domenica 3 novembre 2013

La vita di Adele


Abdellatif Kechiche è un etnografo del cinema, ovvero - secondo la felice intuizione di S. - un entomologo delle dinamiche umane. Kechiche guarda infatti alle realtà umane con l’occhio di chi ha la necessità di osservarle dall’interno per farle proprie e per farle conoscere al mondo esterno (il che non vuol dire necessariamente comprenderle). Il modo in cui la sua telecamera si appropria delle realtà su cui si poggia è lo stesso con cui un documentario sugli insetti ci fa entrare in un mondo che è normalmente nascosto alla nostra vista e che proprio per questo quando ci viene mostrato così da vicino ci appare al contempo affascinante e mostruoso (nel senso latino di incredibile ma anche di spaventoso).

Chi conosce gli altri film di Kechiche sa che – seppure declinando questo approccio in modi diversi – l’ossessione con cui il regista osserva i suoi soggetti è sempre la stessa ed è il frutto di una tensione conoscitiva che deve sviscerare l’oggetto ed analizzarne ogni sfaccettatura per farne emergere la verità. In questo senso il regista cerca esattamente il contrario della sintesi.

Con La vita di Adele Kechiche - pur ispirandosi al graphic novel di Julie Maroh - si riallaccia ancora di più simbolicamente al suo secondo (e forse più bel) film, La schivata, ambientato in una scuola superiore della banlieu parigina dove una classe deve mettere in scena un’opera di Marivaux, Il gioco del caso e dell’amore, in un rimando continuo e dissonante tra vita vera e vita letteraria.

Anche qui la sottotrama letteraria è molto potente (cui si aggiunge anche qualche contrappunto cinematografico) e Marivaux è uno dei primi autori citati nella classe del liceo che Adele frequenta.

Anche in questo caso tutto comincia (e in fondo tutto finisce) in un contesto scolastico, quello dove Adele si confronta per la prima volta con la sua sessualità e i suoi desideri, e quello dove la stessa ha scelto di realizzarsi come persona adulta.

Anche stavolta Kechiche sta addosso ai suoi personaggi, soprattutto ad Adele, per percepire e far percepire l’odore della vita vera.

E Adèle Exarchopoulos è l’essenza stessa del suo personaggio, al contempo infantile e seducente, spaurita e disinibita, semplice e profondamente complessa.

Forse per tutti questi motivi, la storia di Adele (e di Emma) ha contemporaneamente l’intensità e l’angoscia della vita stessa quando è guardata con un occhio esterno ma fortemente ravvicinato. Forse per questo lo stomaco si stringe fin dal principio e non si distende nemmeno quando la vita regala momenti di felicità.

La ripetitività, l’insistenza, l’abbondanza di dettagli rappresentano per il regista le condizioni necessarie per dare spazio alla vita vera, per superare la finzione cinematografica. E la vita vera può essere anche disturbante, angosciante, oppure per altri versi ridicola o banale.

Ovviamente nel film c’è anche tutto il resto, da un lato quello di cui da settimane i giornali non smettono di parlare con toni tra lo scandalizzato e il pruriginoso. Dall’altro, una sottotrama più intellettuale e sociologica.

A me però tutto questo interessa di meno. Mi interessa invece il modo in cui Kechiche mi fa sentire di fronte ai mondi interiori che racconta. Totalmente catturata e insieme ferocemente estranea, al confine tra un dentro e un fuori, che lascia disorientati e per certi versi insoddisfatti.
Perché l'imprevedibilità del reale può sfuggire anche all’entomologo più attento.

Voto: 3,5/5


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