mercoledì 18 giugno 2025

Sarabanda / Ingmar Bergman; regia di Roberto Andò. Teatro Argentina, 28 maggio 2025

Ormai giunti quasi al termine della stagione teatrale, insieme al solito “gruppetto teatro”, andiamo a vedere l’ultima regia di Roberto Andò al Teatro Argentina, non senza qualche timore, considerati la location, la regia e soprattutto l’autore del testo, Ingmar Bergman.

Sarabanda – scopro solo più tardi – è una specie di testamento di Bergman (è stato realizzato nel 2003), un seguito ideale di Scene da un matrimonio, da cui riprende i personaggi a distanza di tempo. Questa opera era stata pensata da Bergman come un film per la televisione, informazione importante per comprendere la messa in scena teatrale scelta da Andò.

Al centro di Sarabanda, oltre alla musica – come è chiaro fin dal titolo -, c’è una famiglia: il capofamiglia Johan (interpretato da Renato Carpentieri), la sua ex moglie Marianne (Alvia Reale) che torna a trovarlo nella sua casa sul lago dopo molti anni di allontanamento, il figlio di Johan, Henrik (Elia Schilton), che da anni non ha rapporti con il padre, e infine Karin (Caterina Tieghi), la figlia diciannovenne di Henrik, violoncellista come il padre. L’altra protagonista di questo dramma familiare, sebbene assente,  è Anne, moglie di Henrik e madre di Karin, morta di cancro qualche anno prima, che per tutti è un po’ il termine di paragone di una relazione affettiva sana, ovviamente senza possibilità di appello o verifica.

Trattasi di un classico dramma da famiglia disfunzionale, in cui ciascuno dei protagonisti, soprattutto quelli uniti da legami di sangue, sono incastrati in dinamiche distruttive o autodistruttive: Johan è un finto mite, ma rivela di tanto in tanto la sua natura manipolatrice, Henrik è un possessivo, con un legame morboso, quasi incestuoso con la figlia, e fortemente conflittuale con il padre, Karin è ingenua e insicura, come è normale per la sua età, e fa fatica a districarsi all’interno di queste dinamiche. Marianne è un’osservatrice quasi neutrale, spesso interlocutrice e confidente dei protagonisti, in particolare Johan e Karin.

Molto d’impatto la scelta di allestimento: il palco è completamente immerso nel buio e luci molto puntuali producono un effetto fortemente fotografico e cinematografico; gli attori si muovono all’interno di una specie di scatola nera la cui faccia anteriore è formata di piani che si aprono, si chiudono e si spostano producendo vere e proprie inquadrature e un effetto di movimento da macchina da presa. Sicuramente bravissimo Gianni Carluccio a immaginare un sistema così semplice e sofisticato al contempo, che certamente è parecchio d’effetto e ben si sposa con l’approccio ormai consolidato delle regie teatrali di Roberto Andò, che tutte strizzano l’occhio al cinema.

Nonostante le interessanti soluzioni di allestimento e di regia e la bravura degli interpreti, personalmente sono comunque uscita dal teatro piuttosto delusa. Nel testo ho sentito fortissimo il sapore di un’opera senile che risente di tutti i limiti che secondo me le caratterizzano: la cupezza, la lentezza, il ripiegamento su sé stessa. Il modo di narrare di Bergman, che già non amo nelle opere più giovanili, qui mi pare che raggiunga vette di algidità e rigidità notevoli, che faccio fatica ad apprezzare, tanto più che ormai il tema della famiglia disfunzionale è onnipresente e non è facile raccontarlo in modi che non risultino già visti e sentiti.

Esco dunque dal teatro pensando che il prossimo anno la mia programmazione teatrale sarà ancora più restrittiva e meticolosa.

Voto: 3/5

lunedì 16 giugno 2025

Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia. Monza, Villa Reale, 20 maggio 2025

Approfittando di una tre giorni milanese - sempre con finalità fotografiche – decido di fare un salto a Monza (un quarto d’ora di treno da Milano) per vedere la mostra dedicata al fotografo americano Saul Leiter, Una finestra punteggiata di gocce di pioggia.

Si tratta di una importante retrospettiva che permette di scoprire o riscoprire un fotografo non così conosciuto nel contesto italiano e di cui– nei miei ormai vent’anni di interesse verso la fotografia – non ricordo mostre monografiche a lui dedicate.

Alla Villa Reale – dove la mostra è stata allestita - si arriva con un comodo autobus la cui fermata è praticamente davanti alla stazione, e devo dire che il viaggio vale la pena anche solo per scoprire questo posto di cui personalmente nemmeno sospettavo l’esistenza.

La mostra occupa in particolare il piano alto, il cosiddetto Belvedere e si articola in numerose sale e salette.

All’ingresso una prima saletta permette di vedere un video in cui la curatrice Anne Morin introduce il fotografo, la sua poetica e le scelte di allestimento che sono state fatte, sottolineando in particolare come nella vita di Saul Leiter (come in quella di altri fotografi) pittura e fotografia sono andate praticamente di pari passo, con rimandi e connessioni che la mostra si propone di portare all’evidenza, esponendo sia opere pittoriche che fotografiche.

Dopo il video introduttivo, il percorso inizia con una piccola installazione di quelle che ormai vanno molto di moda nelle mostre, in quanto producono tag e storie sui social. In questo caso si tratta di una specie di finestra sul cui vetro scorre continuamente dell’acqua, dove il visitatore viene invitato a fare delle foto alla maniera di Saul Leiter. Nel percorso della mostra ci sono altre 2-3 installazioni con la stessa finalità, ma devo dire meno riuscite di questa prima che ho trovato piuttosto affascinante.

Questi elementi accessori non servono però – come accade per altre mostre – a riempire un vuoto o ad arricchire una mostra povera, perché in questo caso il numero di lavori esposti è davvero molto elevato: si va dalle fotografie urbane e di strade in bianco e nero a quelle a colori, dai ritratti e nudi ai piccoli reportage, fino ad arrivare alle fotografie di moda e a quelle di interni. In molte sale le fotografie dialogano con gli acquerelli e i dipinti di Saul Leiter, che sono stati – come si diceva – una parte importante della sua produzione.

Aiuta a entrare nel punto di vista dell’artista la visione e l’ascolto della videointervista proposta in una delle salette, che consente di farsi un’idea della personalità di Saul Leiter, un uomo schivo, ironico, disallineato. Non si dimentichi che Saul era il figlio di un importante rabbino e, nonostante la volontà del padre di indirizzarlo verso un percorso teologico, decise di seguire la sua ispirazione artistica e andò a New York per seguirla, arrangiandosi e sopravvivendo come poteva. Proprio a New York Saul Leiter iniziò a fotografare le strade, la gente e la città in un modo che era totalmente originale e anomalo rispetto ad altri fotografi dell’epoca.

Le sue sono fotografie in sordina, frammenti di un quadro più ampio ma invisibile agli occhi, pezzetti di un discorso poetico più che di un racconto descrittivo, e sono il risultato di una ricerca molto personale che – come sempre accade ai fotografi – a lungo non è stata compresa. Ma del resto Leiter non cercava la ribalta o la fama (semmai si preoccupava di sopravvivere con il suo lavoro, cosa per niente scontata), e poi nel suo privato inseguiva un filo nascosto nel mondo attraverso piccoli oggetti, dettagli, gesti e, a un certo punto, anche attraverso il colore, fronte sul quale fu un vero pioniere.

Un fotografo da studiare e riscoprire.

Voto: 3,5/5

venerdì 13 giugno 2025

Intermezzo / Sally Rooney

Intermezzo / Sally Rooney; trad. di Norman Gobetti. Torino: Einaudi, 2024.

Dopo la sostanziale delusione della lettura di Parlarne tra amici e di Persone normali, avevo deciso di abbandonare Sally Rooney al suo destino di scrittrice generazionale e di non leggere altri suoi romanzi.

Poi – dopo il parere positivo di S. – ho deciso di dare alla Rooney un’altra possibilità con questo Intermezzo, e… ne sono stata letteralmente conquistata.

Protagonisti di questo romanzo sono Peter e Ivan, due fratelli rimasti da poco orfani del padre, morto a causa di un cancro. Il primo è un avvocato, in prima linea nella difesa dei diritti, ma la sua vita personale è un caos: frequenta Naomi, una ragazza molto più giovane di lui, senza un soldo e che lui di fatto mantiene anche economicamente, ma ha ancora un legame molto forte con Sylvia, la donna con cui è stato in coppia per molti anni fino a quando un incidente con conseguenze gravi su di lei non li ha separati. Ivan, il fratello minore, è invece un appassionato e un campione di scacchi, ma introverso, con l’apparecchio ai denti e scarsa fortuna con le donne, fino a quando non incontra e comincia una storia con Margaret, una donna parecchio più grande di lui, separata da un marito alcolista.

In questo intermezzo, che coincide di fatto con il periodo di elaborazione del lutto, i due fratelli, che una volta abbandonata l’infanzia hanno attraversato fasi alterne di amore e odio, avvicinamento e allontanamento nel loro rapporto, dovranno fare i conti con la morte, e insieme con le fatiche dei legami familiari e delle relazioni, ma dovranno anche fare delle scelte sulla propria vita, guardandosi dentro e affrontando situazioni emotivamente difficili.

Ebbene, tanto avevo trovato i due romanzi precedenti distanti e poco comprensibili per me dal punto di vista emotivo quanto invece ho sentito questo romanzo vero ed empatico nella narrazione e nei contenuti, al punto che ho terminato l’ultima ventina di pagine del libro tra le lacrime, cosa che mai avrei ritenuto possibile.

Evidentemente – mi sono detta – anche Sally Rooney è cresciuta, e così, pur appartenendo a un’altra generazione ed essendo cresciuta in una dimensione sociale, relazionale ed emotiva in parte differente dalla mia, è arrivata a quel momento della vita in cui tutti si trovano di fronte ai nodi cruciali dell’esistenza umana, che sono gli stessi da sempre e in qualunque luogo e che conferiscono alla grande letteratura la capacità di parlare alle persone al di là del tempo e dello spazio.

Oltre alla sensibilità e precisione con cui la Rooney riesce in questo romanzo a raccontare la forza e la difficoltà dei legami familiari, due cose di Intermezzo mi hanno colpita particolarmente. Da un lato il fatto che quell’universo di possibilità affettive, e non solo, che si sono dischiuse davanti alla sua generazione senza renderla né più felice né più risolta (o almeno questo emergeva nei precedenti romanzi) qui diventa un terreno da dissodare responsabilmente e con fatica, ma che può potenzialmente dare i suoi frutti, una strada da percorrere se si è disposti a rischiare e ad essere onesti con sé stessi e con gli altri. Dall’altro lo sguardo affettuoso verso la generazione successiva, i venti-venticinquenni di oggi (qui rappresentati da Naomi ed Ivan), altrettanto incasinati e imperfetti, ma meno cinici, meno frustrati, più aperti alle possibilità, forse i primi che stanno riuscendo a trasformare le maggiori libertà in vere scelte di vita, convenzionali o non convenzionali, ma rispettose del proprio sentire.

Chissà se è vero, o è solo l’auspicio di chi si sta lasciando alle spalle la giovinezza o per cui la giovinezza è un ricordo ormai lontano.

Il fatto importante è però che finalmente nella scrittura della Rooney – tra l’altro magistrale, ma questa non è una novità – sono riuscita a riconoscere sentimenti, sensazioni e situazioni che mi appartengono o che comprendo e sento emotivamente anche quando non fanno parte del mio vissuto o sono lontane dalle mie.

Voto: 4/5

mercoledì 11 giugno 2025

Any other (+ Tutto piange). Unplugged in Monti, Teatro Basilica, 19 maggio 2025

Da poco è uscito un EP di Any Other (nome d’arte di Adele Altro), musicista e cantautrice italiana che seguo ormai da parecchio tempo e che si è già costruita una solida collocazione all’interno del panorama musicale italiano, e non solo.

Personalmente con la sua musica ho sempre avuto un rapporto strano, fatto di apprezzamenti ma senza esserne emotivamente conquistata, e non so bene perché.

Ebbene, devo dire che il suo ultimo EP dal titolo Per te, che non ci sarai più – forse anche per i temi trattati e per quel multilinguismo che lo caratterizza (ci sono canzoni in inglese, in italiano e una persino in giapponese) – mi è sembrato un salto importante nella sua carriera e per me rappresenta il disco della definitiva affezione alla sua musica.

Per questo non mi lascio scappare la possibilità di ascoltarla dal vivo ancora una volta, a questo giro in solo, nell’ambito dei concerti organizzati da Unplugged in Monti al Teatro Basilica, posto tra l’altro molto suggestivo.

Visto il rapidissimo soldout del concerto delle 21, Any Other accetta di bissare con un concerto alle 19 e appena i biglietti vengono messi in vendita mi fiondo a comprarlo (del resto si sa che ho un amore particolare per i concerti presto!).

Arrivo al Teatro Basilica alle 18,30 e c’è già un po’ di fila per entrare, ma riesco comunque a garantirmi un posto in prima fila. Alle 19.10 inizia a suonare e cantare Tutto piange (aka Virginia Tepatti), che già avevo sentito come opening al concerto di Any Other al Circolo Angelo Mai.

Tutto piange ci propone un po’ di canzoni del suo repertorio, alcune delle quali ricordo con piacere dal primo concerto e che riascolto volentieri. Arriva poi sul palco Adele Altro che con la sua chitarra in mano ci delizia con il suo repertorio: canta tutte le canzoni del suo ultimo EP (Distratta, このままでいい, Lazy e la title track Per te, che non ci sarai più) inframmezzata da alcuni brani tratti dai suoi precedenti album che cominciano a essere un certo numero, offrendole dunque un repertorio piuttosto importante in cui andare a pescare e da proporre al suo pubblico.

Gli spettatori ascoltano in religioso silenzio questa ragazza semplice ma con eccellenti qualità sia di esecuzione musicale che canora, e che soprattutto dimostra con le canzoni da lei scritte di saper attingere a molti universi musicali, ma anche di aver costruito uno stile molto personale e riconoscibile.

Alle ultime due canzoni ci ricorda che lei non è una da bis e dunque inizia un siparietto per cui il pubblico chiama al bis proprio per queste due canzoni; con qualche sorriso e queste ultime due esecuzioni termina un concerto semplice ma molto bello ed emozionante, anche perché nel pubblico ci sono davvero persone di tutte le età, a dimostrazione che Adele sa essere intergenerazionale con la sua musica e i suoi testi.

Mentre esco compro il poster del concerto disegnato da Scismatica (aka Luca Morello), e vado a casa contenta.

Grazie, e alla prossima.

Voto: 4/5

lunedì 9 giugno 2025

Deep vacation / Yi Yang

Deep vacation / Yi Yang. Milano: Bao Publishing, 2022.

Dopo aver letto Easy breezy, il primo graphic novel della fumettista cinese trapiantata in Italia, Yi Yang, ho deciso di comprare anche il successivo Deep vacation che condivide con il primo alcuni personaggi, pur non essendo un vero e proprio sequel, ma un'avventura a sé stante.

Ritroviamo in particolare Yang Kuaikuai, il ragazzino occhialuto e secchione, e Li Yu, il teppistello scansafatiche. Il rapporto tra i due mantiene alcuni elementi di ambiguità che già emergevano nel primo lavoro, ma al contempo è cresciuto in complessità e profondità, anche perché i due ragazzini sono cresciuti e sono ormai alle soglie dell'adolescenza: Li Yu si prende ancora gioco di Yang Kuaikuai, ma anche quest'ultimo tratta l'altro con evidente atteggiamento di sufficienza, cosicché il loro rapporto oscilla continuamente tra l'indifferenza, il disprezzo, l'amicizia e la cura reciproca, mentre di mezzo cominciano a inserirsi delle figure femminili a cui i ragazzi sono sempre più sensibili, Li Yu in maniera esplicita, Yang Kuaikuai in maniera più sotterranea.

Questo secondo romanzo a fumetti si configura meno come un'avventura pura e adrenalinica (caratteristica propria di Easy breezy), e molto di più come una specie di romanzo di formazione che, attraverso una serie di situazioni, anche avventurose, conduce i due ragazzi sempre più vicini all'età adulta.

Nello specifico, la vicenda raccontata in Deep vacation è appunto una vacanza che i due protagonisti fanno insieme alla loro classe in un'isola non meglio identificata, dove tutti dovranno aiutare i pescatori locali nelle loro attività, ad eccezione di Yang Kuaikuai che deve studiare per prepararsi alle competizioni di matematica. La permanenza sull'isola si trasforma a poco a poco in un vero e proprio thriller, perché i due protagonisti entreranno in contatto con una figura misteriosa che sembra vivere nelle profondità del mare e che tutti riconducono a un fantasma dell'acqua, una creatura soprannaturale tipica della cultura cinese.

In realtà, la natura di questo essere si rivelerà molto più terrena e collegata a vicende reali, che affondano le radici nel passato, e con cui lo strano trio formato da Yang Kuaikuai, Li Yu e la ragazza che piace a quest'ultimo, dovranno fare i conti, affrontando le conseguenze delle loro scelte e decisioni.

Un racconto meno adrenalinico di Easy breezy, più attento ai sentimenti e alle emozioni dei protagonisti, che però mantiene quel tono scanzonato e leggero tipico dei lavori di Yi Yang, in questo fortemente sostenuti dal tipo di disegno, dalle scelte di colore e dalla messa in pagina, sempre interessante e originale.

Voto: 3,5/5

venerdì 6 giugno 2025

Karate. Monk, 8 maggio 2025

Dopo il lungo silenzio durato 17 anni, i Karate dal 2022 sono tornati a suonare insieme e anche a comporre musica come dimostra l’uscita alla fine del 2024 di un nuovo album dal titolo Make it fit, da me prontamente acquistato e anche discretamente ascoltato.

Da un po' di settimane il loro tour sta toccando diverse città italiane, e a Roma il Monk ha dovuto aggiungere nuove date perché ci sono stati diversi soldout.

Arrivo al concerto quando le porte sono già aperte e dunque mi posiziono al lato del palco, cosa che lì per lì mi infastidisce un po’ (sono abituata a stare in prima fila), ma poi si rivela un’ottima soluzione per seguire il concerto, fare le foto e osservare anche il pubblico.

Non starò qui a ripetere quanto già scritto per il concerto da me visto a Villa Ada nel 2022: i Karate sono una band di culto, e possono contare su un seguito di fan non solo appassionati della loro musica, ma profondi conoscitori della stessa. È vero che praticamente a tutti i concerti a cui vado ci sono persone capaci di cantare le canzoni insieme ai cantanti, cioè fan che conoscono tutto il repertorio dei loro musicisti preferiti, però devo dire che il trasporto e l’entusiasmo trasognato che vedo nel pubblico dei concerti dei Karate ha caratteristiche sue proprie.

I tre musicisti, il leader, nonché chitarrista e voce del gruppo, Geoff Farina, il bassista Jeff Goddard e il batterista Gavin McCarthy, salgono sul palco poco dopo le 22, e suonano di filato per oltre un’ora, senza troppe chiacchiere, bensì mettendo la musica al centro di tutto.

Trovate a questo link la setlist completa del concerto, su cui io vi so dire poco, considerata la mia conoscenza tutto sommato limitata della band.

Quello che invece posso sicuramente dire è che, trovandomi così vicina al palco in una posizione in cui potevo osservare molto bene tutti e tre i musicisti, ho potuto apprezzare al massimo grado le loro qualità di musicisti e la loro intesa, semplicemente perfetta, anche quando Geoff Farina chiama gli altri due con la sua chitarra alla ripetizione quasi ossessiva degli stessi accordi, introducendo piccole varianti e creando quasi un effetto di trance collettiva.

È chiaro che i Karate puntano tutto o quasi sugli arrangiamenti e sull’esecuzione dei pezzi cercando di far esprimere i loro strumenti al massimo livello possibile di perfezione musicale: sul piano vocale, Farina ha sempre preferito uno stile molto essenziale, quasi parlato, che tra l’altro dalla posizione in cui sono io non si sente nemmeno perfettamente.

Io sono catturata sia dai gesti assorti e concentrati di questi grandi musicisti – che attraverso il loro leader non smettono di ringraziare il pubblico del fatto di essere tornati a suonare dal vivo dopo tanti anni di assenza dalle scene – sia dal pubblico con le sue diverse anime, da chi si esalta soprattutto sui pezzi più ballabili a chi si fa invece conquistare dai pezzi più quieti e notturni.

Alla fine usciremo dalla sala concerti del Monk tutti soddisfatti, convinti di aver assistito a una eccellente performance musicale e di aver potuto vedere da vicino tre grandissimi musicisti.

Voto: 3,5/5

martedì 3 giugno 2025

Sul lato selvaggio / Tiffany McDaniel

Sul lato selvaggio / Tiffany McDaniel; trad. di Luca Briasco. Roma: Atlantide edizioni, 2020.

Sono al terzo libro di Tiffany McDaniel, e a questo punto è accertato che questa giovane scrittrice è in grado di conquistarmi con le sue storie e il suo stile narrativo.

Dopo L'estate che sciolse ogni cosa e Il caos da cui veniamo - due libri che ho amato moltissimo e divorato - ho letto praticamente tutto d'un fiato anche questo terzo romanzo, anche approfittando di un ritardo clamoroso (tre ore) del treno su cui viaggiavo.

In questo caso, il libro è ispirato a una vicenda di cronaca, la scomparsa e la morte di sei donne a Chillicothe, in Ohio, a opera di un probabile serial killer.

Ebbene, Tiffany McDaniel racconta questa vicenda per bocca di Arc (diminutivo di Arcade, il suo nome scelto dai genitori ispirandosi al loro videogiochi preferito), una delle donne sparite e assassinate, cosa che sappiamo fin dal principio visto che la narratrice è lo 'spirito' di Arc, o comunque quello che di lei è rimasto dopo la sua morte.

La narrazione procede dunque come un lunghissimo flashback, durante il quale ci si spinge a volte in avanti e poi si torna indietro nel tempo, per raccontare la vicenda di questa giovane e della sua famiglia, in particolare di sua sorella gemella Daffy, di sua madre Addy, di sua zia Jo e di sua nonna Keith.

Quella di Arc - come tutte le famiglie di cui la McDaniel parla nei suoi libri - è una famiglia sfasciata e senza speranza: i genitori e la zia di Arc e Daffy sono tossici, e suo padre è morto di overdose quando le due bambine erano molto piccole. Le due gemelle, legatissime, fin da subito hanno dovuto lottare per vivere e sopravvivere alla totale mancanza di cura da parte dei genitori, rifugiandosi, fino alla sua morte, nella casa della nonna Keith, donna saggia ma dolente, che niente può di fronte al naufragare della sua discendenza.

È proprio nonna Keith che insegna alle due bambine a comprendere che la vita, come la coperta afghana che hanno realizzato insieme, ha un lato bello e ordinato, e un lato selvaggio, quello nel quale si vedono tutti i fili di mille colori utilizzati per realizzarla. Se si nasce su questo lato della vita - come Arc e Daffy - l'unica strategia possibile è rimettere i fili dentro e trasformare anche il lato selvaggio in qualcosa di bello. È questo dunque che Arc fa per tutta la sua breve esistenza: trasformare gli eventi orribili che capitano a lei e alla sua famiglia in storie a lieto fine, grazie al potere salvifico e quasi magico del racconto. Del resto, nonna Keith aveva raccontato alle bambine che nel loro passato c'era un'antenata che era stata bruciata in quanto considerata una strega, ma che in realtà si trattava solo di una donna capace di sognare e dunque poi anticipare gli eventi futuri, potere che anche Arc ha ereditato.

Assistiamo così alla vicenda di Arc e Daffy dalla loro infanzia pericolosa e a tratti gloriosa fino alla loro giovinezza e alla parabola che le porterà a finire nel vortice della droga e a doversi procurare il denaro per comprarla prostituendosi e rubando.

Quello di Tiffany McDaniel - come già avevo avuto modo di osservare nei precedenti romanzi - è un universo sfasciato e tragico, attraversato da una violenza sorda e onnipresente che scuote il lettore; al contempo però nei personaggi della McDaniel c'è una luce e una bellezza da cui non si può non rimanere folgorati. La McDaniel ha un interesse e un'attenzione particolari per le figure femminili e spesso si tratta di donne con cui la vita non è stata certamente generosa, che sono per molti versi deprecabili e indifendibili, ma verso le quali la scrittrice è in grado di muovere - anche nel lettore - una profondissima compassione e di evitare un giudizio superficiale. Non si riesce a sentirsi veramente estranei ai personaggi di cui la McDaniel parla, è impossibile ergersi sul proprio piedistallo e giudicare, perché la scrittrice ce li rende così vicini da costringerci a comprendere e talvolta addirittura ad amarli.

In secondo luogo, nei romanzi della McDaniel opera potentissima la forza del racconto, che forse è lo strumento primario con cui la scrittrice produce l'empatia di cui sopra. Spesso si sconfina nel magico, qui frequentemente ci si muove nei territori accidentati e allucinati dell'onirico, e spesso si fa fatica a capire cosa è accaduto veramente e cosa invece sta solo nella mente di Arc.

Ma è proprio questa la forza di una scrittrice che sa portarci dovunque vuole e non ci molla un'istante durante un viaggio emotivo che è una montagna russa di emozioni.

Voto: 3,5/5

venerdì 30 maggio 2025

La nueva ola. Festival del cinema spagnolo e latinoamericano. Cinema Barberini, 7- 11 maggio 2025

La nueva ola, il festival del cinema spagnolo e latinoamericano, giunto quest’anno alla diciottesima edizione, è un appuntamento da non perdere nella proposta culturale romana, perché – come vado dicendo da diversi anni – il cinema spagnolo è cresciuto tantissimo nel corso del tempo e va ben al di là dei nomi dei registi più famosi, bensì presenta un panorama di registi e sceneggiatori molto interessante e che conosciamo ancora troppo poco a causa di una distribuzione che non garantisce una copertura ottimale di questa cinematografia.

Ultimamente, poi, quando vado a un festival mi diverto a trovare dei fili conduttori nei film che vedo e più in generale nelle selezioni dei film scelti dagli organizzatori; mi pare che questa ricerca del fil rouge riveli in qualche modo delle tendenze e delle sensibilità nella cinematografia internazionale e in quella di specifici paesi. Ad esempio, in questo caso, ho individuato nella “lotta” individuale e sociale uno dei temi ricorrenti all’interno di tutti i film che ho visto, seppure con accezioni diverse.

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Querido Trópico

Il primo film che ho visto – preceduto dall’interessante corto colombiano Akababuru: expresión de asombro della regista del popolo indigeno Yagarí Irati Dojura Landa – è stato Querido Trópico, il film della regista Ana Endara, ambientato a Panama City.

Protagoniste di questo film sono Ana María (Jenny Navarrete), una immigrata colombiana che lavora nel settore della cura delle persone anziane, e Mercedes (la straordinaria Paulina García già apprezzata in Gloria), una signora benestante, anche lei proveniente dalla Colombia, che però a Panama ha costruito il proprio successo economico e, ora che è avanti con gli anni, vive in una grande casa con la governante.

Ana Marìa viene contattata dalla figlia di Mercedes per occuparsi della madre che comincia a mostrare i primi segni dell’Alzheimer, e dunque si trasferisce a casa della donna, che inizialmente la rifiuta e la accusa di essere una ladra. A poco a poco però le due donne si incontrano nelle rispettive fragilità, e forse anche nel loro essere incomprensibili per il mondo intorno.

Ana Marìa per tutti è una donna incinta, ma in realtà la sua pancia è finta (ha un cuscino). Perché si finga incinta non viene mai spiegato completamente: forse perché questo rende gli altri più tolleranti e generosi con lei, o forse perché ha perso un figlio in passato e ora è ossessionata dalla maternità, o ancora perché l’essere incinta la rende parte di una comunità, quella delle future mamme, in cui si sente accettata. L’unica che scoprirà la verità sarà Mercedes, ma sarà anche colei che non la giudicherà.

Dall’altro lato, Mercedes perde progressivamente il controllo della propria vita, delle proprie emozioni e dei propri sentimenti: nei momenti di lucidità soffre per questo, così come soffre del fatto che sua figlia non capisce o non accetta. A poco a poco Mercedes si trasforma in una donna bisognosa di supporto e affetto, senza giudizio, e l’unica in grado di offrirle queste cose è Ana Marìa.

Ana Marìa e Mercedes diventano una coppia quasi inseparabile, un po’ come i due parrocchetti in gabbia che vivono in casa di Mercedes e che più volte vengono inquadrati.

Sembrerebbe un film di genere anche piuttosto convenzionale, a tratti quasi documentaristico, ma secondo me la regista e sceneggiatrice sceglie di non spiegare tutto, di seminare indizi, di lasciare buchi nella narrazione per offrire allo spettatore interpretazioni possibili e alternative. Io ho fatto tutta una serie di ipotesi su alcuni snodi narrativi di cui però non ho trovato traccia in alcuna recensione, il che forse vuol dire che ho sovrainterpretato, oppure no. Chi lo sa.

Ho comunque apprezzato molto questa pellicola e non sono d’accordo con chi dice che non suscita empatia, perché per me che ho vissuto la malattia di mia madre vedere questa storia sullo schermo mi ha fatto rivivere moltissime emozioni, negative e anche positive.

Voto: 3,5/5



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Soy Nevenka

Il nuovo film di Icíar Bollaín (regista già apprezzata per il bellissimo Maixabel visto a una precedente edizione del festival) attinge ancora una volta a una storia vera e soprattutto è ancora una volta un film militante dal punto di vista politico e sociale.

Soy Nevenka è la storia di Nevenka Fernández (qui interpretata da Mireia Oriol), che tra il 1999 e il 2000, quando aveva solo 25 anni – rientrata nel suo paese, Ponferrada, dopo gli studi di economia a Madrid – fu chiamata dall’allora candidato sindaco del partito popolare, nonché amico di famiglia, Ismael Álvarez (Urko Olazabal) a far parte della giunta. L’uomo, dopo averla corteggiata fin da subito, riuscì ad avviare una relazione con la giovane, che però dopo poco decise di troncare. Iniziò così una vera persecuzione, con forme di molestia pesante e anche un’azione reiterata finalizzata ad attaccare l’immagine pubblica della donna.

Dopo un periodo di depressione, Nevenka – anche grazie al supporto di poche persone di fiducia – decise di denunciare l’uomo e il processo, contro ogni previsione, le diede ragione. Fu il primo caso di questo tipo vinto da una donna contro un uomo politico molto apprezzato e inserito nel territorio, nonché lanciato verso posizioni più alte della carriera politica.

Se la condanna è stata importante nella storia spagnola e ha costituito un precedente significativo per i casi successivi, Nevenka Fernández ha inevitabilmente pagato un prezzo molto alto a livello personale, per il modo in cui i suoi concittadini, i suoi colleghi di partito, i suoi parenti, i media e in generale l’opinione pubblica l’hanno giudicata e hanno vivisezionato i suoi comportamenti all’interno di una cornice a forte matrice patriarcale, costringendola a lasciare il suo paese e a farsi una nuova vita altrove.

Film be scritto, ben fatto e ben recitato. Di grande impatto.

Voto: 4/5



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Casa en flames

Casa en flames è il nuovo film di Dani de la Orden che si inserisce appieno – come dicono gli organizzatori del festival – nel sottogenere dei film sulla “ricca borghesia catalana annoiata” 😉

Protagonista di questo film è una famiglia disfunzionale il cui perno centrale intorno a cui tutto ruota è la madre Montse (Emma Vilarasau), una donna divorziata dal marito e con due figli grandi, la quale convoca tutta la famiglia – compreso l’ex marito – nella villa a Cadaqués ereditata dalla zia per trascorrervi tutti insieme un fine settimana prima della vendita.

Che in questa famiglia e in questa donna ci sia qualcosa di irrisolto si capisce fin da subito, quando Montse, recuperata in macchina dal figlio e dalla nuova fidanzata, in una sosta a casa della madre fa una scelta a dir poco bizzarra, che in qualche modo comprenderemo solo nel corso del film.

Nella villa in Costa Brava troveremo dunque, oltre a Montse, il figlio David (Enric Auquer) con la nuova fidanzata, la figlia Júlia (Maria Rodríguez Soto) con il marito e le due bambine, l’ex marito di Montse, Carlos (Alberto San Juan) con la nuova compagna Blanca (Clara Segura). Ognuno di loro dimostra di avere nodi irrisolti, fragilità e insicurezze più o meno grandi, e così - tra una gita in yacht e un lancio col paracadute – a poco a poco tutti i nodi vengono al pettine e soprattutto emerge in tutta la sua tragicità la figura manipolatrice di Montse, una donna fondamentalmente sola e alla ricerca, con ogni mezzo, dell’affetto altrui.

Ne viene fuori un quadro familiare comico ma anche profondamente tragico, supportato da una sceneggiatura a orologeria condita da discrete quantità di vetriolo, e che chiede allo spettatore un ruolo più attivo di quanto non appaia a prima vista nello sforzo di non puntare il dito sui vizi e i difetti dei singoli, bensì sulle storture proprie delle dinamiche familiari, che non risparmiano nessuno, comprese le famiglie benestanti.

Voto: 3,5/5



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El 47

El 47, il film di Marcel Barrena che ha fatto incetta di Goya all’ultima edizione dei premi, è ispirato alla storia vera di Manolo Vital (qui interpretato da Eduard Fernández), autista di autobus a Barcellona, arrivato in Catalogna alla fine degli anni Cinquanta dopo essere andato via dall’Extremadura, insieme alla figlia Joana (Zoe Bonafonte). Manolo fu tra coloro che contribuì a costruire il primo nucleo del quartiere vicino a Torre Barò, sulla montagna alla periferia di Barcelona, dove molte altre famiglie provenienti da altre parti della Spagna si installarono dopo la guerra, trasformando la baraccopoli iniziale in un quartiere vero e proprio.

Questi immigrati interni lavoravano tutti in città, facendo i lavori più disparati, ma tornando ogni sera in un posto dove anche i servizi minimi, come l’elettricità e l’acqua, non erano garantiti ed erano oggetto di quotidiane battaglie.

Dopo aver fatto richiesta dell’attivazione di servizi di trasporto pubblico attraverso i normali canali della burocrazia e non aver ottenuto nulla, Manolo si risolse a “sequestrare” l’autobus che guidava da vent’anni, il 47 appunto, e ad arrivare a Torre Barò. Per questo finì sotto processo e solo molto più avanti fu reintegrato.

Ancora una volta una lotta per i diritti, e di fatto una lotta di un qualche Davide contro Golia, in cui, nonostante il successo, il Davide di turno ha dovuto rimetterci personalmente.

Anche in questo caso il film è ben fatto e ben recitato, e sicuramente ha una valenza che va ben oltre quella cinematografica e fa riflettere su tanti temi anche della contemporaneità. A me – come spesso accade ultimamente – suscita anche una forma di frustrazione per diversi motivi. Mi chiedo perché la politica è così lenta rispetto alle esigenze del territorio, perché non si può fare a meno del sacrificio dei singoli per farsi ascoltare, perché in alcuni casi bisogna scegliere persino la strada dell’illegalità per innescare un cambiamento, e mi chiedo infine chi farà le lotte per i diritti e per l’equità sociale in un mondo in cui la frammentazione ha preso il sopravvento e i corpi intermedi sono in profonda crisi.

Insomma El 47 mi ha dato tanto da pensare.

Voto: 3,5/5


mercoledì 28 maggio 2025

Ho paura torero / di Pedro Lemebel; regia di Pietro Longhi. Teatro Argentina, 16 aprile 2025

A partire dall'adattamento per il teatro del romanzo di Pedro Lemebel a opera di Alejandro Tantanian, Pietro Longhi porta in scena Ho paura torero, il cui ruolo principale, quello della Fata dell'angolo, è interpretato da Lino Guanciale, circondato da un gruppo di attori che interpretano gli altri ruoli, dal dittatore Augusto Pinochet e sua moglie doña Lucia al giovane universitario Carlos fino a Laura e alle altre numerose voci della Santiago del Cile del 1986, anno in cui è ambientata la storia.

Dopo il colpo di stato del 1973 con cui si apre la narrazione, il Cile si trova, da ormai molti anni, sotto una dittatura militare, che Lemebel dipinge come crudele ma anche ridicola.

Il fronte patriottico Manuel Rodriguez sta preparando un attentato per uccidere il dittatore e per una serie di circostanze (in particolare il suo incontro con il giovane Carlos), la casa della Fata, un travestito ormai avanti con l'età, diventa la base organizzativa del gruppo. Procedono così parallelamente il rapporto tra la Fata e Carlos (una specie di storia d'amore impossibile), l'organizzazione dell'attentato, i siparietti di Pinochet e sua moglie, le manifestazioni di piazza e la repressione.

Con uno stile pop camp, in cui il personaggio del travestito - che è interessato all'amore, alle canzoni, e ai ricami più che alla politica - si racconta in realtà una storia di formazione politica, anche sottintendendo che una figura come la Fata è politica a prescindere da tutto.

La storia raccontata da Lemebel è bella e interessante. Riguardo allo spettacolo alcuni aspetti sono molto convincenti, ad esempio la scenografia fatta di casse che creano contesti differenti, alcuni oggetti ed elementi che in modo semplificato rimandano ad ambientazioni, i due livelli su cui accadono cose diverse come ormai gli scenografi amano fare, le proiezioni sullo sfondo del palcoscenico.

Sono rimasta invece perplessa dalla scelta di un adattamento che non trasforma il romanzo in veri e propri dialoghi, ma affida ai personaggi sia discorsi in prima persona che in terza persona (parlando di sé stessi), come se stessimo ascoltando un audiolibro. Questa modalità avrà anche ascendenze nobili ma a me convince poco e non piace granché.

Inoltre gli attori, che meritoriamente recitano senza essere amplificati, tendono però ad avere un tono alto ed enfatico che rende la recitazione piuttosto monocorde e poco empatica.

In conclusione, pur apprezzando la storia non ho amato particolarmente la trasposizione teatrale e piuttosto mi è venuta voglia di leggere il romanzo.

Voto: 3/5

lunedì 26 maggio 2025

Queer

Non conoscevo il racconto di William S. Borroughs da cui è tratto l’ultimo film di Luca Guadagnino, né ho mai letto nulla in generale di questo acclamato scrittore, quindi certamente non sono in grado di comprendere a pieno la relazione tra il film e il racconto e quanto delle caratteristiche del film dipendano dalla scrittura e dalla narrazione di Borroughs e quanto dalle scelte di regista e sceneggiatore.

Ma un film va valutato per quello che è, indipendentemente dal testo al quale si ispira. E dunque mi limiterò appunto a fare qualche considerazione su quello che ho visto.

Non c’è dubbio sul fatto che Guadagnino dimostri con questo film di essere non solo un regista prolifico, ma anche fortemente eclettico, se si pensa che negli ultimi anni ha realizzato pellicole profondamente diverse, da Bones and all a Challengers fino ad arrivare appunto a Queer, film che non sembrano prodotti dalla stessa mano.

In quest’ultimo film – siamo negli anni Cinquanta - protagonista è un americano, William Lee (molto ben interpretato da Daniel Craig), che vive in Messico, forse perché – in quanto dipendente da alcol e droghe di vario tipo – ha scelto di andar via dal suo paese. William conduce la sua vita passando da un bar all’altro della città, alla ricerca di giovani uomini da portarsi a letto. Un giorno incontra Eugene Allerton (Drew Starkey), un giovane delicato e di bella presenza, con cui inizia prima un gioco di sguardi, poi un’amicizia, poi forse qualcosa in più, anche se non è mai chiaro se Eugene sia o no gay, in quanto il suo atteggiamento è spesso ambiguo e sfuggente.

Per William, Eugene diviene una vera e propria ossessione, e riuscirà a convincere il ragazzo a seguirlo in un viaggio in Sudamerica alla ricerca di una pianta, lo yage, che ha letto essere utilizzato negli esperimenti di telepatia, forse sperando che la condivisione di questa esperienza faccia evolvere il loro rapporto in qualcosa di più importante.

Una storia già di per sé narrativamente piuttosto fantasiosa viene trattata dal regista in maniera quasi fiabesca, a partire dalle scelte di ambientazione e di scenografia – prevalentemente realizzate in studio e palesemente poco realistiche a livello di luci e atmosfere – passando per la scelta delle musiche – una colonna sonora tutta fatta di musiche contemporanee per una storia ambientata negli anni Cinquanta – fino ad arrivare alla forte componente onirica e psichedelica.

Si sarà forse già inteso che personalmente non ho molto apprezzato questa versione di Guadagnino, un po’ radical chic e un po’ pretenziosa, che dal punto di vista visivo risulta certamente affascinante, ma anche fastidiosamente estetizzante e quasi nonsense (in un modo che a tratti ho trovato quasi Sorrentiniano), e dal punto di vista narrativo, se da un lato riesce a comunicarci con forza il senso di solitudine, di ossessione, di infelicità senza vie di uscite del protagonista, dall’altro attinge a un immaginario e a un punto di vista gay che finisce per essere stereotipato, e pure questo un po’ fastidioso.

Se – come diversi amici mi hanno detto e io stessa ho fatto – bisogna andare a leggersi delle cose al di là del film per poterne capire e apprezzare alcune scelte, allora forse il film non si può dire perfettamente riuscito nelle sue intenzioni.

Ciò detto, la personale delusione non mi impedirà di catapultarmi al cinema la prossima volta che uscirà un nuovo film di Guadagnino.

Voto: 2,5/5


mercoledì 21 maggio 2025

Filippo Timi live. Non sarò mai Elvis Prestley. Argot studio, 12 aprile 2025

Come già un po’ si capisce dal titolo dello spettacolo, Filippo Timi torna a teatro con una performance anomala, difficile da definire, un po’ concerto, un po’ flusso di coscienza, un po’ divertissement.

Sul piccolo palco del Teatro Argot Studio il pavimento è coperto dal telone a strisce bianche e rosse di un circo e ai lati campeggiano due grandi cartonati che rappresentano un rinoceronte e un gorilla. Sullo sfondo vanno le immagini di trasmissioni televisive degli anni Ottanta e Novanta, in negativo.

Sul palco il giovane Lorenzo Minozzi, che accompagna musicalmente la performance di Timi.

È già da un po’ di tempo che Timi sembra attraversare un momento particolare della sua vita: io lo interpreto come una crisi di mezza età, in cui da un lato cominci a vedere all’orizzonte e ad essere ossessionato dalla paura della malattia e della morte, dall’altro – nell’idea di non avere tempo – non ne puoi più di fingere, di tenerti le cose dentro, di non dire al mondo le tue verità.

Ebbene, i suoi spettacoli ultimamente oscillano tra cose molto belle e riuscite e altre un po' strane, perché sembrano sempre di più l’occasione per tirare fuori verità e quasi “sfogarsi” davanti al pubblico, producendo un effetto che è divertente ma anche angosciante, in alcuni casi addirittura cringe.

In questo caso, Timi innanzitutto si esibisce in un repertorio di canzoni scritte da lui stesso e che sono accompagnate dall’handpan (due modelli diversi) che suona in prima persona e dagli arrangiamenti musicali di Minozzi, mentre sulla parete di fondo del teatro vengono proiettati i video che supportano le musiche.

Tra una canzone e l’altra racconti di episodi allegri e meno allegri della propria vita, riflessioni sull’esistenza, commenti sulla società, su sé stesso, sui propri colleghi, piccoli scambi di battute col pubblico.

Come tutto questo si tenga insieme non è dato saperlo, e soprattutto quando lo spettacolo termina ci guardiamo tutti un po’ spaesati, con un groppo in gola e un peso sullo stomaco, sperando che Filippo Timi, senza perdere tutto quello che una crisi di mezza età aiuta a maturare, possa ritrovare una strada artistica e personale che gli corrisponda in questa seconda parte della sua vita.

Glielo auguro di cuore, sia umanamente che professionalmente, perché in qualche modo mi sembra quasi di comprendere come si sente e forse proprio per questo l’impatto emotivo di questa fase della sua vita su di me è particolarmente pesante.

Voto: 2,5/5

lunedì 19 maggio 2025

The last showgirl

Siamo a Las Vegas. Shelly Gardner (Pamela Anderson) va ormai verso i sessanta, e da circa quarant’anni si esibisce come ballerina per Le Razzle Dazzle, uno spettacolo ispirato a quelli tutti strass e piume dei locali di rivista come il Lido di Parigi.

Shelly, che non ha mai completamente dismesso il suo approccio adolescenziale alla vita, ha sacrificato tutto per Le Razzle Dazzle, persino la possibilità di coltivare un rapporto con sua figlia Hannah (Billie Lourd) che ha avuto molto giovane e ha affidato a una famiglia di Tucson.

Purtroppo però Le Razzle Dazzle ha sempre meno seguito e il manager Eddie (Dave Bautista) comunica a Shelly e alle altre ballerine che lo spettacolo sta per essere chiuso e sarà sostituito da uno spettacolo circense.

Il mondo di Shelly è dunque destinato ad andare in frantumi e la donna non solo deve prendere atto del tempo che passa e del corpo che invecchia, ma deve anche fare i conti con le scelte che ha fatto e le inevitabili conseguenze.

Il personaggio di Shelly, nella sua apparente leggerezza e/o superficialità, si rivela presto un personaggio dolente, una donna che – come l’amica Annette (una cringissima Jamie Lee Curtis) – avendo costruito la propria vita e la propria carriera sulla giovinezza e la bellezza si ritrovano a un certo punto espulse dallo showbiz e con un pugno di mosche in mano, disperate, e senza una prospettiva né economica né affettiva.

Come mi piace dire ultimamente, il cinema ha ricominciato (o cominciato) a interessarsi sempre di più dell’età che avanza, in particolare in riferimento alle donne, sulle quali l’aspettativa sociale di continuare a risultare giovani e belle è sempre più pressante. Da questo punto di vista, il film si ricollega idealmente, fatte le dovute differenze, a The substance, e per altri aspetti a The wrestler di Aronofsky (che però non ho visto).

La Shelly di Pamela Anderson è un personaggio sfaccettato e contraddittorio: un po’ bambina nell’incapacità di assumersi le proprie responsabilità e di accettare di essere un punto di riferimento emotivo per altre persone, ma anche a suo modo a tratti generosa, con una dedizione e una passione per quello che fa sincere, sebbene ingenue, ma anche incapace di rinunciare all’adrenalina e al ritorno emotivo dei riflettori e di pensare razionalmente al proprio futuro.

La decadenza di una persona si specchia nella decadenza di una città e in fondo di un’epoca, gli anni Ottanta, che proprio nella città di Las Vegas hanno forse trovato la loro massima rappresentazione.

Ma la parabola di Shelly va oltre il declino di una forma di intrattenimento o il superamento di un momento storico, e si fa tema universale e che nella sua essenza riguarda le vite di tutti noi. È esperienza comune quella di investire le proprie energie giovanili in una prospettiva professionale a cui affidiamo il senso di tutta la nostra esistenza, spesso lasciando per strada altre cose, salvo poi accorgerci che la nostra identità non può dipendere da una sola dimensione e che sta a noi e alla nostra crescita personale imparare ad accettare i cambiamenti della vita e reinventarsi, anche accettando l’idea che il trascorrere del tempo ci spinge lontano dalla ribalta, verso la platea o addirittura dietro le quinte. Ma che anche in queste posizioni ben più defilate si può ancora vivere bene, ed avere un’esistenza piena.

Shelly – e Annette – ci muovono a compassione, la loro disperazione ci scuote, ma al contempo costringe a farci i conti. Che una giovane regista (Gia Coppola ha meno di 40 anni) sia stata in grado di proporre uno sguardo così delicato e profondo (e non scontato) sul passare del tempo è al contempo sorprendente ed encomiabile.

Voto: 3,5/5


giovedì 15 maggio 2025

Boomers / di e con Marco Paolini, e con Patrizia Laquidara. Teatro Brancaccio, 1 aprile 2025

Mah.

Il mio post potrebbe terminare qua, visto che questo è lo scarno pensiero che mi ha attraversata durante tutta la visione dello spettacolo e anche al termine.

Il fatto è che negli ultimi anni mi sta succedendo con Paolini la stessa cosa che sta accadendo con Celestini, ossia che faccio sempre più fatica a trovare interessanti i loro spettacoli e la cosa mi intristisce molto, visto che in entrambi i casi avevo amato moltissimo alcuni loro lavori più risalenti nel tempo.

Non so da cosa dipenda, se dall’età che avanza (la loro e anche la mia), da un contesto profondamente trasformato (in cui il teatro di parola deve in parte reinventare sé stesso ma non sa bene in quali direzioni), o da altro che non sono in questo momento in grado di identificare.

Con Boomers per me Paolini realizza uno spettacolo privo di nerbo e di identità: la narrazione è sfilacciata e a tratti affastellata, il tono non riesce a trovare un equilibrio tra l’ironico e il drammatico, tra il leggero e il malinconico, gli obiettivi sono un po’ confusi e poco focalizzati, e il contenuto non riesce a trovare un vero centro di interesse.

Tutto inizia dal bar della Jole in quella lunga notte del 1969 in cui l’uomo toccò per la prima volta la superficie lunare; e da lì la narrazione vorrebbe seguire la complessa e articolata storia dell’Italia, soprattutto dei suoi sviluppi sociali e tecnologici, da quel piccolo ma significativo punto di vista che è un piccolo bar della provincia veneta. E invece a un certo punto irrompe il dialogo con il figlio e il gioco che, attraverso un casco per la realtà virtuale, permette al protagonista da un lato una galoppata fantastica nel tempo e nello spazio, dall’altro la memoria nostalgica di un tempo passato.

Persino le musiche cantate dal vivo dalla brava Patrizia Laquidara e suonate da altrettanto bravi musicisti non riescono a risollevare lo spettacolo dalla sua medietà, e devo dire che anche la selezione musicale risulta alla fine fin troppo nazional-popolare e si chiude con il coro del pubblico su Figli delle stelle di Alan Sorrenti.

Ora, sicuramente io sono troppo critica: intorno a me c’erano persone entusiaste in alcuni casi e contente in altri. Però, a me sembra che Paolini (un po’ come Celestini) stia facendo fatica a ritrovare la sua voce nel mondo di oggi e capisco che non è facile quando hai ormai un’età e sono 40 anni che fai lo stesso mestiere.

A me spiace molto, e spero davvero in un futuro guizzo che mi costringerà a rivedere il mio giudizio e a ribaltare le mie riflessioni.

Voto: 2/5

martedì 13 maggio 2025

We were dangerous

Nell’ambito della ventesima edizione di Immaginaria (International Film Festival of Lesbians & Other Rebellious Women) riesco solo a fare un salto sabato pomeriggio (nella prestigiosa location del cinema Nuovo Sacher) per vedere il film della regista neozelandese Josephine Stewart-Te Whiu, We were dangerous, sua opera prima.

Siamo in Nuova Zelanda nel 1954. La Te Motu School for Incorrigible and Delinquent Girls è una specie di collegio nel quale sono recluse ragazze devianti secondo gli standard dell’epoca, ma che quasi sempre provengono da famiglie difficili o abusanti da cui queste ragazze sono dovute scappare finendo per commettere qualche piccolo furto o altri piccoli crimini.

Tra queste ragazze, Nellie (Erana James) e Daisy (Manaia Hall), due giovani di origine maori, provano a un certo punto a scappare insieme ad un’altra giovane incinta. Il tentativo purtroppo non riesce e tutte le ragazze, insieme alla responsabile del collegio (Rima Te Wiata), vengono trasferite in un’isola remota, in baracche fatiscenti, per limitare al minimo i loro contatti con il mondo esterno e continuare con ancora maggiore determinazione l’opera di rieducazione morale e religiosa.

Sull’isola arriva a un certo punto anche Lou (Nathalie Morris), bianca e bionda, figlia di una famiglia benestante, che però è considerata sessualmente deviante. Lou solidarizza con Nellie e Daisy, e le tre ragazze insieme contrasteranno i piani della matrona e progetteranno la fuga.

Il film della regista neozelandese è un’ode all'energia eversiva dell’adolescenza contro il tentativo di schiacciare con la forza minoranze e diritti (in particolare delle donne) in nome della superiorità di un popolo, di una razza o di una religione.

Un film abbastanza convenzionale e prevedibile, ma tutto sommato – tanto più in questo momento storico – una storia che ci fa riflettere sul fatto che di fronte alla sopraffazione non bisogna mai abbassare la guardia, perché la guerra non è mai vinta completamente, e per combatterla serve l’energia, il desiderio di libertà e la sfrontatezza della gioventù.

Voto: 3/5


domenica 11 maggio 2025

Maus. Racconto di un sopravvissuto / Art Spiegelman

Maus. Racconto di un sopravvissuto / Art Spiegelman. Torino: Einaudi, 2000.

Maus è l’acclamatissimo graphic novel che Art Spiegelman ha dedicato al racconto della vicenda di suo padre Vladek, ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento.

La narrazione si svolge su due piani temporali: il presente, ambientato in America, che vede Vladek ormai anziano e di non facile gestione e Art che ci deve fare i conti, sia come figlio che si prende cura del padre, sia come artista che ha bisogno di raccogliere informazioni sulla sua storia passata.

La scelta di fondo del fumettista, che spiega anche il titolo del graphic novel, è di rappresentare gli ebrei con volti di topi, e a cascata anche gli altri con fattezze animalesche: i nazisti come gatti, i polacchi come maiali, i francesi come rane, gli americani come cani.

Maus uscì inizialmente in due volumi, intitolati rispettivamente Mio padre sanguina storia e E qui sono cominciati i miei guai, che sono poi stati raccolti in un volume unico, come quello dell’edizione Einaudi che ho letto io.

La prima parte si concentra sul periodo antecedente alla guerra: inizia raccontando della visita di Vladek alla famiglia a Sosnowiec in Polonia, dell’incontro con la giovane Anja, del matrimonio con lei. Quando scoppia la guerra, inizia per Vladek e Anja una vita di espedienti e di nascondimenti, ed è solo grazie alla ricchezza familiare che i due riescono ancora a sopravvivere.

Nella seconda parte, dopo che Vladek e Anja hanno tentato di fuggire in Ungheria per scampare alla persecuzione nazista, traditi dagli stessi che hanno pagato per attraversare la frontiera, finiscono ad Auschwitz, dove vengono separati e affrontano l’orrore della vita nel campo di concentramento, tentando in ogni modo di sfuggire ai forni crematori.

Sopravviveranno entrambi, ma gli orrori vissuti, le persone morte, tra cui il loro primo figlio, lasceranno un segno indelebile sulle loro vite, tanto che molto più avanti Anja morirà suicida (vicenda questa raccontata sempre da Spiegelman in un altro graphic novel a limitatissima diffusione, alcune pagine del quale vengono riproposte in Maus, quando il padre ne scopre l’esistenza).

La forza del fumetto di Spiegelman sta nella profonda sincerità che attraversa le sue pagine: Art non nasconde niente delle fatiche del rapporto col padre, taccagno in modo quasi patologico e sempre più burbero a causa dell’età che avanza, né si sottrae all’esposizione dei propri stessi sentimenti, non facili, a fronte della storia dei suoi genitori e della morte di un fratello che non ha mai conosciuto. La stessa sincerità attraversa il racconto dell’esperienza di Vladek prima e durante la guerra, e proprio grazie a questa sincerità emerge con grande forza la disperata lotta per la sopravvivenza di cui è stato protagonista suo padre, che alla fine si è salvato anche perché ha saputo ben giocarsi le sue carte ma anche e soprattutto perché è stato più fortunato di altri.

È vero che ormai della persecuzione degli ebrei sappiamo moltissimo e l’Olocausto è stato raccontato in tanti modi diversi, e in molti casi con grandissima efficacia, ma non c’è dubbio che l’opera di Spiegelman si colloca tra gli esempi più luminosi e meglio riusciti all’interno dell’ampio catalogo di questo tipo di narrazioni.

Da non perdere.

Voto: 4/5

giovedì 8 maggio 2025

Rendez-vous: festival del nuovo cinema francese. Nuovo Sacher, 2-6 aprile 2025

Ed eccoci alla nuova edizione del Rendez-vous, il festival del nuovo cinema francese che nasce dall’iniziativa dell’Ambasciata di Francia in Italia, è realizzato dall’Institut français Italia, co-organizzato con Unifrance, e ospitato da anni dal Cinema Nuovo Sacher. Peccato che quest’anno Nanni Moretti non possa essere presente, essendo purtroppo ricoverato in ospedale, ma in più occasioni alla presenza dei registi e degli attori manda un saluto telefonicamente.

Non so se in questa edizione del festival sia stata fatta una specifica scelta, o caso ha voluto che io abbia fatto praticamente una selezione a tema, ma tutti i film che ho visto ruotavano intorno al tema del rapporto genitori-figli, affrontando questa relazione nei contesti e nelle maniere più varie. Interessante anche che alcuni dei film in programma fossero ambientati in luoghi diversi dalla Francia, pur avendo protagonisti francesi, ma inseriti in contesti altri rispetto a quello di origine.

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Quand vient l’automne = Sotto le foglie

Quand vient l’automne è l’ultimo film di François Ozon, uscito anche nelle sale italiane con il titolo Sotto le foglie.

Il regista francese, particolarmente prolifico negli ultimi anni, prende spunto da un episodio della sua infanzia (o almeno questo ci riferisce il distributore italiano) per un racconto familiare che vira verso il noir.

Siamo in un paesino rurale della Borgogna: in una bella casa con un grande giardino abita Michelle (Hélène Vincent), una ex prostituta che trascorre le sue giornate dividendosi tra le funzioni religiose, la cura del giardino, la raccolta dei funghi e le chiacchiere con l’amica ed ex prostituta Marie-Claude (Josiane Balasko).

Michelle ha una figlia Valérie (Ludivine Sagnier, ospite al festival) che vive a Parigi con il figlioletto Lucas e si sta separando dal marito; Marie-Claude ha un figlio, Vincent (Pierre Lottin), che è appena uscito dal carcere.

Un’intossicazione da funghi di Valérie durante una visita dalla madre innesca una serie di eventi, non necessariamente concatenati in maniera causale, visto che Ozon sceglie di lasciare dei buchi nella narrazione per affidare allo spettatore il compito di riempirli secondo la propria sensibilità e punto di vista.

Dentro il film di Ozon – in cui non manca nemmeno l’elemento onirico – ci sono molte tematiche diverse, ma tutte ruotano intorno a due temi principali: le dinamiche tipiche delle piccole comunità rurali che accolgono e stigmatizzano al contempo, e la complessità delle relazioni familiari che spesso vanno al di là dei legami propriamente di sangue.

Come altri hanno fatto notare, alcune atmosfere e ambiguità del film di Ozon richiamano il recente L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie, anche nell’uso del registro noir e per l’attenzione alle dinamiche familiari in un contesto piccolo e rurale, ma ciascun regista ci mette del proprio e fa virare la narrazione nelle direzioni più congeniali alla propria sensibilità.

Voto: 3/5




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Le royaume

Il regista Julienne Colonna, ospite al festival, decide di ambientare il suo film Le royaume in Corsica, una terra che è a suo modo estranea alla Francia per storia, tradizioni e lingua. Al centro del racconto, che si svolge a metà anni Novanta, il rapporto tra una figlia, Lesia (Ghjuvanna Benedetti) e suo padre, Pierre Paul (Saveriu Santucci). Nella classica estate del passaggio dall’infanzia all’età adulta, Lesia, che vive con gli zii, partecipa ai lavori in campagna, alla cura degli animali e alla caccia, mentre vive i suoi primi amori. Un giorno viene prelevata da casa degli zii e portata nel luogo dove suo padre è latitante, circondato dai suoi uomini. Da questo momento, Lesia si troverà da un lato a condividere del tempo con suo padre e ad avere la possibilità di conoscerlo e rafforzare il legame con lui, dall’altro a essere coinvolta nella brutale guerra di mafia che metterà l’uno contro l’altro i clan mafiosi dell’isola.

Il film di Colonna, pur mescolando generi diversi, riserva un’attenzione particolare alla componente intima del racconto, e dunque all’aspetto della relazione padre-figlia e anche alle dinamiche proprie del romanzo di formazione in cui Lesia è completamente immersa. Come ci dice il regista, il film prende spunto da una memoria individuale – una vacanza passata con suo padre in un camping in Corsica per poi scoprire che in quel momento il padre era latitante – per diventare una narrazione che va al di là dello spazio e del tempo.

Il film è molto ben scritto (come molti film francesi), ottimamente interpretato da attori non professionisti e corsi doc, e tiene alta la tensione fino all’ultima scena.

Voto: 3,5/5



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Hiver à Sokcho

A Sokcho, una piccola cittadina portuale della Corea del Sud, quasi al confine con la Corea del Nord, vive con la madre la giovane Soo-Ha (Bella Kim), franco-coreana, ma che non è mai stata in Europa e non ha mai conosciuto suo padre. Lavorando in una piccola pensione della città, la ragazza conosce un misterioso disegnatore di fumetti (Roschdy Zem) arrivato dalla Normandia in Corea alla ricerca di ispirazione per il suo lavoro. Questo incontro attiva nella ragazza una serie di sentimenti rimossi che la spingono da un lato a ricercare la verità su suo padre, dall’altro a rimettere in discussione le sue scelte di vita e le prospettive per il futuro. Anche in questo caso siamo di fronte alle dinamiche scatenate dall’assenza di un rapporto padre-figlia, che si riversano sull’interazione tra il fumettista, completamente concentrato su sé stesso e sui propri obiettivi, e la ragazza che deve a un certo punto lasciar andare il passato per guardare avanti.

Il film di Koya Kamura è ispirato all’omonimo romanzo di Elisa Shua Dusapin, a sua volta in parte autobiografico, ed è impreziosito da alcune sequenze animate realizzate da Agnès Patron. Dentro il film molti altri elementi: la difficoltà di essere meticci in una società come quella coreana, il rapporto con il proprio corpo, la dinamica tra città e provincia, la storia passata della Corea del Sud, il rapporto con l’Occidente e con la Corea del Nord. Non sono sicura che tutti questi elementi si amalgamino bene, ma certamente Hivér à Sokcho è un interessante occasione per gettare lo sguardo su un mondo che conosciamo poco o che conosciamo solo nelle sue manifestazioni più evidenti ed esportate.

Voto: 3/5



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Une part manquante = Ritrovarsi a Tokyo

Il festival del nuovo cinema francese si chiude con questo film di Guillaume Senez (presente in sala), che racconta ancora una volta la storia di un padre e di una figlia. In questo caso siamo in Giappone, dove Jay (Romain Duris) vive da molti anni e fa il tassista, sperando da ormai nove anni di poter incontrare la figlia Lily (Mei Cirne-Masuki) di cui dopo la separazione dalla moglie giapponese ha perso le tracce. Un giorno, inaspettatamente, sale sul suo taxi una ragazzina con le stampelle che Jay riconosce come sua figlia. Da qui in poi il suo tentativo di aprire un canale di dialogo con la figlia e creare le condizioni per un rapporto duraturo. Il film di Senez parla ancora di figli meticci, con genitori provenienti da mondi e culture differenti, ma soprattutto parla di una società giapponese che non prevede l’affido condiviso dei figli nel caso di divorzio dei genitori, con l’inevitabile innescarsi di guerre che spesso allontanano un genitore dal figlio fino alla maggiore età e trasformano la vita di queste persone in un incubo, con conseguenze sulla salute mentale e sulla situazione economica. Questa condizione può ovviamente riguardare anche genitori entrambi giapponesi, ma assume risvolti ancora più drammatici nel caso in cui uno dei genitori non sia giapponese, come nel caso di Jay. Tra l’altro, nel film il personaggio di Jessica (Judith Chemla) fa da specchio del protagonista, in quanto pur trovandosi nella stessa situazione rispetto al proprio figlio, non intende rassegnarsi in alcun modo alla situazione né assecondare i modi imposti dalla società giapponese, come Jay che invece è più giapponese dei giapponesi, eppure resta uno straniero emarginato e non integrato veramente.

Il film di Senez, magnificamente interpretato da Romain Duris che dimostra anche di saper parlare un perfetto giapponese, si focalizza sul rapporto tra padre e figlia, su quanto sia necessario per entrambi e impossibile da rimuovere forzatamente, ma parla anche dell’essere stranieri anche quando si accettano completamente le regole del paese che ci ospita e porta all’evidenza un tratto davvero disumano della società giapponese che personalmente non conoscevo. Anche grazie a una colonna sonora di grande impatto, il film riesce a far leva sulle emozioni dello spettatore, senza essere mai melodrammatico.

Voto: 4/5