l'aura del cantante maledetto e dallo straordinario talento e che è considerato il vero erede del cantautorato americano. Così compro i suoi dischi più recenti Micah P. Hinson and the Nothing e Micah P. Hinson and the Gospel Progress. Il primo ascolto è bello e devastante: quelli successivi mi strappano il cuore. E quindi mi assicuro un biglietto per la serata del 25 maggio.

Arrivo alla Chiesa Evangelica Metodista con non troppo anticipo e così la mia postazione non è delle migliori, però sono già lì con la macchina fotografica in pugno per fare il mio solito reportage.

Puntualissimo sale sul palco Ned Roberts a cui è stata affidata l'apertura del concerto. Si tratta di un ragazzo giovanissimo, dalla corporatura esile, gli occhi chiari e i modi gentili. Ci dà un assaggio del suo "omonimo" ultimo disco, oltre a farci ascoltare qualche altra canzone del suo repertorio e una cover di Bob Dylan (per la quale si giustifica dal principio nel caso dovesse interrompersi perché non ricorda le parole, ma non accade...). Musica folk di grande suggestione che crea perfettamente l'atmosfera per il concerto a seguire.

Dopo una breve pausa, ecco arrivare Micah P. Hinson che cammina appoggiato a un bastone (esito del terribile incidente stradale in cui è stato coinvolto nel 2011 durante un tour in Spagna) ed è vestito in maniera davvero improbabile (una salopette color ocra, due misure più grande del necessario, una camicina a quadretti e un maglioncino di lana, poi il solito cappellino in testa). Ci dice nel suo americano, in cui ogni 2-3 parole viene infilato un "fuck" o un "fucking", che lui si chiama Micah Paul Hinson, che è nato in Tennessee, è cresciuto in Texas, possiede una casa in Texas e lì morirà a meno che qualcuno non lo trascini via con la forza. Poi, con i suoi movimenti buffi e un po' scoordinati, apre il suo taccuino e ci dice che - come da contratto - ci suonerà l'album Micah P. Hinson and the Gospel Progress.

Imbraccia la chitarra (quella elettrica al principio) e comincia a cantare le sue canzoni. La cosa impressionante è che le sue scelte di interpretazione - sia nell'arrangiamento alla chitarra sia nella voce - sono del tutto originali, al punto tale che - pur avendo ascoltato a lungo il suo album - in alcuni casi non riesco neppure a capire qual è la canzone che sta cantando. A un certo punto chiama sul palco una donna con un vestitino bianco e un grande pancione che gli farà da controcanto in un duetto da cui sprigiona tanto tanto amore. Ci dirà dopo che lei è sua moglie, Ashley Bryn Gregory, e che - come possiamo vedere tutti - è incinta, "fuck" tutti i medici che dicevano che non potevano avere figli. E che a questo punto gli toccherà crescere in fretta, a lui che è ancora un bambino, ma forse va anche bene così perché - rispetto a tanti genitori non empatici con i loro figli - forse lui potrà invece mettersi sul suo stesso piano e comprenderlo profondamente. Si vede che è felice, nonostante quella nota cinica e tormentata che la sua vita disperata gli ha messo nella voce e nelle canzoni.

Si susseguono canzoni in parte suonate con una bianchissima e splendente chitarra elettrica (una Airline), in parte suonate con una vecchia chitarra acustica su cui campeggiano numerosi adesivi tra cui uno che recita "This machine kills fascists", un omaggio a Woody Guthrie che è il capostipite dei cantautori americani, e un altro che dice "F*ck you, I'm Batman". Si toglie il maglioncino, si solleva le maniche della giacca, e sulle braccia fanno bella mostra di sé una serie di tatuaggi che creano un effetto quasi distonico con l'abbigliamento di Micah, il tutto con una lentezza e una precisione incredibili. Micah è fatto così.

La sua musica disperata, la sua voce potente, la sua chitarra urlata o sussurrata a seconda dei casi ci trascinano in questa esperienza musicale quasi surreale e ci conducono rapidamente alla fine del concerto. Micah scende dal palco ed esce, ma il pubblico lo richiama a lungo a gran voce, fino a quando non si decide a tornare sul palco, sempre seguito dalla moglie che lo guarda da un banco laterale della chiesa.

Prima si fa pregare un po' e ci dice che non crede che lo vogliamo ascoltare ancora. Poi però inanella un'altra serie di canzoni, senza mai ascoltare le richieste del pubblico, come forse è giusto che sia per un personaggio come lui. Infine scende dal palco e ci regala un'ultima piccola gemma al pianoforte che è lì di fianco, dandoci le spalle.

Poi col suo bastone, come è arrivato va via. Questo ragazzone strambo, che non diresti che quella voce esca da lì, che non diresti che dietro quella salopette enorme c'è un cantautore di quella intensità, che non diresti che tenerezza e disperazione, cinismo e affetto possano convivere così incredibilmente nella stessa persona.

Voto: 3,5/5

mercoledì 3 giugno 2015

Il regno dei sogni e della follia

Evento speciale al cinema nei giorni 25 e 26 maggio con la proiezione del documentario di Mami Sunada dedicato allo Studio Ghibli (imparerete dal film che si dice Gibli e non Ghibli, come da sempre diciamo tutti noi...) e, in particolare, alla straordinaria figura di Hayao Miyazaki (o come dicono nel film Miyazaki Hayao o anche MiyaSan).

La regista del documentario ha vissuto nella casa di produzione per tutto il periodo della realizzazione di Si alza il vento, raccontando il modo di lavorare di Miyazaki e dei suoi collaboratori, ma anche la storia dello straordinario sodalizio che ha reso possibile che lo Studio Ghibli diventasse quello che è diventato.

Così, da un lato, vediamo il signor Miyazaki che ogni mattina (puntualissimo) - indossando il suo grembiulone con gli orsetti - arriva in ufficio, si siede alla sua scrivania e comincia a disegnare, a volte senza avere nemmeno esattamente in mente qual è la storia che vuole raccontare, e lì resta fino alle 21. Nel corso della giornata ci sono alcuni appuntamenti fissi: la ginnastica mattutina con tutti i collaboratori, resa possibile dal programma radiofonico relativo, e l'uscita sul terrazzo la sera tutti insieme a vedere il tramonto. Nel frattempo, nello studio è tutto un fermento di persone che disegnano, colorano, si confrontano, imparano, mentre il gatto bianco con le macchie nere si muove placido per le stanze e sonnecchia nella cesta o al sole, indifferente a tutto tranne che al Maestro.

Dall'altro lato, però c'è Toshio Suzuki, l'amico, produttore e manager, che - mentre Miyazaki disegna - incontra uffici legali, persone del marketing, fa riunioni, segue le vendite e gli incassi e in qualche modo consente allo studio di sopravvivere.

Sullo sfondo resta il terzo uomo dello Studio Ghibli, Isao Takahata, regista, produttore e sceneggiatore, che risulta apparentemente esterno al sodalizio tra Miyazaki e Suzuki, ma che - come il documentario a poco a poco rivela - è stato ed è determinante nel definire l'identità dello Studio.

Oltre alle relazioni tra questi tre uomini diversissimi ma perfettamente complementari, il documentario è interessante perché permette di scoprire un Miyazaki inedito, cogliendone sia la poetica sia la cifra umana.

Ne viene fuori l'immagine di un uomo con un'ingenuità e un entusiasmo un po' infantili e, al contempo, con una profondità, una consapevolezza e una serenità di anziano, che non si sottrae alle paure. Cosicché lo vediamo da un lato sistemare le caprette peluche (che vengono da una vecchia esposizione su Heidi) davanti e fuori dalle finestre di casa affinché i bambini che vanno all'asilo possano vederle e salutarle tutti i giorni, dall'altro raccontarci il suo mondo nel quale l'angolo di visuale è piccolissimo e in buona parte ripetitivo, ma che nondimeno gli consente di comprendere la realtà grazie all'attenzione e all'empatia verso gli altri. Poi lo vediamo emozionarsi quando ci dice che lo Studio Ghibli è destinato a morire e commuoversi alla prima visione e alla conferenza stampa di Si alza il vento, ma anche estraniarsi guardando dalla finestra i tetti della città e facendo correre la sua fantasia lontanissimo, come fanno tutti i suoi film. E poi ci fa scendere una lacrimuccia quando scrive la lettera di risposta a una persona che gli aveva raccontato quanto suo padre aveva fatto per lui bambino nella circostanza terribile del terremoto di Tokio. Tutto poi ci fa capire quanta parte dei contenuti dei suoi film siano parte integrante della sua vita, come ad esempio la sfiducia nel progresso, l'impronta ecologista, l'etica giapponese e così via.

Nel documentario poi c'è molto altro: per esempio la breve e un po' sofferta testimonianza del figlio di Miyazaki, Goro, nonché una serie di chiacchiere e racconti in cui spesso ci si perde, ma da cui - dopo due ore di immersione nel mondo dello Studio Ghibli - si esce felici di aver fatto la conoscenza con questa straordinaria e unica fabbrica dei sogni e grati che Miyazaki, Suzuki e Takahata si siano incontrati e abbiano realizzato questo sogno condiviso, che è diventato anche quello di tanti bambini e adulti in tutto il mondo.

Voto: 4/5